CLAUDIO (Ti. Claudius Caesar Augustus Germanicus) imperatore
Figlio di Druso e di Antonia, fratello di Germanico e quindi zio di Caligola, nato a Lione nel 10 a. C., si trovò ad essere l'unico erede della famiglia Claudia, quando lo zio Tiberio e Germanico passarono per adozione nella casa Giulia. Sia da Augusto, sia da Tiberio egli fu tenuto lontano da tutte le cariche pubbliche importanti. Ciò non si spiega solo con quella relativa deformità fisica e conseguente timidezza, che lo impacciavano e lo facevano sembrare ridicolo. Le nostre fonti, che pure insistono molto sulle tare fisiche e mentali del futuro imperatore, sono costrette ad ammettere che egli, fuori della corte, era spesso apprezzato, in particolar modo dai cavalieri. La sua esclusione dalle cariche va perciò attribuita alla volontà della famiglia Giulia di tenersi ben distaccata dalla famiglia Claudia, che, avendole fornito i membri adottivi, avrebbe potuto assumere una non desiderata autorità. C. visse fino a cinquant'anni molto chiuso in sé stesso dedicandosi agli studî storici, ai quali pare fosse incitato da Tito Livio. Aveva cominciato una storia romana dall'uccisione di Cesare, ma ne compose solo due libri, accortosi di non poter narrare liberamente questo periodo. Riprese perciò la sua storia dalla restaurazione augustea e la condusse avanti fino a termine imprecisato per 41 libri: 8 libri compose più tardi, autobiografici. In greco scrisse 20 libri di antichità etrusche e 8 di cartaginesi. Interessante la notizia di una sua difesa di Cicerone contro Asinio Gallo, che rivela una simpatia, la quale dovette influire anche sull'educazione politica di C. e confermarlo nell'idea del principato aderente alla tradizione repubblicana, già vagheggiato da Cicerone. Un altro suo libro era dedicato a giustificare una riforma dell'alfabeto romano con l'aggiunta di tre lettere: riforma poi attuata da imperatore, ma presto caduta in disuso (v. alfabeto). A parte tali preoccupazioni un poco pedantesche, gli studî di C. gli diedero una calma e oculata consapevolezza storica fatta per trattenerlo nell'ambito della tradizione romana, ma con la coscienza che tale tradizione si era necessariamente svolta nei secoli.
Conservatore e riformatore fu appunto C., quando dopo Caligola salì all'Impero. Durante il governo di Caligola, C. era del resto già uscito dalla vita privata e aveva rivestito il consolato. Era naturale quindi che i pretoriani si rivolgessero a lui, mentre si delineava la minaccia che il senato volesse restaurare la repubblica, sostenuto dalle milizie urbane. C., almeno secondo le fonti, riluttante e spaurito, fu pressoché sospinto all'Impero (41 d. C.).
Caligola (v.) aveva cercato di rompere ogni equilibrio tra senato e principe, trasformando l'Impero in monarchia assoluta anche la sua politica estera era stata molto debole e aveva portato a una spedizione in Britannia, interamente fallita. Lo stato, che non aveva certo potuto essere corroso da un governo di nemmeno quattro anni, era tuttavia in collasso morale: sfiducia del senato e sfiducia dell'esercito. Una ribellione nella Dalmazia, capitanata dal legato Fulvio Camillo Scriboniano e presto troncata dai soldati stessi, dava poco dopo un indizio del malessere e nello stesso tempo della fondamentale sanità dell'organizzazione militare. C. ebbe il compito di restaurare la fiducia del senato e dell'esercito nell'imperatore e di chiamare a un'armonica collaborazione tutte le forze dello stato. Il suo governo fu di tranquilla e saggia amministrazione nello sforzo costante di evitare squilibrî. L'operosità di C. non è quindi apprezzabile in ciò che gli storici antichi solevano fare oggetto di storia, ma nei documenti, quasi sempre epigrafici e papiracei, delle sue ordinarie e minute cure di governo.
