COLA di Rienzo
Nicola, figlio di Lorenzo taverniere e di Maddalena, lavandaia e acquaiola, nacque in Roma nel rione della Regola nel 1313 o nel 1314. Orfano di madre, visse presso parenti in Anagni, sino a venti anni, quando, mortogli il padre, ritornò a Roma (1333 o 1334) e attese a leggere i classici e a ricercare le antiche memorie della città. Datosi all'arte notarile partecìpò per la prima volta ufficialmente alla vita pubblica come ambasciatore unico del reggimento popolare dei tredici Buoni Uomini (gennaio-luglio 1343), inviato ad Avignone presso Clemente VI per offrirgli, vita durante, le supreme cariche urbane, per invitarlo a visitare la città e per chiedere la proclamazione del giubileo. L'offerta fu accettata, il giubileo promulgato (27 gennaio 1343), rimandata la visita a miglior tempo, in ogni caso non oltre l'anno giubilare (1350). Nella lunga permanenza ad Avignone ebbe partecipe entusiasta della sua passione, il Petrarca; benevolo e consenziente il pontefice, davanti al quale parlò più volte con calore della rovina di Roma e della tracotanza dei baroni. Ottenne da Clemente VI che fossero sospesi i processi intentati contro di lui dai nuovi senatori (9 agosto 1343) e che gli fosse concessa la carica di notaio della Camera urbana con lo stipendio mensile di 5 fiorini d'oro (13 aprile 1344). Ritornato a Roma, dopo la Pasqua del 1344, ebbe modo, nell'esercizio del suo ufficio, di conoscere e di farsi conoscere; parlò in difesa dei poveri; illustrò in San Giovanni in Laterano con un discorso in volgare la lex regia, cioè il frammento del senatusconsulto che conferiva a Vespasiano la somma dei poteri, simbolo per lui dell'antica grandezza del popolo romano; commosse l'animo dei cittadini con figurazioni allegoriche, annunciò prossimo il tempo della grande giustizia, dell'antico buono stato. Mentre l'anarchia cittadina si faceva di giorno in giorno più grave, C. s'accordava con popolani, "cavallerotti", anche con ricchi mercanti, accennando al malcontento del papa, magnificando la ricchezza della Camera capitolina, i cui cespiti avrebbero dovuto rendere annualmente 300.000 fiorini. Alla fine, tratto alla sua parte il vicario papale Raimondo, vescovo d 'Orvieto, accordatosi sull'Aventino coi congiurati il venerdì 18 maggio, fece bandire il parlamento per il giorno successivo. La mattina salì in Campidoglio e alla presenza di grande moltitudine parlò del triste stato di Roma e si dichiarò pronto a esporre la vita per amore del papa e per la salvezza del popolo. Ma, nato un tumulto, la questione fu rimessa al giorno dopo, 20 maggio, domenica di Pentecoste, quando gli furono concessi ampî poteri per il governo della città, gli fu posto a fianco come reggente il vicario papale e si votarono provvedimenti rivoluzionarî, intesi alla restaurazione del regime cittadino, alla rovina dei magnati e al trionfo del popolo. Gli eletti ebbero in parlamento il titolo di pacis, iustitiae libertatisque tiribuni et sacrae romana e reipublicae liberatores, usato poi da C. fino al 1° agosto; il papa sorpreso dagli avvenimenti, legalizzò la rivoluzione nominandoli, fino a contrario avviso, rectores Urbis et districtus (27 giugno 1347). C. si diede subito con estrema energia a tradurre in atto le deliberazioni del parlamento, obbligando i nobili a giurargli obbedienza, armando una milizia rionale di 1300 fanti e di 360 cavalieri, rendendo la giustizia severa e spedita, arricchendo l'erario col sale e col focatico, assicurando le strade e i commerci, togliendo ai magnati e presidiando torri, porte, ponti, rocche, porti, fortezze, provvedendo all'annona. Fra i nobili, tre soli gli rifiutarono obbedienza: il prefetto Giovanni di Vico, costretto poi con le armi alla resa di Vetralla e di Rispampano, e, solo dopo aver fatto atto di soggezione (16 luglio), restaurato nella dignità prefettizia; e Niccolò e Giovanni Caetani, che fino al settembre tennero testa alle milizie romane e alleate nella Marittima. Nel tempo stesso il tribuno annunciava ai potentati italiani e stranieri la rivoluzione compiuta e ordinava agl'Italiani d'inviargli ambasciatori per trattare in comune ad salutem et pacem totius sacrae Italiae, e giurisperiti da aggregare ai giudici del suo consistorium. Dietro proposta di C., il congresso dei giurisperiti di Roma, della Tuscia e della Lombardia gentenziò il popolo romano habere adhuc illam auctoritatem ac potestatem et iurisdictionem