MUZZIO, Claudina Emilia Maria
MUZZIO, Claudina Emilia Maria (in arte Claudia Muzio). – Nacque a Pavia il 7 febbraio 1889, da Carlo Alberto, direttore di scena, e da Giovanna Gavirati, corista lirica.
Poiché i genitori non erano ancora uniti in matrimonio, alla bambina, non legittimabile fino alle loro nozze (avvenute nel 1908), fu dapprima imposto il cognome fittizio Versati.
Di certo l’ambiente familiare dovette valorizzare le potenzialità vocali di Claudia Muzio, che fin da piccola poté conoscere il mondo del teatro. Tuttavia il padre, che del teatro conosceva non solo i fasti ma anche le angustie, spronò la figlia a indirizzarsi verso il concertismo: a Londra, dove la famiglia si era trasferita nel 1891 (Carlo Alberto era sotto contratto al Covent Garden), avviò lo studio dell’arpa e del pianoforte. La formazione soggiacque a spinte contraddittorie: retroterra familiare colto, ma studi incompleti (solo per un periodo frequentò le scuole in un convento londinese) per seguire le peregrinazioni teatrali del padre, che dopo Londra lavorò a New York e Chicago; propensione per il canto, inizialmente dirottata verso la musica strumentale.
A 16 anni tornò in Italia per dedicarsi appieno allo studio del canto: dapprima con l’anziana mezzosoprano Annetta Casaloni – nel 1851 era stata la prima Maddalena nel Rigoletto –, di seguito con Antonio Fugazzola e una didatta di fama come Elettra Callery-Viviani. Neppure ventunenne, esordì il 15 gennaio 1910 al teatro Petrarca di Arezzo, in sostituzione della titolare indisposta, nel ruolo eponimo della Manon di Massenet (la parte già racchiudeva le caratteristiche della vocalità della cantante: taglia da soprano lirico, stile naturalistico, non senza sprazzi belcantistici); il successo fu tale che non solo le furono affidate tutte le recite previste, ma se ne aggiunsero altre (15 in tutto). Il secondo contratto, qualche mese più tardi, arrivò per un doppio impegno a Messina, in una Traviata e in un Rigoletto accanto a Tito Schipa, anch’egli ai primi passi in carriera.
Queste credenziali furono fatte valere su piazze più importanti: nel maggio 1911 debuttò al teatro Dal Verme di Milano nella Bohème di Puccini, come Musetta, e vi ritornò in dicembre per due parti più impegnative come Margherita (Faust di Gounod) e Nedda (Pagliacci di Leoncavallo). Sempre nel 1911 incise cinque dischi a facciata unica (solo un paio trovarono la via della distribuzione): fu un primo avvicinamento al fonografo, in attesa delle decine d’incisioni effettuate soprattutto dal 1920 in avanti. L’accostamento alla Manon di Puccini, più impegnativa di quella di Massenet sotto il profilo dell’intensità vocale, arrivò nel 1912 ancora al Dal Verme. Nel 1913 si esibì al San Carlo e alla Scala come Desdemona nell’Otello di Verdi, e fu scritturata in ruoli ‘spinti’, come Isabeau nell’opera omonima di Mascagni, rappresentata lo stesso anno al San Carlo.
Poteva sembrare una scelta azzardata per una voce come la sua, più duttile che voluminosa, ma era entrato in gioco il fattore scenico: la sensibilità da cantante-attrice, unita all’aspetto seducente (capelli corvini, occhi profondi e nerissimi su un incarnato pallido: una bellezza esaltata più sul palcoscenico che nella vita quotidiana), la predestinava alla sensualità decadente in auge nel melodramma coevo, si trattasse di novità assolute o di lavori da poco in circolazione (la première di Abisso di Antonio Smareglia e L’amore dei tre re di Italo Montemezzi, alla Scala nel 1914; la stessa Isabeau). La partecipazione alla prima del Trittico di Puccini (New York, 1918), dove incarnò Giorgetta nel Tabarro, e – sul finire della carriera – la creazione della santa nella Cecilia di Licinio Refice scritta per lei (Roma, 1934) sarebbero stati i momenti culminanti di tale percorso.
