HELVÉTIUS, Claude-Adrien
Filosofo, nato a Parigi nel gennaio 1715, morto ivi il 26 dicembre 1771. È uno dei tipici rappresentanti del pensiero francese del sec. XVIII. Nobile e ricco, nel 1751 rinuncia all'opulenta carica di fermier général per darsi tutto alla società intellettuale e agli studî. Scrive epistole in versi sullo studio, sulle arti, sul piacere; un poema, Le bonheur; pubblica nel 1758 anonimo il libro De l'esprit, sollevando clamore d'entusiasmi e di vituperî, critiche deferenti di Rousseau, Voltaire, Diderot, ecc., condanne delle autorità ecclesiastiche, politiche e accademiche, per cui sconfessa in pubblico l'opera e riserva a pubblicazione postuma il De l'homme, de ses facultés intellectuelles et de son éducation, che ribadisce e sviluppa le sue teorie.
La sua dottrina, in cui fra superficialità e incoerenze tralucono pure intuizioni acute, rispecchia per assimilazione o per antitesi le più notevoli correnti del tempo. Si dichiara discepolo di Locke e di Hume ma riduce a semplicismo materialistico il sensismo di Condillac; sente con Montesquieu e Rousseau l'importanza del problema delle istituzioni e dell'educazione, ma lo imposta sulla visione di Hobbes e La Rochefoucauld dell'egoismo umano, tramutata però con Mandeville in rivendicazione dell'interesse e delle passioni, e così contrapposta alla morale del sentimento e al naturalismo di Rousseau; del quale tuttavia qualche eco talvolta risuona in H., con echi del deismo di Voltaire, nella difesa della libertà contro il fanatismo e l'intolleranza.
Per H. un sol principio spiega il mondo fisico, la forza; un sol principio il mondo morale, la sensibilità: uguale in tutti gli uomini, e in tutti capace di uguale sviluppo intellettuale e morale, ove per tutti si rendesse uguale l'azione delle multiformi esperienze che costituiscono l'educazione. La sensibilità è piacere e dolore, e quindi risveglio d'interesse; e l'interesse determina l'orientamento e gli sviluppi della conoscenza, del sentimento e dell'azione. Interesse e passione sono le forze che vincono l'inerzia e stimolano ogni attività dell'uomo: benefiche o malefiche a seconda della direzione che imprimono all'amor proprio, che trasformano in virtù o in vizio a seconda che l'educazione e le circostanze le orientino verso la coincidenza o l'antitesi fra l'interesse individuale e il generale. Il principio dell'approvazione e il criterio della scelta in ogni individuo non è infatti che esperienza convertita in previsione delle risposte sociali agli atti dell'individuo: così dall'atteggiamento normale della società nasce il giudice interno della coscienza. Ecco quindi l'importanza dell'educazione e della legislazione, che saranno creatrici di virtù in tutti, quando leghino l'interesse personale col generale, per modo che l'uno si raggiunga solo attuando l'altro. Tutti i vizî d'ogni nazione non sono quindi che vizî di legislazione: il problema della virtù s'identifica con quello della felicità (consistente nell'attività conquistatrice anzi che nel possesso del bene), ossia col problema d'una riforma sociale che elimini ogni condizione in cui l'uomo possa esser felice a prezzo del male altrui. A tale riforma H. proclama necessarie la libertà e la democrazia, la tirannia mette l'interesse del legislatore contro il pubblico: ora le leggi sono espressione dell'interesse di chi ha il potere; la giustizia suppone quindi equilibrio di potenza;e d'altra parte l'interesse per la verità e la moralità solo dalla libertà è fatto vivo e operante in tutti. H. qui precorre Stuart Mill, non senza riprendere anche gli argomenti di Rousseau e Voltaire per la libertà contro il dogmatismo e l'intolleranza.
Ma, dato il determinismo di H., la creazione della perfetta moralità è opera di educazione e legislazione perfette. Il processo storico ha scisso la società in classi a interessi antagonistici; l'esigenza morale è la creazione d'una legislazione che elimini le antitesi e identifichi il bene individuale col comune: il motivo comunistico, frequente nel secolo XVIII, affiora qui in H. Ma la sua esigenza riformatrice si avvolge in un circolo. La legislazione perfetta non può esser opera che di perfetta virtù di legislatore, cioè d'una causa che per H. non può essere se non effetto della condizione stessa che sarebbe chiamata a produrre. Osserverà Marx contro Owen, discepolo di H.: "l'educatore stesso deve venire educato... Il coincidere del variare dell'ambiente e dell'attività umana può esser inteso razionalmente solo come praxis che si rovescia", ossia come concreto processo dialettico della storia, in cui di continuo l'effetto si converte in causa e l'uomo non è prodotto passivo, ma antitesi operosa alle condizioni esistenti. La contraddizione in cui H. resta impigliato si risolve nello storicismo del secolo XIX.
Bibl.: Œuvres., ed. Lefebvre Delaroche, 1795, in 14 voll.; Keim, Notes de la main d'H., Parigi 1907; id., Helvétius, sa vie, son oeuvre, Parigi 1907; E. Troilo, H., in Riv. pedagogica (1905); R. Mondolfo, Le teorie morali e politiche di C. A. H. (con nota bibliogr.), 1904, ristampa Bologna 1924; id., Sulle orme di Marx, 3a ed., II, Bologna 1924.