Colonna
. Una delle più antiche e potenti famiglie di Roma. Le sue vicende dai primi anni del sec. XII, quando compare per la prima volta nella storia, alla metà del sec. XIII, non riguardano il lettore di D.; inoltre, questo è interessato solo al ramo dei C. di Palestrina (gli altri due rami furono quelli di Gallicano e di Genazzano), costituitosi con l'atto di divisione del 7 febbraio 1252 (Petrini, pp. 411 ss.).
Il suo patrimonio comprendeva Palestrina, Zagarolo, Colonna, Capranica, metà dei castelli di ‛ Prata Porci ' (presso Monteporzio) e di Algido; inoltre diritti nei castelli di S. Vito, Montemanno, Castelnuovo e Pisciano (tutti dalla parte di Capranica) e la rocca di Torre di Marmo nella diocesi di Palestrina. Nella città di Roma, dove fu il solo ramo colonnese a mantenere la sede, aveva le case alle pendici del Quirinale, accanto alla chiesa dei SS. Apostoli, dove ancora oggi sorge il palazzo Colonna; e possedeva inoltre le fortezze di Montecitorio (‛ Mons Acceptorii ') e dell'Agosta (il mausoleo di Augusto). Alla metà del Duecento capo della famiglia era Giovanni, senatore nel 1261 con Giovanni Poli, nel 1262 con Giovanni Annibaldi e nel 1280 con Pandolfo Savelli, con il quale resse il senatorato in nome del papa Niccolò III Orsini, a cui il popolo romano lo aveva conferito come a persona privata. Giovanni C. va ricordato anche come autore della vita della sua sorella clarissa, la beata Margherita (cfr. L. Oliger, B. Margherita Colonna. Le due vite scritte dal fratello Giovanni Colonna, senatore di Roma e da Stefania monaca di S. Silvestro in Capite, Testi inediti del sec. XIII, Roma 1935).
Niccolò III, il 12 marzo 1278, creò cardinale di S. Maria in Via Lata il fratello di Giovanni, Iacopo C., con l'intenzione forse di assicurare agli Orsini l'alleanza dei C. contro gli Annibaldi. " Certo è ad ogni modo che, da allora, i C. ripresero a contare nella vita romana: anzi assunsero, un po' alla volta, la posizione di preminenza che avevano avuta fino a quel momento gli Annibaldeschi, e finirono poi per divenire, come quelli, fatalmente gli avversari degli Orsini " (Duprè, p. 203). Tuttavia una vera posizione di supremazia a Roma e nello stato pontificio, i C. l'assunsero sotto il pontificato di Niccolò IV. Mentre infatti il 10 marzo 1288 fu nominato rettore del ducato di Spoleto Landolfo, fratello di Giovanni, il 18 maggio veniva creato cardinale di S. Eustachio Pietro, figlio dello stesso Giovanni e nipote del cardinale Iacopo; un altro figlio, Stefano, che sarà la figura più rappresentativa della famiglia, il giorno precedente, era stato fatto rettore di Ascoli, e l'anno dopo ebbe il governo della Romagna col titolo di conte; infine il 27 giugno Giovanni stesso ebbe il governo della Marca d'Ancona, che lasciò al figlio Agapito, quando nel 1290 fu nominato ancora una volta senatore di Roma. In quel tempo il cardinale Iacopo fece eseguire importanti lavori a S. Maria Maggiore e fondò a S. Giacomo in Agosta l'ospedale tuttora esistente, d'accordo col nipote cardinale Pietro, il quale dal canto suo, nel 1293, comprava Nepi nel Patrimonio e, nel 1296, acquistava il dominio di Ninfa nella Marittima.