Il 1915 fu l’anno di un primo incontro – pochi altri ne seguirono – con Arturo Toscanini nella storica edizione dei Pagliacci al Dal Verme di Milano, a beneficio della Croce Rossa (l’Italia era in guerra da quattro mesi), che fu anche l’ultima apparizione di Enrico Caruso su un teatro italiano. Nel 1916 cantò per la prima volta al Metropolitan di New York: il debutto, a lungo preparato, fu anticipato per i problemi di salute di Lucrezia Bori, diva incontrastata di quel teatro. Vi approdò dunque da sostituta, ancorché di lusso, ma subito entrò nelle grazie degli spettatori, partecipando a una lunga serie di prestigiosi allestimenti (spesso al fianco di Caruso), accolta con un calore che tuttavia non spodestò Bori: non è un caso che, dopo lunga malattia, la ricomparsa di costei al Metropolitan nel 1921 coincise con l’ultima stagione newyorkese di Muzio (salvo una rentrée negli anni Trenta).
Fedeli al mito della cantante si mantennero invece i pubblici dell’America Latina: dal 1919 il Colón di Buenos Aires fu il ‘suo’ teatro; e lo stesso poté dirsi, di lì a poco, per il Solís di Montevideo e il Municipal di Rio de Janeiro. Su questi palcoscenici il soprano non si cimentò soltanto nei suoi cavalli di battaglia, ma poté tentare qualche esperimento: a Rio, nel 1920, impersonò per la prima e sola volta la Marescialla nel Cavaliere della rosa di Richard Strauss e nel 1926 tenne a battesimo a Buenos Aires la prima sudamericana di Turandot – a soli due mesi dalla première scaligera – accanto al tenore cui, nelle intenzioni di Puccini, sarebbe spettato da subito interpretare Calaf: Giacomo Lauri-Volpi.
Tra i due, che ebbero spesso occasione di cantare insieme, scoccò una scintilla non solo artistica, potenziata dal fatto che il precedente legame della cantante con l’impresario Ottavio Scotto si andava trasformando in un mero rapporto lavorativo (peraltro finanziariamente oneroso per il soprano): ma per i principî di Lauri-Volpi, coniugato e cattolico osservante, il cammino comune si limitò alla sfera dell’arte e a una stretta amicizia.
Nel 1929, compiuti i 40 anni, Muzio sposò il ventiquattrenne Renato Liberati, che le fece da segretario. Fu anche l’occasione per riprendere i contatti con l’Italia, allentati dalle tournées americane, e in particolare con la capitale: il passaggio dal vecchio regime impresariale del teatro Costanzi al rinnovato teatro reale dell’Opera, gestito direttamente dal governatorato di Roma, venne affidato a un giro d’imprese che aveva Scotto tra i soci dichiarati e, tra gli occulti, la stessa Muzio. Di lì a poco il rapporto gestionale venne rescisso (Scotto riluttava ad allinearsi al fascismo), ma il pubblico romano s’infatuò durevolmente per la cantante, che grazie ad acclamate recite della Traviata, della Forza del destino, di Tosca, era ormai per tutti la «divina Claudia»; lo stesso Mussolini volle conferirle la tessera fascista ad honorem.
In quegli anni iniziò a fare abuso di sonniferi: è possibile che da lì sia iniziato il progressivo affaticamento cardiaco di cui patì. L’ultima grande occasione artistica le si presentò a Roma, quando nel 1934 cantò nella prima assoluta di Cecilia di Refice, che portò poi a Buenos Aires e Rio. La stagione romana 1934-35 alternò gioie e dolori: trionfi per Otello e La traviata ma recensioni alterne per Norma, dove a più d’un critico sembrò che la profusione dei pianissimo mascherasse l’affievolimento dei mezzi. Forse per quest’accoglienza controversa, unita al fatto che gli affanni cardiaci le avevano fatto disdire vari impegni, il teatro le sottrasse l’Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea – sarebbe stato un nuovo debutto, cui teneva moltissimo – programmata per la stagione successiva.
