CALCO (Calchi), Cleodoro
La data di nascita non è sicura, ma si può fissare prima del 1560 a Milano. Nacque da Entimaco Calco, la cui famiglia già con Bartolomeo, segretario ducale, aveva ottenuto l'investitura, nel 1491, di Pozzolo e Rosate, confermata da Francesco I nel 1516.
Dal ramo principale, tuttavia, si erano staccati vari rami secondari e ad uno di questi apparteneva il Calco. Già il padre, seguendo le tradizioni di famiglia, aveva ricoperto varie cariche cittadine; dopo essere stato giudice delle vettovaglie del tribunale dei Dodici di provvisione, nel 1567 era stato eletto consigliere dei Sessanta decurioni della città, carica che mantenne fino al 1590.
Seguendo l'esempio del padre il C. si addottorò in diritto e nel 1575 venne accolto nel collegio dei giureconsulti di Milano. Dopo essersi dedicato per un certo tempo all'avvocatura, nel 1585 ottenne la carica, di grande prestigio, di podestà della città di Trento. Nel 1590, tuttavia, il padre, non sentendosi più in grado di continuare nel suo ufficio, richiese al governatore di Milano don Carlo d'Aragona di poter rassegnare le dimissioni, con la preghiera che a succedergli fosse chiamato il figlio. Il 10 settembre dello stesso anno infatti questi ricevette la lettera di nomina del governatore ed entrò nel Consiglio dei sessanta decurioni. Dopo essere stato inoltre giudice delle strade e, nel 1596, delle vettovaglie, nel 1599 fu eletto dottore vicario di Provvisione per un anno.
Tuttavia, proprio nel corso del suo mandato, un grave avvenimento venne a turbare l'ambiente politico cittadino. Nel maggio del 1599 venne diffuso in Milano, sembra ad opera di alcuni agenti di Federico Borromeo, un memoriale inviato dal cardinale a Madrid che in tono violento accusava di scarso zelo religioso la popolazione e denunciava gli abusi e le ingerenze dell'amministrazione cittadina e dei tribunali civili nei confronti del clero e della giurisdizione ecclesiastica. In realtà simili conflitti si erano già verificati numerose volte, particolarmente dopo il concilio di Trento, di cui il cardinal Carlo Borromeo aveva tentato di far applicare alla lettera le disposizioni, ingerendosi a più riprese negli affari cittadini. Dopo l'avvento del cardinal Federico tali scontri si erano inaspriti, specialmente dopo la pubblicazione di due decreti, l'uno, del 28 marzo 1596 (disposizioni igieniche relative alla coltivazione del riso, la cui tentata estensione ai coloni della Chiesa fu contrastata dall'arcivescovado); l'altro, del 27 luglio dello stesso anno, sulla circolazione e vendita del grano. Infine il cardinal Federico si recò, nell'aprile del 1597, a Roma, trattenendosi per un lungo periodo presso la S. Sede.
Così che, quando il Consiglio dei sessanta si riunì, sotto la presidenza del C. in qualità di vicario del tribunale di provvisione, decise come primo provvedimento di inviare una lettera al cardinale a Roma per chiedere una immediata spiegazione o almeno il ripudio di tali gravi accuse "disonore de la nostra città". In giugno arrivò la risposta, interlocutoria, in cui si prospettava l'eventualità che la città mandasse un'ambasciata a Roma presso il cardinale, senza tuttavia che quest'ultimo negasse la falsità delle accuse mosse. Dopo varie riunioni, di cui restano ancora i verbali delle sedute, nel dicembre dello stesso anno venne eletto come ambasciatore il C. che in effetti il primo giorno di febbraio del 1600 partì per Roma. Le istruzioni del Consiglio erano particolarissime e segretissime: inoltre il C. era latore di lettere di presentazione per i cardinali milanesi Sfondrati, Piatti, Visconti e per l'ambasciatore del re cattolico duca di Sessa, presso i quali doveva consigliarsi prima di procedere. Le istruzioni prevedevano un'udienza con il pontefice, per proclamare alla sua presenza la falsità delle accuse. il dolore della città e riaffermare la profonda fede del popolo milanese. Tuttavia, consigliato dal Borromeo, il pontefice rinviò sempre tale udienza, e il consiglio dei cardinali milanesi di far presentare il C. dallo stesso cardinal Federico venne rifiutato dal Consiglio stesso dei sessanta. La situazione rimase statica per alcuni mesi, né valse a qualcosa l'invio, in appoggio al C., dal senatore Rovida. Nel luglio dello stesso anno il C. tornò a Milano, presentando la sua relazione finale nella seduta del 21. Il fallimento dell'ambasceria, sia per le sue gravi difficoltà, sia perché, per l'intervento della corte di Madrid, i rapporti fra le due parti si erano normalizzati, non pregiudicò il C., che ricevette pieni riconoscimenti e la lode del Consiglio.
I documenti riportano anche il suo stipendio, dal 10 febbraio al 7 luglio, per un importo di 6.840 lire. Dopo tale missione, che segnò l'apice della sua carriera, il C. si ritirò dalla scena politica cittadina, dedicandosi all'amministrazione delle terre. La data della sua morte non è certa; tuttavia già nel 1611 la moglie Giulia Catesa, in una dichiarazione di proprietà per l'estimo, risulta "vedova del fue iureconsulto Cleodoro Calco".
Fonti e Bibl.: Milano, Arch. stor. civ., Dicasteri, b. 5; Ibid., Famiglie, b. 324; Ibid., Materie, b. 345; Arch. di Stato di Milano, Araldica, s. v. Calco; Ibid., Cancelleria dello Stato di Milano, ad annum 1599; Milano, Arch. Formentini, cod. IX, ff. 41, 69, 77, 129, 153; M. Formentini, Libello famoso contro la città di Milano, in Arch. stor. lombardo, V(1878), pp. 45 ss.