La potenza crescente dei C., di tendenze ghibelline e in stretti rapporti con Federico d'Aragona, re di Sicilia (Finke, Aus den Tagen... Quellen, pp. XI-XIV), nonostante che Carlo II d'Angiò avesse loro concesso in Abruzzo i feudi di Manoppello, Tocco Casauria, Casale del Conte e Carapelle, diede origine allora a quella rivalità con gli Orsini, guelfi e favorevoli agli Angioini, che sarà una delle caratteristiche costanti della storia cittadina di Roma. In quel momento però, negli anni a cavallo tra i secoli XIII e XIV, si verificò lo scontro aperto, violentissimo, con Bonifacio VIII e la famiglia dei Caetani. Tutta la contesa si potrebbe configurare " come la lotta per la vita e per la morte fra la vecchia nobiltà cittadina e gli homines novi della Campagna " (Duprè, p. 308), quali erano appunto i Caetani. All'inizio si era trattato solo del solito antagonismo fra nobili, dovuto al proposito di ascesa familiare tenacemente perseguito dal cardinale Benedetto Caetani, che poi però si era andato approfondendo anche per il diverso atteggiamento di fronte alla questione siciliana, in cui i C. si mostrarono favorevoli agli Aragonesi e il Caetani agli Angioni e, soprattutto, per i buoni rapporti che questi intratteneva con il cardinale Matteo Rosso Orsini, irriducibile avversario dei colonnesi. Tuttavia i cardinali Iacopo e Pietro C. furono favorevoli all'abdicazione di Celestino V, e votarono per Benedetto Caetani, che fu eletto papa col nome di Bonifacio VIII, e furono al suo fianco nei primi tempi del pontificato. Ben presto però l'autoritario Bonifacio VIII cominciò a urtarsi con il collegio cardinalizio e soprattutto con i due C., dai quali lo separava un complesso di motivi vecchi e nuovi, che andavano dalla questione siciliana a quella degli spirituali, ai diritti dei cardinali fino alla legittimità della sua elezione a pontefice: tutti aspetti che andavano a convergere nel motivo di fondo del dissenso, costituito dalla rivalità familiare. Per la rottura definitiva sarebbe bastato ormai un qualsiasi pretesto, e i colonnesi ebbero il torto di fornirne al loro avversario uno estremamente grave: l'assalto, operato il 3 maggio 1297 da Stefano C., rispettivamente nipote e fratello dei due cardinali, a una colonna che trasportava denaro e preziosi, che dovevano servire al nipote del papa, Pietro Caetani, per acquistare terre e castelli (Denifle, p. 516), appartenenti forse agli Annibaldi; ma si è anche supposto che si trattasse dell'acquisto già pattuito di Ninfa e che i colonnesi forse non volevano cedere. Subito Bonifacio ingiunse ai due cardinali C., ritenuti responsabili del reato commesso da Stefano, di comparire alla sua presenza. Essi si presentarono il 6 maggio e il papa dettò le sue condizioni: restituzione del tesoro rapito, costituzione del vero colpevole, consegna di Palestrina, Zagarolo e Colonna. I due cardinali accettarono il primo punto (infatti il tesoro fu subito restituito), ma rifiutarono gli altri due, dei quali il terzo, soprattutto, rivelava chiaramente l'intenzione del pontefice di abbattere la potenza colonnese. La rottura era così decisa. E mentre Bonifacio VIII convocava per il 10 maggio il concistoro, dove con la bolla In excelso throno (Digard, Les Registres de Boniface VIII, Parigi 1907, n. 2388) avrebbe pronunciato la sentenza di deposizione dei due cardinali e l'incameramento dei beni dei C., Iacopo e Pietro, la mattina di quello stesso giorno, senza attendere le decisioni del concistoro, facevano deporre sulla confessione di S. Pietro e affiggere sulle porte delle chiese di Roma il famoso manifesto di Lunghezza - firmato tra gli altri da lacopone da Todi e da due suoi confratelli francescani - col quale si dichiarava la nullità dell'elezione di Bonifacio VIII, sulla base dell'argomentazione, svolta in tredici punti, dell'invalidità dell'abdicazione di Celestino V (Denifle, pp. 509-516).
