COLLI, Vincenzo, detto il Calmeta
Della nobile famiglia dei Colli di Vigevano, nacque, intorno al 1460, nell'isola di Chio, dove il padre ricopriva una magistratura genovese. Portato bambino a Castelnuovo Scrivia, dei suoi anni di formazione solo è dato congetturare un possibile rapporto coi circoli umanistici piemontesi, come quello di Casale.
Di sicuro il C. è a Roma negli anni 1490-91, gravitante nell'ambiente coltissimo dell'Accademia di Paolo Cortese e amico strettissimo di quel Serafino Ciminelli (Serafino Aquilano), il quale s'avviava rapidamente a conquistarsì il ruolo del più acclamato poeta dell'epoca, e del quale il C. sarebbe stato a suo tempo (1504) biografo e critico assai acuto. Forse fu allora che il C. assunse il soprannome di Calmeta (si crede da quel Calmeta "pastor solennissimo" che si incontra nel Filocolo del Boccaccio); certo a contatto col Cortese andò formandosi il quadro critico della sua consapevolezza dei problemi della lingua e della poesia volgare, appoggiato (sul piano della prassi) alla composizione, a gara col Cortese e col copiosissimo Aquilano, di "frammenti"e "stramotti" vari.
Certo forte di questa formazione, dal 1494 il C. poté essere (accanto a Nicolò da Correggio, a Gaspare Visconti, ad Antonio Fregoso, allo stesso Aquilano) persona in vista, in quella rinascita della "vulgare poesia e arte oratoria", che in Milano, alla corte di Ludovico il Moro, fiorì promossa dalla duchessa Beatrice d'Este, di cui il C. era segretario. Come quella splendida accolta di ingegni e le speranze che la guidavano furono disperse dalla prematura morte dell'animatrice (1497), il C. (che si trovava a Roma, forse già in contatto col suo futuro signore, Cesare Borgia, ancora cardinale) pianse quella morte in un poemetto in terza rima, di conclamata ascendenza petrarchesca, i Triumphi, Pesaro s. d. (ma fra 1510 e 1512). Che nella pioggia di sonetti ed epitaffi che il luttuoso evento puntualmente scatenò il C. tentasse la più impegnativa misura del poemetto visionario, potrebbe essere indizio di un più centrale rapporto fra il progetto culturale di Beatrice e la presenza stimolatrice del segretario. È un fatto che alcuni anni dopo, in un Epicedion al C. in morte (si crede) di un suo allievo cantore e poeta alla corte del Borgia in Napoli (1501 ?), l'umanista spoletino P. F. Giustolo ricordi, proprio allo scorcio finale del componimento, la "praecipue... tuo cantu affectata Bèatrix".
Ha quindi inizio quella parte della vita del C., che in varia misura può dirsi essersi svolta all'ombra di Cesare Borgia; o che il C. entrasse subito - quando già non fosse - al suo servizio e lo seguisse prima in Francia (ottobre 1498-agosto 1499) poi nella folgorante avventura italiana; o che, dopo un periodo che comprende il viaggio in Francia, "dove per testimonio della fortuna di Cesare Borgia i fati l'avevano menato" (forse non al seguito del duca, bensì, in sostanza, per vigilarne le mosse, su incarico di qualche signoria italiana), seguisse il Borgia dal momento più splendido della sua fortuna (dalla seconda impresa di Romagna, all'incirca) fino a qualche tempo prima dell'inizio della fulminea discesa: nel che il C. si sarebbe dimostrato d'un tempismo non sappiamo se invidiabile, certo degno del cortigiano peritissimo che fu e del quale tuttora la fama risente (fu personaggio, è stato scritto autorevolmente, di importanza tanto maggiore della sua reale statura).
