Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella storia dell’architettura, il classico è un riferimento, un’àncora, una fonte. In alcuni contesti, e presso alcuni architetti, questa relazione, apparentemente stridente con il secolo per eccellenza della modernità, si mostra in tutta la sua chiarezza e continuità.
Razionalismo e romanità
“L’essenza del classicismo è venire dopo. L’ordine presuppone un certo disordine che esso viene a sistemare” (Paul Valéry, Variétés, 1944).
Quando, sul finire della seconda guerra mondiale, Valéry fornisce la sua definizione di classicismo, il moderno, iniziato qualche decennio prima, vede esaurirsi la propria spinta avanguardistica, mentre la tensione classicista, con il concorso dei regimi totalitari, riacquista nuovo slancio. In Italia, dopo l’infatuazione futurista vissuta dal fascismo in nome di una comune visione rivoluzionaria, a partire dalla seconda metà degli anni Venti prende corpo l’esigenza di definire un’architettura come arte di stato, per la quale l’esempio romano antico rappresenta la sponda più scontata, tanto che neppure la breve parentesi razionalista, avviata dal Gruppo 7 (Luigi Figini, Guido Frette, Sebastiano Larco, Adalberto Libera, Gino Pollini, Carlo Enrico Rava e Giuseppe Terragni) nel 1926 con il sostegno del duce, era riuscita a offuscare: “Noi dobbiamo creare un’arte dei nostri tempi, da porre accanto al patrimonio storico [...] un’arte fascista”, aveva dichiarato Mussolini in apertura alla II Esposizione romana del 1931. Nel classico l’architettura fascista trova un elemento di continuità naturale con il passato, capace di conferirle una connotazione propagandistica con un’aspirazione di eternità. Forse l’immagine del Colosseo quadrato, il palazzo della Civiltà Italiana all’EUR (1937-1940) di G. Guerrini, E. B. La Padula, M. Romano, è quella che meglio esprime le volontà autocelebrative della retorica classica fascista.
Ricorrenze
Valéry, tuttavia, non allude a un’unica età classica, ma a una pluralità di classicismi, la cui “essenza” risiederebbe nella ciclicità temporale con la quale essi ritornano “a sistemare” uno stato di “disordine”. Qualsiasi inizio, sembra dire Valéry, presuppone un nuovo classicismo.
Anche il moderno non sfugge al fascino regolatore del classico e alla sua capacità di rinnovarsi continuamente nel tempo, riconoscendovi l’unico e ideale riferimento del passato da cui partire e al quale tendere. Nessun altro linguaggio formale ha mostrato, nella storia dell’architettura occidentale, un potere evocativo e simbolico di analoga pregnanza: il suo sistema proporzionale, le sue regole sintattiche hanno offerto agli architetti le soluzioni più varie ai problemi progettuali, ordinando e componendo il processo di progettazione architettonica. Inoltre il classico non ha mai coinciso con l’ideale estetico di un paese, così che il suo carattere universale ha potuto essere di volta in volta adattato alle caratteristiche e alle esigenze del sentire di un popolo, fondendosi agli stili vernacolari. Ecco perché quasi tutti i paesi europei hanno avuto una loro tradizione classica, avallata dai loro teorici.
Già Colin Rowe, nei suoi The Mathematics of the Idea Villa (1947) e Neo-Classicism and Modern Architecture II (1956-1957), evidenzia alcuni tratti del classico nel moderno. Reyner Banham sosterrà in seguito che il debito contratto dal moderno con il classico – almeno nella sua fase iniziale – sia in definitiva più sostanziale rispetto a quello esercitato su di esso da alcune avanguardie storiche: “La teoria e l’estetica dello stile internazionale si sviluppano tra futurismo e accademicismo, ma raggiungono la perfezione solamente quando si staccano nettamente dal futurismo per avvicinarsi alla tradizione accademica” (Theory and Design in the First Machine Age, 1960). Affermazioni riprese e ulteriormente argomentate da Sir John Summerson, nel suo fortunato The Classical Language of Architecture (1963): “Se vi accingete a esporre che cos’è l’architettura moderna, potete farlo soltanto descrivendo i risultati raggiunti da determinate personalità innovatrici [...] Le radici dell’architettura moderna si trovano nel pensiero e nell’attività di questi capi, e il loro pensiero e la loro attività sono inscindibilmente connessi con le loro reazioni contro la loro alleanza e con le deviazioni dalla tradizione classica del loro stesso secolo e dei precedenti. [...] In breve, si può aggiungere all’esatta comprensione di ciò che chiamiamo, in modo piuttosto vago e disinvolto, moderno soltanto attraverso la comprensione della sua ascendenza classica”.