A un secondo e più violento manifesto dei C., diramato da Palestrina l'11 maggio, Bonifacio VIII rispose con un documento di inaudita durezza, la bolla Lapis abscissus (Digard, n. 2389) del 23 maggio, con il quale scomunicava insieme ai due cardinali, dichiarati scismatici, Agapito, Stefano, Iacopo Sciarra, Giovanni di S. Vito e Oddone; li privava dei benefici ecclesiastici e ne confiscava i beni mobili e immobili; li escludeva in perpetuo dagli uffici pubblici; li privava della cittadinanza romana e li bandiva dal territorio dello stato della Chiesa; proibiva inoltre a qualsiasi persona, città o castello, sotto pena di scomunica e d'interdetto, di dare ospitalità ai condannati; fulminava quindi la maledizione a tutta la famiglia C. fino alla quarta generazione. Tanta volontà di sterminio - è stato osservato - non si era manifestata, a suo tempo, neppure nei documenti contro la temuta dinastia sveva. I due cardinali reagirono con un terzo manifesto indirizzato " Venerabilibus viris Cancellario, Collegio magistrorum et scholariorum Studii Parisiensis " (Denifle, pp. 519-524), in cui alle accuse ribadite d'illegittimità della sua elezione e di responsabilità per la morte di Celestino V, si aggiungeva la denuncia - certamente gradita a Filippo il Bello, a cui il documento fu inviato unitamente al secondo manifesto - che Bonifacio VIII obbligava tirannicamente i fedeli e gli ecclesiastici di tutto il mondo a versare denaro nelle casse della Chiesa di Roma; si insisteva infine sulla convocazione di un concilio generale, a cui si faceva appello anche nei primi due manifesti. A questo punto, il papa scatenò contro i C. una vera guerra. Il 9 luglio ordinò agl'inquisitori di istruire a carico loro e dei loro fautori un processo di eresia (Digard, n. 2351); e si diede a smembrare i territori e i feudi colonnesi confiscati (ibid., n. 2248; Fawtier, nn. 5474, 5483-5485, 5490). Contemporaneamente chiese aiuti militari a Firenze e alle altre città toscane. A Roma furono distrutte le case e le torri dei C., che furono costretti a lasciare la città; poi caddero Nepi e altri luoghi. Ma i castelli di Colonna e Zagarolo e soprattutto Palestrina resistevano. Il 14 dicembre 1297 il papa proclamò la crociata contro i C., e nel febbraio 1298 ne affidò l'organizzazione al cardinale Matteo d'Acquasparta (ibid., n. 2878). L'esercito papale fu ricostituito con i contingenti militari di Firenze, Siena e S. Gimignano, e con aiuti finanziari di altre parti, specie degli ordini cavallereschi. Ma Palestrina, l'ultima fortezza dei C., resisteva sempre. Solo nel settembre fu ceduta, dopo che il papa assicurò agli assediati l'incolumità personale e il rispetto della città. Dopo la resa, in cui fu fatto prigioniero anche lacopone da Todi, gli ex cardinali e i loro congiunti comparvero alla presenza del papa a Rieti, in veste di penitenti. Il papa li confinò sul momento a Tivoli, e spartì le loro terre fra gli Orsini e i C. rimasti fedeli, con la clausola che mai sarebbero dovuti tornare agli antichi padroni. Palestrina tornava col nome di città Papale alle dirette dipendenze della Chiesa. La rovina dei C. sembrava completa e definitiva. Ma quando, venendo meno alla parola data (lunga promessa con l'attender corto, If XXVII 110: sulla realtà del consiglio fraudolento di Guido da Montefeltro si discute), il papa ordinò la distruzione di Palestrina, i confinati, temendo forse anche per la propria vita, fuggirono da Tivoli il 3 luglio 1299. Bonifacio diede loro la caccia ovunque, ma inutilmente. I C., dopo aver vagato clandestinamente in varie parti d'Italia, di Francia e d'Inghilterra, si ritrovarono infine tutti alla corte di Filippo il Bello. L'intesa fra il re di Francia e i C. contro il loro comune nemico, Bonifacio, fu, si può dire, naturale: così il 7 settembre 1303, Iacopo Sciarra e Guglielmo di Nogaret, l'inviato del re di Francia, appoggiati dalla malcontenta nobiltà campanina, assalirono Bonifacio ad Anagni (v. COLONNA, Iacopo, detto Sciarra). Con la morte di Bonifacio VIII (11 ottobre 1303) cessarono le persecuzioni, e il nuovo papa Benedetto XI il 23 dicembre 1303 assolse dalla scomunica i due cardinali e tutti gli altri membri