CORTE, Clemente
Nacque a Vigone, nel circondario di Pinerolo, da Francesco e da Donatella Usseglio il 21 nov. 1826. Nel '42 entrò all'Accademia militare di Torino, uscendone sei anni dopo tenente di artiglieria. Con questo grado partecipò alla campagna del 1848-49, distinguendosi a Custoza e a Novara dove guadagnò una medaglia d'argento. Nel '51, dimessosi dall'esercito sardo, si reco a Londra, dove si sposò e visse insegnando matematica e storia militare. Durante questa permanenza, di circa otto anni, il C. assorbì, oltre al modo di pensare e giudicare liberale della società anglossassone, anche lo stile di vita. Non rimase in questi anni lontano dai campi di battaglia. Nel '52 e nel '53 combatté in Africa a fianco dei soldati francesi nella guerra per completare la conquista della Algeria, e nel '55 fu capo di Stato Maggiore nella legione anglo-italiana in Crimea.
Nel '59 rientrava in Italia e, da quel momento, divenne uno dei più fedeli collaboratori di Garibaldi, rivelando non comuni doti organizzative e militari. Lo stesso anno era tra le file dei Cacciatori delle Alpi, meritandosi la croce di cavaliere dell'Ordine militare di Savoia. L'anno successivo era al seguito della spedizione Medici in Sicilia, ma il veliero che il C. comandava, il "Charles and Jane", e che trasportava circa mille volontari, venne catturato all'alba del 9 giugno dalla marina borbonica nei pressi di Capo Corso e condotto a Gaeta. Riuscito però, dopo varie vicissitudini, a raggiungere ugualmente la Sicilia, il C. si distinse combattendo a Milazzo (dove riportò una grave ferita) e sotto le mura di Capua. Fu poi ad Aspromonte, e nel '66, durante la terza guerra d'indipendenza, ebbe il comando della IV brigata volontari che combatté vittoriosamente a monte Suello. L'anno seguente - fu l'ultima impresa militare del C. - seguì ancora Garibaldi a Mentana. Nel 1893 fu nominato tenente generale della riserva.
Già nel 1865, divenuto sostenitore della causa monarchica, era stato eletto deputato per il collegio di Vigone, e da allora la sua opera fu interamente dedicata all'attività politica. Dotato di notevole abilità oratoria ("il miglior parlatore forse dell'esercito garibaldino", lo definì il Guastalla), fu presente alla Camera dalla IX alla XIII legislatura, eletto le ultime due volte nel collegio di Rovigo. Tra i più preparati esponenti della Sinistra, vicino soprattutto alle posizioni del Cairoli, il C. ebbe una parte assai rilevante.
Membro di numerose commissioni (Bilancio, Guerra, Grazia e Giustizia), relatore di moltissimi tra i progetti militari presentati dal Ricotti - su questioni attinenti l'esercito svolse inoltre numerose interpellanze e interrogazioni -, ricoprì anche, nel corso della X e XI legislatura, l'incarico di questore della Camera. Fu autore nel '75 di un progetto di legge per l'allargamento del corpo elettorale, e l'anno successivo di un altro sulla responsabilità personale dei pubblici funzionari. Ebbe inoltré parte nelle discussioni sul brigantaggio, che considerava essenzialmente una "questione sociale" le cui basi poggiavano "nella miseria della classe più infima", e sulla legge delle guarantigie, della quale, fiero oppositore di qualsiasi concessione verso il potere ecclesiastico, confutava la formulazione di molti articoli (tra cui il 1° e il 13°).
Il C. ebbe molta popolarità sul finire del '77, quando, con una interpellanza circa una violazione del segreto telegrafico, contribuì all'allontanamento dal governo dell'allora ministro dell'Interno Nicotera. Nel maggio 1878, salito al potere il Cairoli, fu nominato prefetto di Palermo in sostituzione del Malusardi.
Nella politica del nuovo presidente del Consiglio rientrava la sostituzione dei prefetti più compromessi nella precedente amministrazione. Ma la situazione nell'isola era tutt'altro che agevole; il C., poco edotto degli uomini e delle cose che lo attorniavano, si scontrò presto contro una serie di gravi difficoltà. Quando infine nel novembre-dicembre dello stesso anno apparvero su alcuni giornali articoli poco benevoli alla Sicilia e agli isolani (articoli che si dissero ispirati dal C.) fu costretto a dimettersi.