Vi sono diversi aspetti che ricorrono nell’architettura moderna che possiamo rintracciare nella tradizione classica: il purismo e il monumentalismo dei volumi, il senso delle proporzioni, la monocromia delle superfici, il funzionalismo distributivo e ancora, nella progettazione a grande scala, i tracés régulateurs di ascendenza romana che tanto affascinano Le Corbusier per la capacità d’imporsi sul luogo e sul paesaggio; ma anche, all’opposto, l’“ordine irregolare” che informa la dislocazione degli spazi e dei percorsi nella polis greca, che interessa alcuni architetti del nord Europa, come Gunnar Asplund e Alvar Aalto.
Le radici del classicismo moderno
Le radici teoriche del classicismo moderno devono ricercarsi in Francia e poi in Inghilterra, tra la fine del Settecento e nel corso dell’Ottocento, a seguito delle scoperte archeologiche che attirano moltissimi viaggiatori e studiosi in Italia e in Grecia. Sul piano teorico la rinascita classica, specie nella sua critica al barocco, deve molto agli scritti di Francesco Algarotti, Francesco Milizia e di Carlo Lodoli ma le prime manifestazioni architettoniche non si avranno sul suolo italiano. Del più rivoluzionario fra gli architetti italiani, Giovan Battista Piranesi, celebre piuttosto per una quantità di incredibili incisioni, abbiamo una sola opera architettonica: Santa Maria del Priorato sull’Aventino (1764-1766). Furono Charles Perrault, Louis-Géraud de Cordemoy e soprattutto il gesuita Marc-Antoine Laugier a interrogarsi sull’essenza dell’architettura classica, ispirata sostanzialmente, nelle loro teorie, alle forme elementari della natura. Notevole l’impatto comunicativo dell’idea di Laugier: al frontespizio della seconda edizione (1755) del suo Essai sur l’Architecture (1753) è associata l’immagine di una capanna retta da quattro alberi, il tutto assemblato in modo da fornire l’impressione di un primitivo tempio classico. La semplicità strutturale, l’assenza di elementi decorativi, la sagoma geometricamente definita, fanno di quell’immagine la più riuscita ed efficace astrazione del concetto teorizzato da Laugier e dai suoi seguaci. Riflessi del suo pensiero possono cogliersi nel primo grande monumento neoclassico francese, il Panthéon parigino (1756) di Soufflot e nelle formulazioni visionarie di un gruppo di architetti cresciuti a fianco di Luigi XVI, Etiénne Louis Boullée, Claude Nicolas Ledoux e poco più tardi nei progetti ecclettico-pittoreschi di Jean-Jacques Lequeu . I loro grandiosi ed elementari edifici avviano, con il concorso di Jean-Nicolas-Louis Durand e della napoleonica École Polytechnique, la diffusione di un purismo classico in Inghilterra – la cui tradizione risaliva, per via teorica a Francis Bacon e per via pratica a Inigo Jones – nelle opere di Robert Adam , George Dance, John Soane, John Nash e, ancora, in Germania, in quelle di Karl Gotthard Langhans (1733-1808), Friedrich Gilly, Leo von Klenze e naturalmente di Karl Friedrich Schinkel. Questi è l’ultimo esponente di un classicismo austero: il rigore funzionale dei suoi impianti planimetrici e la semplicità dei suoi volumi divengono il punto di riferimento obbligato per gli architetti europei nati nella seconda metà dell’Ottocento. Gli influssi del suo Altes Museum (1824-1828), distributivamente organizzato attorno a un atrio circolare e volumetricamente concepito intersecando un parallelepipedo a un ciclindro – su uno schema che trae la sua origine nella tradizione rinascimentale italiana, da Francesco di Giorgio Martini in poi – si colgono di continuo nel Novecento, a partire dalla Biblioteca Comunale a Stoccolma (1920-1931) di Erik Gunnar Asplund, sino ai musei di James Stirling a Düsseldorf (1974) e a Stoccarda (1977-1984).