Ne ricordiamo solo i più significativi: 1. la tavola claudiana scoperta nel 1528 a Lione, che contiene un ampio frammento di un discorso di C. nel senato in favore di quei notabili della Gallia comata (cioè di tutta la Gallia al difuori della Narbonese), che appartenevano a città federate, ma erano per particolari benemerenze cittadini romani senza diritti elettorali attivi e passivi, e che ora chiedevano di avere questi diritti, cioè di poter essere ammessi al senato. Il discorso è liberamente parafrasato in Tacito (Annali, XI, 24); 2. il senatoconsulto in favore degli Anauni, Tulliassi, Sinduni, che riconosce le loro pretese di essere cittadini romani, per quanto avverta che tali pretese non erano ben fondate; 3. la lettera agli Alessandrini, scoperta di recente in un papiro, che tra l'altro rifiuta il culto divino per l'imperatore, nega ad Alessandria un consiglio municipale (βουλή) e conferma quella tolleranza per gli Ebrei, altrimenti nota per due rescritti che restituiscono agli Ebrei di Alessandria i diritti di cittadiuanza alessandrina tolti da Caligola, e assicurano loro libertà di culto in tutto l'orbe romano; 4. un verbale di processo contro antisemiti alessandrini, anch'esso scoperto in papiri, appartenente alla serie dei cosiddetti "atti dei martiri pagani", e chiamato quindi "atti di Isidoro e Lampone" dal nome dei due antisemiti accusati, conosciuti per il Contro Flacco di Filone (v.); 5. il rescritto imperiale scoperto in Nazaret contro i violatori di tombe; 6. i frammenti papiracei di un discorso al senato, che propone alcune riforme giudiziarie, in modo che vengano soprattutto garantite la rapidità dei processi e la responsabilità degli accusatori. Da questi documenti e specialmente dalla tavola claudiana è manifesto il rispetto che C. teneva a dimostrare al senato, presentandogli da pari a pari le sue opinioni e chiedendogli di deliberare. Questa volontà di collaborare con il senato, che riavvicina senz'altro C. ad Augusto, alla cui opera di fatto egli si ispirò coscientemente, dev'essere ritenuta sincera, ma va intesa nei suoi giusti limiti. C. volle mantenere al senato il suo compito di organo direttivo della politica romana; ma cercò di ridurre la duplice amministrazione dello stato. Se egli restituì al senato il governo dell'Acaia e della Macedonia toltogli da Tiberio, lo fece per un atto di deferenza, non pensando alla possibilità di privare il senato dell'amministrazione provinciale. Tuttavia di fatto accentrò maggiormente intorno a sé tale amministrazione accrescendc la sua burocrazia personale, costituita quasi tutta di liberti, e attribuendolo funzioni direttive; sicché al disopra dei singoli governi provinciali si venne a stabilire una specie di ministero, di cui i membri più autorevoli furono Narcisso capo della cancelleria imperiale e Pallante sovrintendente alle finanze. Anche l'amministrazione finanziaria delle provincie singole fu sottoposta per intero al controllo imperiale, assegnando ai procuratori (appartenenti, com'è noto, alla classe equestre) la giurisdizione civile nelle cause riguardanti il fisco. Il sistema tributario delle provincie senatorie diveniva perciò indipendente dal senato: effetto e causa nello stesso tempo, ma più effetto che causa, del prevalere della finanza imperiale su quella senatoria.
C. tentò pure di restaurare, fin dove gli era possibile, la tradizione romana, specialmente nella religione e nel costume, da lui, come da Augusto, sentiti quali forze di coesione politica. Documento caratteristico è la restaurazione della censura, caduta in disuso dal 22 a. C., che egli esercitò per i soliti 18 mesi nel 47-48 con L. Vitellio, valendosene, tra l'altro, per epurare il senato e introdurvi elementi dell'ordine equestre già favorito con l'allargamento su accennato del potere dei procuratori. Onorò a sua volta il senato conferendo ad alcuni suoi membri la dignità di patrizio, per rafforzare il patriziato romano che si andava assottigliando. Cercò insomma di avvicinare le varie classi per farle collaborare intimamente. C. richiamò pure in vita gli aruspici, adoprò per sancire trattati le antiche formule e i sacrifici dei feziali, allargò il pomerio ad imitazione di Augusto, concesse immunità agli abitanti di Ilio come progenitori dei Romani e nel 47 celebrò, come Augusto, i ludi secolari per l'ottavo secolo di Roma (v.).