Per determinare la data in cui il C. si sarebbe posto al seguito del Borgia, ci si basa su un passo della Vita di Serafino Aquilano, ove si afferma che costui sarebbe passato al servizio del duca "essendo stato ancora io già per cinque anni" nel numero dei cortigiani di Cesare. Dato che l'Aquilano entrò a far parte della corte del Valentino, pochi mesi prima della sua morte (agosto 1500), il servizio del C. presso il Borgia dovrebbe risalire al 1495, vivente ancora Beatrice; e se anche il passo della Vita dovesse essere riferito, molto "ad sensum", al momento in cui il C. scriveva, la data si sposterebbe al 1499. Ma di quell'anno abbiamo una lettera, del 26 ottobre, a un Giovanni di Castelnuovo "militi aureato" governatore di Imola e due (del 29 e del 31) a Caterina Riario Sforza signora di Imola, che ci mostrano il C., in Milano occupata dai Francesi, impegnato a fare gli interessi di Caterina contro le minacce del "figlio del Papa". Il C. si vanta con la contessa di avere fatto ogni sforzo perché la spedizione contro Forlì fosse scongiurata, o ritardata, o privata dell'appoggio francese; e il suo zelo sarebbe giunto fino a un incontro con Luigi XII. Se il C. fosse stato cortigiano del Borgia, non si vede come questi suoi maneggi sarebbero riusciti a sfuggire al duca, uso a ben altri intrighi; certo il C. non l'avrebbe fatta franca. Né cortigiano del Borgia il C. appare in una lettera successiva, da Roma (16 luglio 1500), scritta si suppone ad Elisabetta Gonzaga duchessa di Urbino, dettagliatamente informandola dell'attentato al duca di Bisceglie, primo marito di Lucrezia Borgia, e indicandone senza ambagi il mandante ("che abbi fatto fare questo da ognuno se estima il Duca di Valenza").
Di qui innanzi le tracce del C. seguono più sicuramente quelle del Borgia, anche se non sono chiare le circostanze per le quali riuscì a entrare al seguito del duca. Si suppone che lo accompagnasse nella seconda impresa di Romagna; è poi col duca a Roma (giugno 1501) e a Napoli (luglio-settembre) com'è testimoniato dall'Epicedion del Giustolo. Nella primavera del 1502 è ancora a Roma; una lettera di Elisabetta Gonzaga inrisposta a una (perduta) del C., che da Roma la informava delle feste ferraresi per le nuove nozze di Lucrezia Borgia, ne è conferma. Anche servendo il duca, o che il vino d'un impegno precipuamente attivo e politico avesse a parer troppo forte all'antico segretario di Beatrice, o che la lezione del Borgia fosse da lui maturamente appresa come esemplare dei rischi gravissimi che la minavano nell'ora stessa del trionfo, il C. tenne a ribadire presso altre corti le sue attitudini di cortigiano raffinatamente mondano e di letterato ben addentro ai problemi e alle possibilità del volgare. Così, nei mesi seguenti egli è ancora in Romagna (dove forse s'incontra col Machiavelli, legato della Repubblica fiorentina) e, spettatore di quei drammatici eventi, ne è anche attore per qualche tempo, nel ruolo minore di commissario del Borgia a Fermo (gennaio-maggio 1503). Proprio da Imola (fra l'ottobre e il dicembre 1502) scrive quattro importanti lettere a Isabella d'Este, nelle quali l'occasione esterna - di natura diplomatica e rientrante nei suoi compiti di cortigiano dei Borgia - è appoggiare la missione matrimoniale del gentiluomo spagnolo Corberan, capitano del duca, presso la corte di Mantova, ma, il nucleo sostanzioso è annunziare e promettere alla marchesa il commento a "quella suttilissima e profunda canzone del Petrarca Mai non vo' più cantar como io solea... la quale ardisco de dire che da pochi o nisciuno fin al presente sia stata intesa". La corte del Borgia è (scrive il C. ad Isabella, al cui servizio forse aspirava) come la, corte celeste: "Sono sotto la divina potestate diversi officiali, ministri, o vero essecutori... troni, dominazioni, potestati, angeli, folletti, diavoli, in modo che ad alcuno de stare in ocio non è permesso". Sta di fatto che il C. abbandonò il servizio del duca, quasi presago di come sarebbe finita quella avventura. Con l'agosto o settembre del 1503, incomincia l'ultimo periodo della vita del C., quello urbinate, che il C. visse come servitore di Ercole Pio, prima, come cortigiano del futuro duca Francesco Maria, poi.