in toto orbe terrarum quas habuit in principio et summo augmento urbis, e poter giuridicamente revocare a sé gli antichi diritti (22 luglio); in parlamento tale revoca fu deliberata e conferita autorità al tribuno di dare esecuzione al decreto. ll 1° agosto, ricevuto in San Giovanni in Laterano il cingolo militare, assunto il titolo di candidatus Spiritus Sancti miles, Nicolaus severus et clemens, liberator Urbis, zelator Italiae, amator orbis et tribunus augustus, dichiarò Roma capitale del mondo e fondamento della fede cristiana, che tutte le città e i popoli d'Italia erano liberi, cittadini romani e godevano della romana libertà; che spettava ed era devoluta alla città, al suo popolo e a tutta la sacra Italia l'elezione imperiale, la giurisdizione di tutto l'Impero; stabilì che chiunque vantasse diritti in contrario si presentasse avanti a lui in San Giovanni in Laterano entro la prossima Pentecoste; dichiarò infine di non voler derogare in nulla all'autorità e alla giurisdizione della Chiesa. Il 15 agosto in Santa Maria Maggiore, dopo essersi fatto cingere di sei corone simboliche e consegnare da un rappresentante del popolo romano una palla d'argento, segno dell'impero, vietò a tutti i potenti l'ingresso in Italia con amiati senza speciale licenza del papa e del popolo romano e condannò l'uso dei nomi di guelfo e ghibellino. Finalmente il 19 settembre rivolse invito alle città e ai potentati d'Italia per rinnovare l'antica unione con Roma e per procedere nella successiva Pentecoste all'elezione d'un imperatore italiano. Ma a questo punto già per molti segni la costruzione del tribuno appariva pericolante. La sua politica imperiale e nazionale, la soggezione a lui di parecchi comuni dello stato pontificio, l'alleanza con Luigi d'Ungheria contro Giovanna di Napoli, gli volsero contro Clemente VI, che prima inviò a Roma Matteo, vescovo di Verona, sotto specie di far pubblicare la bolla del giubileo, poi incaricò il cardinal legato Bertrando di Deaux di vigilare sul tribuno, di sospenderlo dall'ufficio, di procedere contro di lui come invasore dei beni della Chiesa e come sospetto di eresia, infine si valse della sua autorità per suscitargli nemici da ogni parte. La morte di Ludovico il Bavaro, che, eletto dal popolo e desideroso di riconciliarsi con la Chiesa, si era mostrato arrendevole ai disegni di C., ne sconvolse il gioco politico. I rettori delle provincie papali gli furono nemici, e talvolta alleati ai suoi danni coi baroni della Campagna. Le città, prima fra tutte Firenze, gelose della loro autonomia, sobillate dal papa, non accondiscesero, se non con molte riserve, ai suoi disegni e risposero freddamente all'invito per l'elezione imperiale. Il 14 settembre, C. invitati i baroni a convito in Campidoglio, li faceva arrestare per metterli a morte; però, per consiglio di alcuni cittadini, cambiava idea, li lasciava liberi, dopo di aver conferito loro delle cariche pubbliche, e, per confermare la pace, si comunicava con loro in Aracoeli. I baroni però, aiutati e stimolati dalla Chiesa, e inveleniti da questa farsa macabra, si gettarono nei loro castelli a preparare la vendetta. Gli Orsini si fortificarono in Marino, i Colonna in Palestrina, battendo di là la Campagna fino alle porte di Roma. La sanguinosa vittoria riportata il 20 novembre 1347 a porta San Lorenzo sui Colonnesi, non mutò lo stato delle cose: mancava ormai al tribuno la fervida fiducia di Roma e del popolo. Carestia, necessità militari e finanziarie, sospetti contro nobili e clero, minacce papali, lo spinsero ad arbitrî e violenze e raffreddarono l'animo dei cittadini. Egli tentò invano di ritoruare sui suoi passi e di riacquistare il favore della Chiesa: dopo la vittoria sui Colonna depose corona e scettro sull'altare di Santa Maria in Aracoeli, riassunse come collega il vicario papale, revocò il decreto del 1° agosto, richiamò (2 dicembre) i podestà delle terre di Sabina che gli avevano offerto la suprema magistratura, si chiamò semplicemente tribunus augustus e poi miles et rector pro domino nostro papa. Dopo varie schermaglie col popolo, col cardinal legato e col vicario, il 15 dicembre, suscitato contro di lui un tumulto in Roma per opera di un certo Giovanni Pipino, conte palatino d'Altamura e conte di Minervino, chiamò inutilmente il popolo alle armi; allora, deposta la carica, si ritrasse in Castel Sant'Angelo sotto la protezione di Niccolò Orsini.
