COACCI (Coaci)
Famiglia di argentieri di origine marchigiana, attivi fra il XVIII e XIX sec. Di essi Vincenzo, figlio di Giovanni Battista, nacque a Montalboddo (oggi Ostra, in provincia di Ancona) nel 1756; si trasferì giovanissimo a Roma, e qui portò a compimento il proprio apprendistato presso la bottega di Luigi Valadier.
È in quest'ambiente, già orientato verso l'abbandono del gusto decorativo "alla bernina" per una concezione più razionale e lineare della forma, che Vincenzo configura il proprio stile, proseguendo gli insegnamenti di Luigi Valadier e sviluppandone gli stimoli tendenti all'astrazione classicista, parallelamente alle giovanili esperienze di argentiere di Giuseppe Valadier. Ma queste istanze, ormai definibili "neoclassiche", sono costantemente accordate con un'eleganza formale e una fluidità della luce tra le superfici variamente vibrate dal decoro che rivelano l'attenzione per l'ambiente dei Belli, soprattutto intorno all'attività di Vincenzo (I), che è l'interprete dalla mano più sciolta e leggera della raffinata sensibilità settecentesca dell'ornato.Dal 1782 Vincenzo risulta argentiere autonomo presso il "cantone del Governo Vecchio" con bottega propria cui dapprima l'Università degli orefici si oppose, ma che in seguito gli riconobbe anche in considerazione dell'avvenuto matrimonio con la figlia di un neofita. Alla morte di Luigi Valadier, suicidatosi nel settembre 1785, gli successe nell'esecuzione delle commissioni più rilevanti. È probabilmente in questo momento (1786) che Vincenzo ottenne il massimo di notorietà, giungendo a gravitare nell'area del marchese Hercolani, di cui divenne il fornitore stabile, al punto da cambiare quartiere e passare dalla parrocchia di S. Stefano in Piscinula a quella di S. Marco - dove la famiglia continuò ad essere documentata ancora dopo la sua morte -, aprendo bottega nei pressi del palazzo abitato dagli Hercolani. Morì a Roma nel 1794.
Artista singolarmente cosciente del proprio ruolo e della propria funzione, Vincenzo si pose vari problemi organizzativi che gli causarono aspre polemiche con l'ufficialità amministrativa delle produzioni argentiere. Così intorno al 1791 fu coinvolto in una vertenza contro l'Università degli orefici, che difendeva i bollatori di cui Vincenzo aveva contestato il sistema di controllo e dubitato dell'onestà nelle funzioni, e vide inoltre respinta dallo stesso Collegio la sua proposta di accentrare in un unico ente l'affinatura degli ori e degli argenti.
La produzione di Vincenzo è documentata da numerosi oggetti in collezioni private, tra i quali particolarmente degni di nota una coppia di candelieri a tripode del 1792 (Roma, coll. Giusti: S. Fornari, Gli argenti romani, Roma 1968, tav. 6 a colori) e la zuppiera con puttino e greca sul coperchio della collezione Macchia Madama di Roma (Giunta di Roccagiovine, 1970, tav. XLIX). Oltre a un calice, conservato nel Museo capitolare di Velletri, eseguito intorno al 1790 e recante lo stemma del cardinale veliterano Stefano Borgia, si deve a Vincenzo il calice conservato in S. Pietro a Parma (L. Fornari Schianchi, in L'arte a Parma dai Farnese ai Borbone [catal.], Parma 1979, p. 463 n. 1008; ripr. in I Quaderni di Parma, suppl. a Parma realtà, s. d. [Parma 1979], p. 18) e quello del Tesoro di S. Maria Maggiore (M. Andaloro, in Tesori d'arte sacra di Roma e del Lazio [catal.], Roma 1975, n. 202, p. 90), mentre la sua esatta replica nel Tesoro di S. Pietro, donata dall'Hercolani a Pio VII nell'anno dell'incoronazione (1801: A. Lipinsky, Il Tesorodi S. Pietro, Città del Vaticano 1950, p. 77) è opera principalmente della bottega. In questo modello la logica settecentesca dell'oggetto viene infranta nell'estrapolazione dei singoli elementi poi ricomposti in una nuova e razionale sintassi che prevede tra l'altro il traforo del nodo in un'edicola circolare cupolata e retta da colonne, racchiudente la figurina a tutto tondo della Fede. Ma l'opera più complessa di Vincenzo è il monumentale servizio da scrittoio (Minneapolis, Institute of Arts) donato dall'Hercolani al papa Pio VI nel 1792 (Cracas, Diario ordinario, n. 1804, 4 apr. 1792; altre testimonianze in M. Parsons, 1969, p. 49; W. Rieder, in The Age of Neoclassicism [catal.], London 1972, p. 853 tav. 159a, b). Raffigura l'obelisco del Quirinale secondo il modellino