della famiglia (Grandjean, n. 1135), lasciando per il momento impregiudicate tutte le altre complesse questioni relative alle dignità perdute, alla restituzione dei beni e alla ricostruzione di Palestrina. I C., naturalmente insoddisfatti, si rivolsero a Filippo il Bello con un memoriale, in cui esponevano tutte le loro rivendicazioni (Dupuy, pp. 225-227). Dopo la morte di Benedetto XI (7 luglio 1304), per altro, il comune di Roma prese autonomamente la decisione di chiudere, per quanto lo riguardava, la questione colonnese (Leges populi romani et senatus consulta super iustitia Columnensium contra iniquitates Bonifacianas, ibid. p. 278), disponendo la restituzione integrale ai C. dei loro beni e obbligando Pietro Caetani a un risarcimento di 100.000 fiorini, in contanti o in terre di uguale valore. Ma la piena reintegrazione nelle loro dignità e diritti, con la riammissione di Iacopo e Pietro nel collegio cardinalizio, i C. l'ebbero solo con la bolla di Clemente V del 2 febbraio 1306 (Eitel, pp. 209-212), riacquistando di colpo l'antico prestigio. I due cardinali si trasferirono poi in Francia al seguito della curia papale, e presero parte attivamente al concilio di Vienne: Pietro si occupò, in particolare, nella commissione delle riforme richieste dall'episcopato, dei chierici coniugati (sostenne inoltre gl'interessi di Filippo il Bello e di Giacomo II d'Aragona); mentre Iacopo attese a conciliare le due frazioni dell'ordine dei frati minori, gli spirituali e i ‛ fratres communes ' (L. Oliger, in " Arch. Francisc. historicum " XVI [1916] 350-355), proteggendo Angelo Clareno, uno dei capi più prestigiosi degli spirituali.
A Roma i capi della famiglia furono Stefano e Iacopo Sciarra. Nel 1306 e nel 1307 Stefano fu senatore insieme con Gentile Orsini; e i C., riunitisi tutti intorno al ramo principale della famiglia, costituirono una consorteria di notevole potenza, che ebbe dalla sua parte importanti comuni dello stato della Chiesa, come Viterbo, Narni, Rieti e Todi.
La notizia dell'elezione imperiale di Enrico VII determinò subito a Roma due opposti schieramenti, risvegliando la rivalità tra C. e Orsini, che nell'ottobre del 1309 si affrontarono in una vera battaglia. Tornata momentaneamente la pace, a opera del nuovo senatore Ludovico di Savoia, i capi delle famiglie rivali, Stefano C., Tebaldo Orsini e Annibaldo Annibaldi, fecero parte dell'ambasceria inviata a ossequiare Enrico VII e a pregare il papa di venire a Roma. Stefano C. si trattenne poi presso Enrico, che a Genova nel dicembre del 1311 fu raggiunto improvvisamente anche da Sciarra, che gli portava la non lieta notizia che a Roma i guelfi, guidati dagli Orsini, avevano preso in mano la situazione e si erano ulteriormente rafforzati per l'arrivo di un contingente di truppe angioine, comandate dallo stesso fratello di re Roberto, Giovanni di Gravina. I C., rimasti fedeli alla Parte imperiale, quando Enrico VII nel maggio 1312 giunse a Roma, si batterono a fianco delle sue truppe contro l'opposizione guelfo-angioina; mentre ad Avignone, nel giugno 1313, i cardinali Iacopo e Pietro C. protestarono in concistoro privato contro la posizione ostile all'imperatore e favorevole a Roberto d'Angiò assunta da Clemente V, per le pressioni esercitate su di lui da Filippo il Bello. I due C. facevano osservare che un simile atteggiamento era dannoso per la Chiesa, in quanto proprio con il favore e la benedizione di essa Enrico VII era stato creato imperatore (Finke, Acta Aragonensia, III, p. 228 n. 114). Essi cioè facevano intendere a Clemente V che la sua posizione contraddittoria poteva essere interpretata come un tradimento, come in effetti lo fu per esempio da D. (Pd XVII 82).
Tuttavia a Roma, dopo la partenza dell'imperatore, avvenuta il 20 agosto 1312, si era avuta una pacificazione generale tra le famiglie degli opposti partiti, che si tradusse sul piano politico nell'elezione a senatori di Sciarra C. e di Francesco di Matteo Orsini di Monte Giordano. Stefano poi, passato definitivamente alla parte guelfo-angioina, fu ricompensato con larghezza dal papa Giovanni XXII.
Le vicende dei C. successive alla morte di D. non rientrano nei limiti di questa voce.