Scomunicato da Bertrando di Deaux tra la fine del '47 e il principio del '48, vigilato e ricercato dalla curia papale, e tuttavia fidente nel favore del popolo, s'aggirò tra Roma e Napoli in cerca d'aiuto fin verso la fine del 1348, quando, deluso, si rifugiò nelle solitudini dell'Appennino abruzzese, fra gli eremiti della Maiella. Là le vaghe tendenze escatologiche, ond'era stata animata l'opera sua, la cruda esperienza delle sue relazioni con la Chiesa, si alimentarono e si esaltarono nella conversazione coi fratelli, nella lettura delle profezie di Merlino, di Metodio, di Gioachino da Fiore e di Cirillo. A richiamarlo all'azione, valsero le parole di un frate Michele di Monte Sant'Angelo, il quale, con la sua interpretazione dell'oracolo di Cirillo, gli rivelò esser lui il precursore destinato a sorreggere e a sospingere l'Impero al grande rinnovamento della Chiesa e del mondo. Si recò perciò a Praga (luglio 1350) dove ottenne tre udienze da Carlo IV, al quale espose i suoi disegni. Ma, poiché egli era stato scomunicato prima da Bertrando di Deaux, poi, nel 1350, dal legato Annibaldo di Ceccano, ed era quindi passibile di un processo d'inquisizione, l'arcivescovo di Praga lo fece imprigionare prima nella capitale boema, poi a Raudnitz. Durante la lunga prigioriia scriveva all'abate di Sant'Angelo in Roma, al cancelliere di Roma, a Michele di Monte Sant'Angelo, confortando amici e fautori, volgendo il pensiero alla moglie e ai figli, dettando le ultime volontà; corrispondeva col re, con l'arcivescovo, con Giovanni di Neumarkt, per lettere in cui la condanna delle passate vanità, la difesa dell'opera sua e della sua ortodossia, le invettive contro la Chiesa e l'esaltazione della missione imperiale, si vestono ad ora ad ora del greve, oscuro apparato profetico e dottrinale, e della splendida veste del nascente umanesimo. Il 25 febbraio 1352 Clemente VI confermò le sentenze pronunciate contro di lui, e ordinò che nelle chiese di Boemia e di Germania egli fosse denunciato come eretico e scomunicato; il 24 marzo, che fosse trasferito in Avignone, dove giunse verso il principio d'agosto 1352. Il processo d'inquisizione, di carattere essenzialmente politico, si protrasse, oltre la morte del papa (6 dicembre 1352), fino al settembre 1353, quando autorevoli intercessioni di Carlo IV, dell'arcivescovo di Praga, del Petrarca, le gravi condizioni di Roma e del Patrimonio e le mutate direttive politiche del papato, le insistenze della democrazia urbana e di altri comuni tiranneggiati dai baroni, la fama del tribuno e un più equo giudizio sull'opera sua, pubbliche dichiarazioni di ortodossia se non un'esplicita abiura, fecero svanire l'accusa di eresia e gli ottennero l'assoluzione e la libertà. Era intenzione di Innocenzo VI d'inviarlo a Roma perché preparasse il terreno al cardinale Albornoz, mantenendo in fede il popolo e contrastando ai grandi, soprattutto al prefetto Giovanni di Vico. C. e il legato s'incontrarono probabilmente a Perugia sulla fine d'ottobre o nel novembre 1353. Fino al luglio 1354 C. visse al quartier generale del legato a Montefiascone, e, come cavaliere al suo soldo, prese parte alle operazioni contro Orte, Toscanella e Viterbo (marzo e maggio 1354), mentre manteneva relazioni con Roma, e, nonostante il favore papale, chiedeva invano aiuti a Perugia e all'Albornoz per rientrare in città. Ottenuti in fine a prestito da un ricco provenzale famoso masnadiere e capitano di ventura, fra Moriale, 4000 fiorini d'oro, prese al suo soldo alcune centinaia d'armati tedeschi, borgognoni, perugini e toscani, si fece conferire dall'Albornoz l'ufficio di senatore per sei mesi, e il 1° agosto 1354 entrò in Roma, accolto come un trionfatore. Per vendicare l'offesa fatta ai suoi ambasciatori da Stefanello Colonna si travagliò invano per qualche tempo nell'assedio di Palestrina. La mente turbata, sospetti non ingiustificati, l'assillante bisogno di danaro per provvedere all'esercito, lo indussero ad atti che gli alienarono l'animo del popolo: decapitò fra Moriale, venuto in Roma a tutelare i suoi interessi, e ne confiscò le ricchezze; arrestò due fratelli di lui, Brettone e Arlembaldo, che aveva creato capitani delle milizie e ai quali aveva estorto altri mille fiorini per la paga dei soldati; sostituì loro a capo dell'impresa di Palestrina un valente capitano, Imprendente degli Annibaldi di Montecompatri e, dopo le prime buone prove, lo dimise; commise arbitrî, violenze, estorsioni; si circondò di una guardia del corpo; aumentò il prezzo del sale e levò una nuova imposta sulle derrate. L'8 ottobre 1354 cadde trucidato sul Campidoglio in un tumulto di popolo.