C. si oppose pure consequenzialmente all'introduzione di nuovi culti in Roma e ordinò di espellere gli astrologi con un senatoconsulto - dice Tacito (Annali, XII, 54) - "atroce e inutile". Un simile motivo non sarà stato del tutto estraneo all'espulsione degli Ebrei da Roma, data la loro attiva e fortunata propaganda. Svetonio (Claudio, 25) spiega con un motivo che non esclude il precedente: "Scacciò da Roma gli Ebrei che tumultuavano per incitamento di Cresto". È facile riconoscere in Cresto Cristo e capire che i dissensi interni degli Ebrei in Roma erano provocati dalla prima diffusione del cristianesimo, di cui si avevano naturalmente tra i pagani poche e confusissime notizie. È quasi certo che si deve riconnettere con questi energici provvedimenti in Roma il su citato rescritto trovato a Nazaret, che, ammonendo contro la violazione delle tombe nel luogo di origine di Gesù, è stato posto in suggestivo rapporto con l'interpretazione che faceva della resurrezione di Cristo un'abile asportazione del suo cadavere. Ma con ciò C. voleva salvaguardare l'integrità morale dei Romani, perché del resto, come non accettò pressoché mai il culto all'imperatore. che Caligola aveva imposto, liberò gli Ebrei dalle sanzioni attiratesi col rifiuto di piegarsi a quel culto.
La politica verso gli Ebrei, per quanto sia la meglio nota, va solo considerata come uno tra i minori aspetti della costante preoccupazione di C.: la progressiva parificazione delle provincie con l'Italia. Seneca, che prima esiliato per opera di Messalina, poi richiamato da C., fu uno dei suoi più fieri avversarî, poté dire, sebbene esagerando: "Aveva stabilito di vedere togati [cioè romanizzati] i Greci, i Galli, gli Ispani e i Britanni" (Apocolocynthosis, III, 3). C. fu perciò gran costruttore di strade, unificatrici dell'Impero, e concesse la cittadinanza romana o latina a moltissime colonie, tra le quali basti ricordare Colonia Claudia Agrippinensis (Colonia) e Augusta Treverorum (Treviri). Di molte altre sue opere pubbliche non è qui possibile parlare. Ricordiamo solo qui i suoi provvedimenti per assicurare le vettovaglie e, in specie, il grano all'Italia.
La politica estera di un imperatore così minuziosamente accurato nell'amministrazione statale non poteva essere che previdente e oculata senza mire di grandezza. Se C. si decise nei primi tempi del suo regno (43 d. C.) a occupare la Britannia, cogliendo a pretesto l'aiuto invocato da un principe fuggiasco, senza che tale occupazione si giustificasse per la difesa dell'Impero, due motivi lo dovettero muovere: lavare l'onta di Caligola, e instaurare il proprio prestigio nell'esercito, che quasi non lo conosceva. Ma al disopra di questi motivi concreti c'era la tendenza stessa dell'ìmperialismo romano, che non aveva limiti se non nelle sue possibilità (v. britannia). I particolari della spedizione, a cui C. non partecipò che in piccola parte, sono mal noti: l'occupazione romana non oltrepassò al tempo di C. la linea Tamigi-Saverna.
C. fece occupare anche la Mauritania in preda a disordini, dividendola tra due procuratori, uno residente a Cesarea (ad ovest di Algeri) e l'altro a Tingis (Tangeri). Altra impresa di polizia fu l'intervento nel regno Bosporano contro il re Mitridate divenuto sospetto e in favore del fratello Coti. Presso i Parti e i Germani tentò d'instaurare sovrani favorevoli ed educati romanamente: Italico presso i Cheruscì, Meerdate presso i Parti; ma il primo fu continuamente osteggiato, il secondo non poté nemmeno occupare il regno. Fece rientrare nell'Impero la Palestina dopo la morte di Agrippa I e l'affidò a un procuratore. Represse infine la rivolta dei Cauci con Gannasco, ma impedi al suo generale Corbulone di trasformare l'impresa difensiva in offensiva.
C. seppe dunque agire con grande ponderazione. Il suo difetto è se mai il difetto di tutte le politiche di ordinaria amministrazione, che risolvono le difficoltà parziali via via che si presentano, sfiorando solo i problemi fondamentali. E il problema fondamentale era per Roma la fusione di tutti i disparati elementi dell'Impero, che assorbiva in sé l'altro problema della forma di governo: C. non prese a questo riguardo che misure parziali e insufficienti. Ma in ciò va riconosciuto il limite di tutta la classe di governo del suo tempo, della quale C. resta una delle figure più pensose. Non la possono sminuire le deficienze nella vita privata che le fonti ci riferiscono, anche se vere. Tanto meno possono riguardare la storia le sue disgrazie coniugali. C., giungendo all'Impero, era sposato, in terze nozze, con Messalina dalla quale aveva avuto un figlio, Britannico. Pare che costei, valendosi del ripudio unilaterale concesso dalla legislazione, abbia nel 49 ripudiato Claudio e sposato C. Silio. I due furono uccisi, e C. sposò la nipote Agrippina figlia di Germanico, la quale da Cn. Domizio Enobarbo aveva avuto un figlio, Nerone (v.). Il matrimonio tra zio e nipote dovette essere permesso dal senato.