Nel gennaio del '79 venne destinato a reggere la prefettura di Firenze. Qui trovò una situazione più distesa, e poté svolgere con maggiore efficacia il mandato. La città, come riferiva nei suoi rapporti semestrali al ministro dell'Interno, "si mostrava nel suo complesso fedele e rispettosa dell'autorità governativa". I partiti all'opposizione non costituivano una seria minaccia, in quanto "il repubblicano - riferiva - è debolissimo... al pari degli altri partiti sovversivi socialisti ed anarchici". Nel marzo del 1884 però, in seguito alle vicende del processo Strigelli, si trovò costretto a rassegnare le dimissioni.
Fu questo un grosso ed intricato processo, che vide coinvolte una serie di persone (tra cui appunto lo Strigelli, un confidente di polizia) accusate di furti, rapine, ricettazioni e falsi, e numerose alte personalità dello Stato. Tra queste, il C. e il prefetto di Torino B. Casalis, legato al Depretis. Nel corso del dibattimento, che tenne occupate le cronache giudiziarie tra l'83 e l'84, il Casalis accusò apertamente il C. di aver lasciato in libertà due pericolosi pregiudicati da lui indicati come implicati nella vicenda. Il C., a sua volta, dette ampie prove dell'infondatezza delle accuse, e tra i due si accese una lunga, clamorosa disputa, per porre termine alla quale venne istruita un'apposita commissione d'inchiesta. Questa, presieduta dai senatori Arniti, Mirabelli e Tabarrini, ultimati i lavori nel maggio 1884, pur assolvendo la condotta di entrambi i prefetti, sembrò tra le righe dar ragione al Casalis. Il C., sentendosi ingiustamente ferito, chiese più volte di essere giudicato in regolare processo e invano mosse in tal senso interpellanze al Senato, del quale, dal 15 febbr. 1880, era entrato a far parte. In sua difesa scrisse anche un opuscolo, Risposte ed osservazioni alla relazione della Commissione d'inchiesta sulla condotta dei prefetti Casalis e Corte (Torino 1884), ma non riuscì mai ad ottenere quella soddisfazione alla quale credeva di aver diritto.Ritiratosi a Vigone, deluso, ma ancora pieno di energia, si dedicò alla storia e al giornalismo. Autore di numerosi articoli di economia e politica per il Corriere della sera e la Gazzetta piemontese, scrisse Le conquiste e la dominazione degli Inglesi nelle Indie (Torino 1886, voll. 2).
L'opera, in diciotto capitoli, è dedicata alle diverse amministrazioni britanniche via via susseguitesi, durante un periodo di oltre cento anni, dalle guerre combattute da Inglesi e Francesi per il predominio nel paese, sino alle sanguinose rivolte delle Indie centrali degli anni 1857-58. Nel corso della trattazione il C., pur privilegiando gli aspetti militari delle varie vicende, mostra di saper cogliere molti dei momenti più salienti che contraddistinsero quella fase storica (come per es. le rivolte di Nanda Kumer del 1775 e quella successiva di Tippú Sàbib del 1799, l'oculata amministrazione dei fratelli Wellesley, la great mutiny dei sepoys, ecc.). Convinto assertore dell'importanza e della legittimità delle conquiste coloniali, non mancò di sottolineare in più parti i benefici effetti che, a suo avviso, la dominazione britannica portò ai popoli indiani: il rispetto della vita, della proprietà, l'istruzione e i germi del vivere libero e civile. Ma uno dei principali intendimenti dell'opera era quello, come si può leggere nella Prefazione, di mostrare agli Italiani, ormai prossimi ad entrare nella gara coloniale, "le difficoltà di fondare imperi nei paesi lontani: la grandezza e la durata dei sacrifici, le virtù, le fortune senza di cui simili possedimenti nè si acquistano, nè si conservano". "Gli alti fini di civiltà - in ultimo - che solo possono rendere legittime simili imprese".
In sostanza si può affermare che il C. fu tra i primi teorici del colonialismo italiano.
Morì a Vigone il 20 marzo 1895;aveva disposto che al Senato non fosse fatta la commemorazione in aula.
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