La famiglia C., nonostante la dura persecuzione subita da Bonifacio VIII e nonostante che, quasi unica tra le famiglie nobili di Roma, si fosse schierata in favore di Enrico VII e i suoi uomini si fossero battuti per lui nel 1312 a Ponte Molle e per le vie di Roma, dove Stefano fu anche ferito, non trova nel suo insieme e neppure nei suoi membri nessuna particolare menzione nell'opera di Dante. Anche dove si accenna alla guerra che Bonifacio VIII condusse con implacabile odio contro la famiglia romana (Lo principe d'i novi Farisei, / avendo guerra presso a Laterano, / e non con Saracin né con Giudei, / ché ciascun suo nimico era Cristiano, / e nessun era stato a vincer Acri / né mercatante in terra di Soldano [If XXVII 85-90]... e tu m'insegna fare / sì come Prenestino in terra getti [vv. 101-102]), nessuna parola la ricorda. L'interesse di D. è tutto incentrato sulla sete di potere (la superba febbre, v. 97) del pontefice e sul consiglio fraudolento di Guido da Montefeltro che nascono dalla stessa radice di arida cupidigia. Uguale atteggiamento in Pd XXVII 49-51 - ma qui è più comprensibile -, dove il poeta, mettendo in bocca a s. Pietro il lamento che le chiavi che mi fuor concesse, / divenisser segnaculo in vessillo / che contra battezzati combattesse, ha probabilmente presente, nelle crociate bandite per motivi politici contro i cristiani, anche la guerra colonnese. Tanto silenzio su una famiglia che è stata protagonista di una delle più dolorose vicende del pontificato di Bonifacio VIII, anche nell'atto stesso in cui a quei fatti si accenna, dimostra, crediamo, che nel giudizio di D. i colonnesi, sebbene momentaneamente soccombenti, erano mossi dallo stesso peccato di cupidigia, che aveva indotto il loro nemico, così come prima di lui il loro alleato Niccolò III Orsini, a esser ‛ cupidi per avanzar ' le proprie famiglie. Certamente a D. non erano ignote le rivalità delle consorterie baronali romane, che si riflettevano nel collegio cardinalizio e sino nella condotta del pontefice. Questo atteggiamento di D. anche nei riguardi della famiglia C., si coglie in modo esplicito non tanto nel ricordo di Sciarra presentato insieme con il Nogaret come carnefice impunito (vivi ladroni, Pg XX 90) del vicario di Cristo nell'attentato di Anagni, quanto e soprattutto nel passo più discusso della lettera ai cardinali italiani (Ep XI 24-25). Dice dunque D.: Tu, prae omnibus [cioè su tutti i cardinali italiani qui insolitae solis eclipsis - trasferimento della sede papale ad Avignone - causa fuistis], Urse, ne degratiati collegae perpetuo remanerent inglorii, et illi, ut militantis Ecclesiae veneranda insignia, quae forsan non emeriti sed immeriti, coacti posuerant, apostolici culminis auctoritate resumerent. Tu quoque, Transtiberine, sectator factionis alterius, ut ira defunti Antistitis in te, velut ramus insitionis in trunco non suo frondesceret, quod si triumphatam Carthaginem nondum exueras, illustrium Scipionum patriae potuisti hunc animum sine ulla tui iudicii contradictione preferre. In questa citazione che si allontana in vari punti dall'edizione della Società Dantesca, sono state accolte le proposte del Frugoni. D. dunque accusa su tutti Napoleone Orsini (Urse) e Iacopo Stefaneschi (Transtiberine), che con il loro insanabile contrasto sulla questione della riabilitazione dei due cardinali C. avevano impedito nel conclave di Perugia del 1305 l'elezione di un papa italiano, e quindi in qualche modo responsabile dell'abbandono di Roma da parte del papa, avvenuto con l'elezione di Clemente V. Vero è che nel passo della lettera D. giudica che i due