del monumento presentato al papa nel 1785 dall'architetto G. Antinori, con l'aggiunta di una fontana non prevista nel progetto e mutuata da un'incisione di Gioacchino Filidoni. Tale dono di un oggetto allusivo ad una realizzazione urbana auspicata da Pio VI, ma poi non realizzata che nel secolo seguente e su un diverso disegno, procurò a Vincenzo grande notorietà e attualità, come attestato dai diari della città e da altre fonti contemporanee. Lo "scrittoio" in argento, parzialmente dorato, su due gradini in porfido e lapislazzuli, ornato di sfingi, teste leonine ed altri decori, dotato di congegni automatici per cambiare la posizione dei cavalli, per l'uso dei calamai, dissimulati nei basamenti dei "colossi", per l'azionamento delle api intorno alla fontana, è un capolavoro di razionalità e di nitido classicismo tanto nella disposizione compositiva che nelle tipologie dei decori, e nei lucidi contrasti tra i colori delle pietre dure, delle parti in argento e delle altre a doratura. Ma secondo lo stile tipico di Vincenzo, a questa nitida impostazione si accorda un fine pittoricismo di segno più propriamente settecentesco, assai stilizzato, come nel cassettino sulla fronte dello "scrittoio", graffito sul fondo di un fantasioso "capriccio" di biglietti e carte figurate. L'oggetto è completo di custodia in cuoio sbalzato e rifinito a dorature, dissimulante il contenuto, e configurata come un insieme monumentale fortificato, di disegno così compatto e coerente da aver evocato analogie con le architetture militari di Giuseppe Valadier.
Clitofonte, figlio di Antonio - ma si ignora in che rapporto di parentela fosse con Vincenzo - nacque a Montalboddo il 10 apr. 1802. Risulta già attivo il 22 apr. 1825, comparendo in un elenco di orefici di Montalboddo. Questa città dal 1817, anno dell'istituzione degli uffici del bollo nelle Marche, faceva capo a Iesi per la bollatura dei prodotti, e la sigla di Iesi, sovrastata da quella di Montalboddo, si incrocia con le iniziali dell'artefice nei punzoni di Clitofonte. Morì presumibilmente nel 1867, data in cui cessa di comparire nei registri della parrocchia di S. Croce di Montalboddo.
Di Clitofonte sussiste una produzione di argenterie minori difficilmente catalogabili perché disperse in collezioni private di provincia e nelle chiese della regione marchigiana: una pisside nella parrocchiale di Arcevia, un ostensorio a Montemarciano, un calice nel convento di S. Caterina di Fabriano, un ostensorio commissionato il 22 nov. 1842 dai cappuccini di Ancona e tuttora conservato nel convento stesso e un reliquiario del 1843 nel duomo di Iesi (G. Annibaldi, Il Lucagnolo..., Jesi 1879, p. 139).
A Clitofonte si deve il medaglione centrale inserito nel tardo quattrocentesco sepolcro di s. Romualdo di Taddeo da Como nella chiesa dei SS. Biagio e Romualdo di Fabriano, apposto in sostituzione di quello di Bartolomeo Boroni del 1754 asportato nel 1799 al momento dell'invasione francese.
Dei figli di Clitofonte furono argentieri Pietro e Bernardino. Pietro è qualificato argentiere in un documento del 1863, in cui compare come padrino ad un battesimo; mentre Bernardino, nato a Montalboddo nel 1836, è qualificato come argentiere in una testimonianza resa il 14 giugno 1859 e risulta ancora attivo nel 1894.
Nella parrocchiale di S. Croce a Ostra, la chiesa dove i C. risultano esser iscritti e che possiede la maggior parte dei documenti cartacei a loro relativi, si conserva una navicella d'argento priva di bolli ma con l'iscrizione "Bernardino Coacci Fece 1894".
Bibl.: C. Bulgari, Argentieri,gemmari e orafi d'Italia, I, Roma, Roma 1958, p. 299 (Vincenzo); III, Marche,Romagna, Roma 1969, pp. 173 s. (Clitofonte e figli); Z. Giunta di Roccagiovine, in Il Settecento a Roma (catal.), Roma 1959, p. 407 (Vincenzo); M. P[arsons], A Monum. of Rome, in Bull. of the Minneapolis Institute of Arts, LVIII (1969), pp. 46-53 (Vincenzo); Z. Giunta di Roccagiovine, in Argenti romani di tre secoli nelle raccolte private (catal.), Roma 1970, pp. 23 s. e nn. 80, 81 (Vincenzo); C. Hernmarck, Die Kunst der europäischen Gold- und Silverschmiede…, München 1978, fig. 765 (candeliere del 1792 attribuito a Vincenzo); L'Arte del Settecento emil., L'arte a Parma... (catal.), Bologna 1979, p. 463 e figg. 365, 365 a e b (calice, chiesa di S. Pietro a Parma).