CLOACA (lat. cloaca)
Canale sotterraneo per scaricare in un fiume o nel mare le acque piovane o i rifiuti delle strade e delle case (Liv., I, 38; Strab., V, 8). Benché le cloache, come opere di architettura, siano fra le più caratteristiche forme della costruzione etrusca e romana, la loro origine si perde tuttavia nell'antichità più remota. Già dal IV e III millennio e sino al primo a. C. esse erano conosciute nella bassa Mesopotamia e nell'Assiria. Canali laterizî per lo spurgo e il drenaggio delle acque sotto i pavimenti o attraverso le piattaforme dei palazzi e dei templi, e resti di fogne a vòlta, di forme svariate, furono ritrovate a Nippur, a Susa, a Lagash, recentemente dal Woolley presso la torre presargonica di Ur e dalla Missione tedesca sotto le case scavate a Assur, e ancora a Kalakh, a Khorsābād, a Ninive e a Babilonia. Canali verticali di scarico a vasi innestati analoghi a quelli di Nippur si ritrovano pure a Gezer in Palestina. Anche nei palazzi cretesi e micenei il drenaggio era abitualmente applicato. Pure in Grecia e in molte città elleniche d'Europa e d'Asia furono trovati resti di cloache: una di esse, ancora parzialmente conservata in Atene, era collegata con un sistema di canali allo scopo di irrigare con le acque di scarico i terreni.
Ma le più numerose e più perfette opere del genere sono dovute ai Romani, che ne trassero l'ammaestramento dagli Etruschi.
La tradizione scritta (Liv., I, 57) assegna ai Tarquinî e all'opera di artefici etruschi la costruzione della Cloaca Maxima che, formatasi nella Suburra, attraversando l'Argileto, il Foro, il Velabro e il Foro Boario, si scaricava dopo seicento metri nel Tevere a valle del Ponte Emilio, con un magnifico arco a tutto sesto e a tre filari concentrici di circa m. 4,35 di corda, per un'altezza di m. 4,50 in chiave. Ma la magnifica costruzione in pietra gabina oggi ancora esistente non è più in ogni caso quella dei Tarquinî; in alcuni tratti appartiene probabilmente ai tempi sillani e in altri è una ricostruzione di Agrippa. Opera ad ogni modo grandiosa che Strabone ammira per la sua vastità, potendovi transitare dentro, egli dice, due carri carichi di fieno, e che Plinio (Nat. Hist., XXXVI, 105) afferma incrollabile ed eterna. Durante i tempi della Repubblica e dell'Impero altri canali di scarico furono costruiti: alcuni si riallacciavano alla Cloaca Massima e altri mettevano direttamente nel Tevere, come quello che sbocca di fronte all'isola Tiberina, o i due altri che si aprono più a valle della Cloaca Massima, o quello, alto 3 m. e largo 4 m., fatto costruire da Agrippa nel Campo Marzio e ritrovato nel sec. XVI (Chiavica della Rotonda), o ancora quelli fatti costruire per l'Aventino da Porcio Catone e Valerio Flacco nell'anno 568 di Roma. Non tutte queste cloache raggiungevano naturalmente la perfezione costruttiva della Cloaca Massima: alcune anzi non solo non erano a vòlta, ma erano, almeno in parte, a cielo scoperto: altre avevano invece una copertura a lastre orizzontali o a tegole inclinate. Naturalmente al condotto principale della Cloaca Massima (cloacale flumen, come la chiamava Catone) e in genere di tutte le cloache in Roma e nelle altre città, si raccordavano altri condotti minori (cloaculae) che portavano nel primo tutti gli scarichi non solo delle vie pubbliche, per mezzo di aperture disposte di tratto in tratto nel mezzo di esse o sotto il margine dei marciapiedi, ma anche delle latrine pubbliche e domestiche: era quindi tutta una rete che si veniva a costituire nel sottosuolo, non soltanto a Roma, ma in tutte le città del mondo romano: a Pompei come a Verona, ad Aosta come ad Arpino, a Nîmes come ad Arles o a Vienne, ad Almazán come a Toledo, a Thamugadi (Timgad) come a Cirta (Costantina). Ma sono particolarmente notevoli quella di Nicomedia per il grandioso e superbo suo edificio di scarico a mare, e quella di Djemila (Cuicul) in Algeria, che forma tutto un vasto e complesso sistema in servizio delle vie pubbliche, delle terme e delle latrine.
Il funzionamento di un sistema così complesso era regolato per mezzo di pozzetti di luce tali da permettere al bisogno anche la discesa nell'interno. L'altezza dei condotti era infatti spesso notevole: nella Cloaca Massima, come abbiam visto, era di m. 4,50, in quella di Djemila di circa m. 1,60-1,80, in quella di Timgad di m. 0,80-1. La larghezza era anche più variabile: a Timgad, p. es., di m. 0,40, ma a Vaison di m. 2, a Nîmes di m. 2,30, a Cirta di m. 3, ad Arles di m. 4, e nella Cloaca Massima di m. 4,35. La costruzione era talvolta in pietra e talvolta in mattoni, ma di regola era a secco per impedire che, distrutta la calce dall'azione erosiva delle acque di scarico, tutta l'opera andasse distrutta. La costruzione e la manutenzione delle cloache, affidate prima ai censori e poi agli edili, passarono infine a quegli speciali magistrati che da Augusto in poi ebbero la cura del corso del Tevere, e che dal tempo di Traiano ebbero il titolo di curatores alvei et riparum Tiberis et cloacarum urbis.
V. fognature.
Bibl.: H. V. Hilprecht, Explor. in Bible Lands, Philadelphia 1903; Mém. de la Délég. en Perse, XII; P. S. P. Handcock, Mesopot. archäology, Londra 1912; A. Delattre, Les travaux publics en Babylonie, in Revue d. quest. scient., ottobre 1888; V. Place, Ninive et l'Assyrie, Parigi 1867-70; E. Ziller, Die Antikenwasserleitungen Athens, in Athen. Mittheil., 1877; G. Perrot e E. Guillaume, Explor. archéol. de la Galatie, I, Parigi 1872; J. Durm, Die Baukunst d. Etr. u. d. Röm., Stoccarda 1905; A. Leger, Les travaux publics chez les Romains, Parigi 1875; M. Ronna, Les égouts de Rome, Parigi 1897; R. Lanciani, La cloaca massima, in Boll. arch. com., 1890; Chr. Hülsen, Die cloaca maxima, in Röm. Mittheil., 1902; R. Lanciani, La cloaca della Valle Murcia, in Boll. arch. comun., 1892; B. Luini, La cloaca del Vico Iugario, ibid., 1899; A. Ballu, Les ruines de Timad, Parigi 1897 e 1903.