I tre momenti della vita di C. (tribuno, esule e prigioniero, senatore), pur attraverso un fondo di vita spirituale comune, attraverso atteggiamenti e procedimenti in apparenza uniformi, presentano fisionomia diversa. Il tribuno, nell'illusione di tradurre in atto quae legendo didicerat, espresse, vestendoli di forme auguste, legittimandoli con titoli di antica nobiltà, le esigenze e i presentimenti dell'età sua: dai più vicini e immediati, come il buon governo e l'espansione cittadina, alla coscienza democratica, trionfante nel comune; alla coscienza italiana, affiorante di là dalla mescolanza delle stirpi e sopra le lotte partigiane; al problema dell'impero decaduto, del papato esule, della salvezza della fede. Non v'è distinzione o passaggio dal ristretto programma locale all'ampio disegno dell'impero popolare italiano: l'uno e l'altro si compenetrano, si attuano contemporaneamente, irraggiano dalla coscienza mistica di una missione e di un prossimo rinnovamento, dall'aspirazione romana e cattolica e nazionale alla pace, alla giustizia, alla libertà, alla liberazione della sacra romana repubblica. Nell'esule e nel prigioniero, dei motivi religiosi e politici gli uni si esaltano, gli altri si trasformano al contatto delle dottrine e delle profezie degli Spirituali. Più nulla del tribuno o del riformatore di Praga è nel senatore: deputato dal cardinale e dal papa al governo di Roma, sovvenuto da un masnadiere forestiero, circondato da mercenarî. Contemporanei e posteri hanno colto spesso soprattutto gli aspetti negativi, più appariscenti e caduchi dell'opera di Cola: intemperanza, ambizione, irresolutezza, una specie di fantastica e mistica demenza, quasi inconscia della realtà, incoerente nell'azione, il fallimento del tribuno, del riformatore, del senatore. Più storicamente, egli è uno dei nostri grandi: in Roma e nello stato pontificio l'iniziatore della restaurazione albornoziana, per la nazione il fratello spirituale di Dante, del Petrarca, del Machiavelli.
Fonti: La fonte più importante è costituita dall'epistolario, edito da K. Burdach e P. Piur, Briefwechsel des Cola di Rienzo, in Wom Mittelalter zur Reformation, Forschungen zur Geschichte der deutschen Bildung, II, voll. 4, Berlino 1912-30. Come fonte nȧrrativa, merita particolare rilievo la Vita di Cola di Rienzo contemporanea, anonima, attribuita erroneamente da alcuni codici e dal primo editore (Bracciano 1624) a un Tommaso Fort fiocca, riedita dal Muratori (Rom. Hist. Fragmenta, in Ant. It. medii aevi, III, p. 251 segg.) e recentemente dopo altri, da A. M. Ghisalberti (Roma 1928): una delle biografie più vive ed efficaci del primo Rinascimento.
Bibl.: Oltre al Burdach, e alla recentissima biografia di P. Piur, Cola di Rienzo, Vienna 1931, cfr. ancora F. Papencordt, Cola di Rienzo e il suo tempo, trad. (con bibl.) di T. Gar, Torino 1844; e F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, trad. ital., Roma, III.