Gli sforzi di Agrippina, che partecipò anehe alla vita politica del marito, furono di sostituire suo figlio a Britannico: il che le riuscì, facendo sposo Nerone di Ottavia, figlia di C., e facendolo adottare da C. stesso. Nerone come più anziano era con ciò destinato alla successione. Non si vede quindi perché Agrippina abbia dovuto, come afferma la tradizione, avvelenare C. nel 54 d. C. per aprire la strada al figlio: questa notizia, se pure non può dimostrarsi falsa, va però accolta con diffidenza. C. fu deificato, e Nerone tenne il discorso funebre preparato da Seneca: il quale contemporaneamente compose il suo celebre libello, l'Apocolocynthosis (trasformazione in zucca) divi Claudii, adatto più a far capire le aspirazioni nuove dei primi tempi neroniani che non a servire di documento per l'opera di Claudio.
Fonti. I frammenti delle opere di Claudio son raccolti in H. Peter, Historicorum romanorum relliquiae, II, p. 92; Tacito, Annali, XI-XII (solo per gli ultimi sei anni); Svetonio, Claudio; Cassio Dione, LX; Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, XIX-XX; Guerra giudaica, II, 206 segg.; Seneca, Apocolocynthosis. La tavola claudiana in Corpus Inscriptiomum Latinarum, XIII, n. 1668. Il senatoconsulto per gli Anauni, ibid., v, n. 5050. La lettera agli Alessandrini in H. I. Bell, Jews and Christians in Egypt, Oxford 1924, p. 1 segg. Gli "atti dei martiri pagani" in E. v. Premerstein, Zu den sogenannten alexandrinischen Martyrerakten, in Philologus, Supplemento, XVI, 2 (v. anche W. Uckull-Gyllenband, Ein neues Bruchstück aus den sogenannten heidnischen Martyrerakten, in Sitzungsberichte der preuss. Akad., 1930, p. 664 segg.). Il rescritto di Nazaret in F. Cumont, Un réscrit impérial sur la violation de sépulture, in Revue historique, CLXIII (1930), p. 241 segg. I frammenti sulle riforme giuridiche in J. Stroux, Eine Gerichtsreform des Kaisers Claudius, in Sitzungsberichte der bayerischen Akademie der Wissenschaften, Monaco 1929, fasc. 8.
Bibl.: H. Lehmann, Claudius und Nero und ihre Zeit, I, Gotha 1858; A. Ziegler, Die politische Seite der Regierung des Kaisers Claudius, Linz 1879-1885; H. Schiller, Geschichte der römischen Kaiserzeit, I, i, Gotha 1883, p. 344 segg.; E. Ferrero, in De Ruggiero, Diz. epigrafico, II, col. 290 segg.; Groag-Gaheis, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., III, col. 2778 segg.; M. Rostovtzeff, Social and economic history of the roman empire, Oxford 1926, p. 75 segg. Per questioni particolari si vedano, tra l'altro, F. Bücheler, De Ti. Claudio Cesare grammatico, Elberfeld 1856 (Kleine Schriften, I, Lipsia-Berlino 1925, p. i segg.); M. Schanz, Gesch. der röm. Litteratur, II, ii, 3ª ed., Monaco 1913, p. 7 segg.; G. De Sanctis, Claudio e i Giudei d'Alessandria, in Rivista di filologia classica, LII (1924), p. 473 segg.; in senso contrario e con bibliografia completa sulla questione, v. S. Lösch, Epistula Claudiana. Der neuentdeckte Brief des Kaisers Claudius vom Jahre 41 n. Chr. und das Urchristentum, Rottenburg a N. 1930; Ph. Fabia, La table Claudienne de Lyon, Lione 1929 e bibliografia completa ivi raccolta; G. De Sanctis, Il rescritto imperiale di Nazareth, in Rendiconti della Pont. Acc. d. archeologia, 1929-30; T. Mommsen, Edict des Kaisers Claudius über das römische Bürgerrecht der Anauner vom J. 46, in Hermes, IV (1869), p. 99 segg. (Gesammelte Schriften, IV, p. 291 segg.).