Questi, e forse gli anni, immediatamente precedenti (anche se parrà eccessivo retrodatare col Bembo per suoi precisi interessi, al 1502 la proposta di una teoria della lingua cortigiana) paiono i più maturi e ricchi, non si vuol dire i più operosi, del Colli. Non sarà da sopravvalutare l'impegno inventivo, in funzione peculiarmente cortigiana, dunque di decorazione e di festa, che il C. sembra aver allora profuso e che gli assicurò l'ammirazione senza riserve dei contemporanei (ma non mancano tracce d'una precisa ricerca sperimentale, aggiornata alle più acuminate indicazioni dell'epoca, come nell'incompiuto e perduto poema l'Amoroso peregrinaggio: "intre libri compartito, prosa la più parte, ma mescolate in essa tutte le diversità de rime che in stile materno ritrovare si possano, e molti stili fatti de novo ad emulazione di Orazio..."). Di maggior rilievo, tanto da farci intravedere in lui uno dei padri della critica letteraria volgare, è, meno in senso teorico che vivamente saggistico e risentitamente memorialistico, lo sviluppo critico di quella attività. Al culmine del quale si sarebbero posti i nove libri (perduti) della Volgar poesia, noti attraverso le testimonianze contrastanti del Bembo e del Castelvetro.
Ma il nucleo originario della riflessione calmetiana parrebbe piuttosto da ravvisare in quelle Annotazioni e iudici, forse una sorta di zibaldone, attento alle luci dell'ora, lacerti delle quali potrebbero essere (sembra provato) quelle prose, da poco riportate in luce, nelle quali si discorre, con vivacità e discrezione, degli antichi e dei moderni, del rapporto fra latino e volgare, dell'egloga e dell'imitazione e del decoro e dell'ostentazione, delle belle dell'epoca e della poesia del Tebaldeo (un breve, acutissimo saggio). Mentre esemplare dello stile critico calmetiano, più che la notissima Vita diSerafino, stampata a cura di Giovanni Filoteo Achillini nelle Collettanee... nella morte de l'ardente Seraphino Aquilano (Bologna, C. Bazalesi, 1504, pp. n. n.) - un'opera e un consuntivo critico "d'occasione" nel senso migliore, volto a incidere su una realtà nel suo scorrere veloce - finirà col parere la bella lettera a Isabella d'Este (anch'essa di recente scoperta) da Urbino, 5 nov. 1504: l'invio d'una elegia, ora perduta, offriva al C. il destro per "precetti et osservationi pertinenti al componere versi volgari", a chiarimento della novità, nella tradizione (latina e volgare), di quel componimento. Accennando alla formulazione di regole, il C. in realtà oculatamente divaga per un discorso che ha come fondamento la frequentazione sostanzialmente eclettica della tradizione migliore; e tradizione migliore è quella di chi "si sforzò el mirabile instinto datoli da la natura nel suo grado con l'artifizio adornare".
Sulla base di questo contrasto fra la "natura" e la "regola" si può meglio intendere la dichiarata avversione del Bembo al Colli. Non si tratta tanto di dare ascolto a certe accuse (forse scherzose) di cortigianesca maldicenza (lettera del Bembo a Emilia Pio del 20 marzo 1504), o a quel neologismo, "calmeteggiare" (lettera alla Pio del 3 maggio 1506), che forse vuoi semplicemente indicare una raffinata maschera ondeggiante fra l'iperbole scherzosa e la decezione seria; e nemmeno di esagerare quella retrospettiva accusa di furto che par trapelare da una lettera del Bembo a Trifone Gabriele: "pregate da parte mia quelli, che questi miei scritti leggeranno, che non vogliano dire ad altri la contenenza loro, ché non mancano in ogni luogo Calmetti". Si era nel 1512, il C. era morto da quattro anni; e a parte il fatto che una frase come questa può anche essere intesa: "non manca gente che, occupandosi della lingua volgare, la fa da Calmeta, pretende di essere un Calmeta", si sa quanta fosse la gelosia del primato nell'autore delle Prose. La pagina del capolavoro bembesco nella quale è introdotto il ricordo del C. e della sua teoria cortigiana, ha tutto il rilievo di un riconoscimento storico. Il C. è il bersaglio da battere: proprio perché la sua teoria di una lingua che vivamente si foggi nell'uso della corte romana, in un incessante scambio di antico e nuovo, di storia e di geografia culturale, ha un suo fascino, non solo, ma una sua ragionevolezza storica, che l'esperienza viva delle corti pareva piuttosto confermare che invalidare. L'esperienza (che da poco abbiamo potuto di nuovo compiere, per recenti scoperte) di prose del C. ci consente di riconoscere, mediata dal Bembo, quasi la vera voce del C., il suo modo estroso e metaforico di risolvere i problemi. "... sì come i Greci quattro lingue hanno alquanto tra sé differenti e separate, delle quali tutte una ne traggono, che niuna di queste è, ma bene ha in sé molte parti e molte qualità di ciascuna, così di quelle che in Roma, per la varietà delle genti che sì come fiumi al mare vi corrono e allaganvi d'ogni parte, sono senza fallo infinite, se ne genera et esce questa che io dico, la quale altresì, come quella greca si vede avere, sue regole, sue leggi ha, suoi termini, suoi confini...".