cardinali C. erano stati deposti, sebbene innocenti (non sembra possibile accogliere la traduzione del Vinay [Monarchia, Firenze 1950, 306]), ma non attribuisce loro nemmeno dei meriti. Onde l'irrigidimento sulle proprie posizioni del partito antibonifaciano, che aveva come capi Napoleone Orsini e Niccolò da Prato, e del partito fedele alla memoria di papa Caetani, guidato dallo Stefaneschi, dopo il ritiro di Matteo Rosso Orsini (veramente accanto al vecchio Matteo Rosso, il Villani [VIII 80] pone, come capo della fazione bonifaciana, lo stesso nipote di Bonifacio VIII, Francesco Caetani), fu dovuto - sembra suggerire il poeta - solo a particolari interessi delle consorterie baronali, al punto che a Roma (Scipionum patriae) poterono preferire insensatamente le loro passioni di parte. Passioni di parte non ideali, ma di concreti interessi familiari, da cui furono tutt'altro che immuni i C., anche se qui c'è - ma non più che un accenno distaccato - il ricordo della loro persecuzione. E giustamente commenta il Frugoni (p. 479): " Forse non ‛ emeriti ', i due cardinali Colonna, Iacopo e Pietro... non meritevoli cioè delle venerande insegne nella misura che una Chiesa non mondana e tralignante avrebbe dovuto chiedere ai suoi primi praepositi pili e non nomine solo archimandritis. Ed è giudizio dunque che s'inquadra in una rampogna che colpisce tutti ". In questa prospettiva la mancanza nei due C. di quei meriti peculiari, atti a farli degni delle venerande insegne della Chiesa, può sembrare irrilevante e come diluita in una riprovazione che si estende forse a tutti i membri del sacro collegio. Ma non è così. Se infatti D. li assolve dalla condanna di Bonifacio VIII, non si sentiva certo di considerarli delle vittime, per rendere giustizia alle quali valeva la pena di battersi. Essi, i due C., che ormai - non si dimentichi - facevano parte del gruppo dei cardinali italiani, ai quali D. indirizzava la sua epistola, non erano per il poeta diversi dagli altri, da quelli cioè che erano stati decisi a continuare l'ira del defunto pontefice e da quelli che avevano voluto la loro riabilitazione. Per D. insomma nel conclave di Perugia non si trattò di rendere giustizia a due degnissimi archimandriti della Chiesa, bensì dello scontro di due fazioni romane, che nella soluzione poi adottata dell'elezione di Bertrand de Got, ognuna vide un proprio vantaggio. Questo sottofondo del conclave, avvertito immediatamente da un osservatore presente a Perugia, il priore Garcia di S. Cristina, che il 17 ottobre ne informava Giacomo II d'Aragona (Finke, Acta, I p. 185), è efficacemente raccontato dal Villani (VIII 80): " dopo la morte del detto papa [cioè Benedetto XI] nacque scisma, e fu grande discordia infra 'l collegio de' cardinali d'eleggere papa, e per loro sette erano divisi in due parti quasi uguali; dell'una era capo messer Matteo Rosso degli Orsini con messer Francesco Guatani nipote che fu di papa Bonifazio, e dell'altra erano caporali messer Napoleone degli Orsini dal Monte e 'l cardinale da Prato, per rimettere i loro parenti e amici Colonnesi in istato, ed erano amici del re di Francia, e pendeano in animo ghibellino ". Ma tutto questo gioco d'interessi, naturale in una concezione della Chiesa come potenza politica e cioè come istituzione esasperatamente giuridica e mondana, era inconcepibile per l'ecclesiologia dantesca che postulava una Chiesa spirituale, sacramentale, fondata sul Vangelo e sui padri e non sui decretalisti (cfr. specialmente la stessa Ep XI 13-16; Mn III; Pd XII e passim). Non altro significato può avere, ci sembra, il passo dell'epistola.