Anche in occasione dell’ultimo lotto di registrazioni discografiche, realizzate per la Columbia sempre tra il 1934 e il 1935, apparve chiaro che il tempo era trascorso: per incidere quei dischi, cui peraltro arrise straordinario successo, il soprano dovette sobbarcarsi un esborso personale.
Fece ancora in tempo, nel novembre 1935, a concedere tre serate all’adorante pubblico di Buenos Aires.
Morì il mattino del 24 maggio 1936, colpita da malore nella stanza dell’albergo Excelsior di Roma dove soggiornava, dopo un’ennesima notte trascorsa in preda ai sonniferi.
Il funerale, due giorni dopo, fu un bagno di folla, con la regina Elena in rappresentanza delle autorità. Deluse invece la sottoscrizione lanciata nel 1937 da un comitato di estimatori per un monumento da erigere nel cimitero di Roma: davanti alla richiesta d’un contributo economico alcuni teatri si tirarono indietro, mentre non mancarono i sottoscrittori privati, tra i primi Lauri-Volpi. Il monumento fu comunque realizzato, opera di Pietro Canonica, scultore famoso e distinto musicista.
Una ricognizione completa dell’arte vocale e teatrale di Muzio non è oggi possibile, in assenza di registrazioni video; ma il soprannome che le fu dato – la Duse del canto – attesta che il suo talento scenico dovette formare un tutt’uno con quello vocale. I numerosi dischi danno forse soltanto una pallida eco della sua personalità: tanto più che i primi appartengono al periodo delle incisioni acustiche (poco propizie a una felice captazione delle voci femminili), mentre nelle incisioni elettriche si nota l’accorciamento dei fiati dovuto ai sopravvenuti problemi cardiaci; a riascoltarli oggi, più che la spontaneità della resa vocale si rischia di cogliere quel manierismo che le fu rimproverato sul finire della carriera. La miglior definizione resta probabilmente quella data da Lauri-Volpi, che in Vociparallele (1955, pp. 64 s.) definì la cantante una voce «di transizione», lirica per natura ma drammatica per vocazione: una voce «piuttosto limitata», che però «acquistava risonanze insospettabili, poiché ogni nota spirava un sentimento vibrante».
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio storico del teatro dell’Opera, fascicolo C.M., contenente contratti e scambi epistolari con la dirigenza del teatro, 1932-1937; Ibid., Rassegnastampa stagione 1934-1935; G. Monaldi, Cantanti celebri, Roma 1929, pp. 268 s.; G. Lauri-Volpi, L’equivoco (Milano 1938), Bologna 1979, p. 174; Id., Vociparallele (Milano 1955), Bologna 1977, pp. 64 s.; M. Rinaldi, La Duse del canto, in La Scala, 1956, n. 83, pp. 37 s.; R. Celletti, C. M., in Le grandi voci: dizionario critico-biografico dei cantanti, Roma 1964, pp. 564 s.; J.B. Richards, C. M., in Record Collector, XVII (1966-68), pp. 197-237, 256-263 con discografia; M. Scott, The record of singing, II: 1914-1925, London 1979, pp. 67-71; G.G. Martini, C. M., in Musica, 1985, n. 38, pp. 24 s.; E. Arnosi, C. M.: la única, Buenos Aires 1986; J.B. Steane, Voices: singers & critics, London 1992, pp. 145-150; J. Kesting, Die großen Sänger, II, Kassel 2010, pp. 851-857; Enciclopedia dello spettacolo, VII, coll. 985-987; K.J. Kutsch - L. Riemens, Großes Sängerlexikon, II, Bern-Stuttgart 1987, coll. 2061 s.; Id., Ergänzungen I, 1991, col. 1617; Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti. Le biografie, V, p. 314; The New Grove Dict. ofOpera, III, pp. 537 s;The New Grove Dict. of music and musicians (ed. 2001), XVII, p. 566; Die Musik in Geschichte und Gegenwart,Personenteil, XII, 2004, coll. 881 s.