Testimone dell'epoca, vigile a cogliere l'equilibrio instabile della storia (di qui quel rapporto di attrazione-repulsione che par di indovinare per il Borgia, del quale il C. avrebbe forse cercato di dare conto in quella Istoria della varietà della fortuna de' tempi suoi in XII libri distinta, di cui ci resta non più che il sommario), il C. esemplarmente dimostra come, in epoche di tumultuoso trapasso, l'arma di chi non possiede armi sia in primo luogo il dovere dell'attenzione. Come scriveva a Caterina Sforza: "Secondo le cose che occorreno così de ora in ora me bisogna essere vario nel scrivere, e non solo scrivere quello che m'è detto, ma quello ch'io vedo e quello che me pare di comprendere".
Il C. morì a Roma nell'agosto del 1508.
Fonti e Bibl.: Perdute le sue opere, la fama del C. è rimasta per secoli affidata alla fortuna delle Prose del Bembo l. I, [XIII] dell'ediz. di C. Dionisotti, Torino 1960). La tesi del Bembo di un C. teorico della lingua cortigiana fu contrastata da L. Castelvetro (Giunte alle Prose del Bembo, in P. Bembo, Opere, Venezia 1729, I, pp. 24-41) con l'argomento che non di lingua avrebbe inteso legiferare il C., ma della volgar poesia. Più volte. ma meno incisivamente, la figura del C. si affaccia anche nel Cortegiano del Castiglione. Nel fervore di studi della "scuola storica"intorno alla poesia cortigiana e al cosiddetto "secentismo" del Quattrocento. E. Percopo,(D'un ignoto poemetto a stampa di V. Calmeta, in Rass. critica della letter. ital., I[1896], 9-10, pp. 143-148) segnalò quasi riscoprendoli i Triumphi del Colli. Una risolutiva sterzata verso una più document. conoscenza del C. risale all'ediz. V. Calmeta, Prose e lettere edite e inedite, curata da C. Grayson (Bologna 1959), che il Grayson munì della prima dettagliata biografia e di un catalogo ragionato delle opere (in gran parte perdute) del Colli. A tale edizione si rinvia per ulteriori indicazioni, bibliografiche antecedenti al 1959. Aggiustamenti e ritocchi sulla base della biografia tracciata dal Grayson sono stati apportati da A. Campana, (Dal Calmeta al Colocci, in Tra latino e volgare. Per C. Dionisotti, Padova 1974, pp. 267-315. Il libro del Grayson diede origine ad alcune notevoli recens. (M. Corti, in Giorn. st. d. letter. ital., CXXXVI[1959], pp. 644-647; M. Marti, in Lett. ital., XII [1960], pp. 120-123; G. Aquilecchia, in Italian Studies, XV[1960], pp. 70-74; G. Velli, in Renaiss. News, XIII[1960], pp. 20-25, e ad un ampio saggio di P. V. Mengaldo (Appunti su V. Calmeta e la teoria cortigiana, in La Rassegna della lett. ital., LXIV [1960], pp. 446-469), che rappresenta il maggiore contributo d'ordine critico e linguistico alla conoscenza del Colli. In vista di una auspicabile ediz. delle rime sparse, è da vedere F. Ageno. Alcuni componimenti del Calmeta e un codice cinquecentesco poco noto, in Lett. ital., XIII (1961), pp. 286-315. Recentemente (1980) l'edizione critica dei Triumphi èstata procurata da R. Guberti (tesi di laurea, Università di Parma, facoltà di magistero).