Bibl. - Per le fonti relative ai C. dell'età di D. si vedano gli indici della serie dei registri dei papi dei secc. XIII e XIV edite nella Bibliothèque des Écoles françaises d'Athènes et de Rome, e inoltre P. Dupuy, Histoire du differend d'entre le pape Boniface VIII et Philippe le Bel; Actes et preuves..., Parigi 1655; H. Finke, Aus den Tagen Bonifaz VIII, Münster 1902; ID., Acta Aragonensia, Berlino 1908-1923; ID., Papsttum und Untergang des Templerordens, Münster 1907; H. Denifle, Die Denkschriften der Colonna gegen Bonifaz VIII und der Kardinäle gegen die Colonna, in " Archiv für Literatur und Kirchengeschichte des Mittelalters " V (1889) 493-529. Sui C. dell'età di D. esistono vari e pregevoli lavori: L. Mohler, Die Kardinäle Jacob und Peter C., Paderborn 1914 (lavoro fondamentale, in appendice documenti inediti; ma vedi anche alcune rettifiche proposte da E. Jordan, in " Revue historique " CXXII [1916] 323-331); R. Neumann, Die C. und ihre .Politik von der Zeit Nikolaus IV, bis zum Abzuge Ludwigs des Bayern aus Rom, 1288-1328, Langensalza 1916; ancora utilizzabile P. Petrini, Memorie Prenestine, disposte in forma di Annali, Roma 1795. Per alcuni aspetti particolari, si veda A. Eitel, Der Kirchenstaat unter Clemens V, Berlino 1907; G. Mollat, L'élection du pape Jean XXII, in " Revue d'hist. de l'Èglise de France " I (1910) 34-49, 147-166; G. Presutti, I C. di Riofreddo (sec. XIII e XIV), in " Arch. Soc. Romana St. Patria " XXXIII (1910) 313-332; C. Cipolla, Sulle tradizioni antibonifaciane rispetto a Guido di Montefeltro e alla guerra dei C., in " Atti Acc. Scienze di Torino " XLIX (1914) 805-822; E. Jordan, Lunga promessa coll'attender corto, in " Bull. Italien " XVIII (1918) 45-60; E. Martin-Chabot, Contribution à l'histoire de la famille C. de Rome dans ses rapports avec la France, in " Annuaire-bulletin Soc. ist. de France " LVII (1920) 154-158, 185; E. Müller, Das konzil von Vienne, 1311-1312. Sein Quellen und seine Geschichte, Münster 1934; K. Wenk, Die römischen Päpste zwischen Alexander III und Innocenz III und der designationsversuch Weihnachten 1197, in Papsttum und Kaisertum (Forschungen... Paul Kehr zum 65. Geburstag dargebracht), Monaco 1926, 455-474; B. Altaner, Zur Biographie des Kardinals Johannes von St. Paul (m. 1214/1215), in " Hist. Jahrbuch " XLIX (1929) 404-406 (dimostra che il cardinale è scrittore di varie opere di medicina); U. Balzani, Landolfo e Giovanni C. secondo un codice Bodleiano, in " Arch. Soc. Romana St. Patria " VIII (1885) 223-244; R. Sabbadini, Giovanni C. biografo e bibliografo del sec. XIV, in " Atti Acc. Scienze di Torino " XLVI (1910-11) 830-859; V. Rossi, Di un C. corrispondente del Petrarca, in " Arch. Soc. Romana St. Patria " XLIII (1920) 103-111 (ristampato in Studi sul Petrarca e sul Rinascimento, 1930, 83-91; A. Foresti, Un mistico ammonimento a Giovanni C., in Aneddoti della vita di F. Petrarca, Brescia 1928, 35-44; A. Momigliano, La corrispondenza tra Seneca e s. Paolo, in " Rivista Storica Ital. " LXII (1950) 325-344 (ristampato in Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1955, 13-32; S.L. Forte, John C., O.P. Life and writings, 1298 c: - 1340, in " Arch. Fratr. Praed. " XX (1950) 369-414. Tra le opere di carattere generale, oltre F. Gregorovius, Storia di Roma nel Medioevo, Roma 1901, ad indicem; Davidsohn, Storia III; si vedano particolarmente P. Brezzi, Roma e l'Impero medioevale (774-1252), Bologna 1947, e E. Dupré-Theseider, Roma dal Comune di popolo alla Signoria pontificia (1252-1377), ibid. 1952 ad indicem; T.S.R. Boase, Boniface VIII, Londra 1935; G. Digard, Boniface VIII, Parigi 1939; S. Sibilia, Bonifacio VIII (1294-1303), Roma 1949. Per i riferimenti nella lettera ai cardinali italiani v. R. Morghen, Il conclave di Perugia del 1305 e la lettera di D. ai cardinali italiani, in L'Umbria nella storia, nella letteratura, nell'arte, Assisi 1954, 105-124; ID., La lettera di D. ai Cardinali italiani, in " Bull. Ist. Stor. Medio Evo " LXVIII (1956) 1-31; ID., Ancora sulla Lettera di D. ai Cardinali, ibid. LXX (1958) 513-519 (in cui risponde alle osservazioni di G. Vinay, A proposito della Lettera di D. ai Cardinali, in " Giorn. stor. " CXXXV [1958] 71-80); A. Frugoni, D., Epist. XI, 24-25, in " Riv. di cultura classica e medioevale " VII (1965) 477-486.