Adolf Loos
Pure Adolf Loos, uno dei protagonisti della Vienna fin de siècle e anticipatore di molte idee degli architetti del movimento moderno, si forma nel solco della tradizione architettonica schinkeliana. Il suo classicismo, tuttavia, fonda le proprie radici in un contesto più allargato. Loos deve compiere un viaggio nel Nuovo Mondo per riappropriarsi dell’Antico. Studiando l’architettura domestica inglese, esportata in America nel XVIII secolo, formula la sua concezione funzionalista, trovando poi nel classico la sua ideale espressione formale. La casa romana, con gli ambienti disposti attorno a un atrio, è il tipo normalmente adottato per le sue lezioni sulla villa alla Adolf Loos Bauschule. Il classico costituisce per Loos l’emblema di un’architettura senza tempo, i cui ornamenti sono portatori di un funzionalismo naturale ed eterno: “[...] non possiamo fare a meno di riconoscere la superiorità spirituale dell’antichità classica, l’inutilità di tutti gli stili, gotico, moresco, ecc. Questi possono certo aver influito sul Rinascimento e su tutte le altre epoche, ma è sempre un grande spirito, che io chiamerei super-architetto, a liberare l’architettura dagli accessori estranei e a riportarci a un sistema di costruzione puro, classico. E il popolo accoglie sempre con gioia questo grande architetto, perché in fin dei conti siamo classici nel pensiero e nell’animo. [...] Poiché l’architetto non crea solo per il suo tempo, anche i posteri hanno diritto a godere la sua opera. Allora occorre adottare un criterio fermo e immutabile, e questo è, ora e per il futuro, finché un grande evento non sovverta completamente i valori, l’antichità classica” (Vecchi e nuovi orientamenti nell’architettura, 1898).
Non si può comprendere la modernità della sua lezione senza considerare il continuo tributo offerto alla tradizione classica dalle sue architetture. Per Loos essere moderni significa assumere e attualizzare la lezione del classico, tramite riferimenti all’antico condotti su registri differenti. A volte quasi impercettibili, come nella casa sulla Michaelerplatz a Vienna (1909-1911), la cui ascetica fronte, tanto osteggiata dai viennesi, combina dettagli mutuati dall’antichità – come le colonne arretrate che inquadrano i bow-window secondo un motivo che ricorda l’esterno del Sepolcro di Annia Regilla a Roma – a soluzioni barocche, nel cornicione uncinato ripreso dal vicino palazzo di Johann Bernhard Fischer von Erlach ; altre volte i riferimenti appaiono smaccatamente espliciti, come nel grattacielo in forma di colonna dorica proposto per il Chicago Tribune (1922).
Behrens, Perret, Le Corbusier
Agli inizi del Novecento il classicismo moderno trae nuovi impulsi nelle opere di Peter Behrens in Germania e di Auguste Perret in Francia, paladini di una nuova estetica basata sull’impiego dell’acciaio e del cemento armato: nella fabbrica della AEG (1908), Behrens evoca l’immagine di un tempio greco, nel quale l’antico rapporto fra pieni e vuoti viene riletto tramite l’uso dell’acciaio e del vetro in luogo delle colonne e degli intercolumni; nel largo e basso corpo dell’edificio per la Marina militare di Parigi (1929), Perret guarda invece alla tradizione del classicismo francese.
Il giovane Le Corbusier trascorre quindici mesi nello studio di Perret e cinque in quello di Behrens (1910-1911), intervallando questi periodi con lunghi viaggi di studio. Nel 1910 parte alla volta del Mediterraneo visitando la Turchia, la Grecia e risalendo per Pompei, Napoli, Roma e Firenze: “coloro che praticano l’arte dell’architettura, e che si trovano a un momento della loro carriera con il cervello vuoto, con il cuore trafitto di dubbi di fronte al compito di dare una forma viva a una materia inerme, potranno concepire la malinconia dei soliloqui in mezzo alle rovine” (Carnet del route 1910, in “Almanach d’architecture moderne”, 1925).
Anche a distanza di anni il ricordo dell’Acropoli ateniese rimane per Le Corbusier un’esperienza conturbante: “Io sono salito all’Acropoli di Atene, vi ho passato un mese patetico, sconvolto da creazioni tanto profonde ed elevate, invenzioni sovrumane.” (Le tecniche sono a fondamento del lirismo, 1929). Senza quel viaggio non avrebbe potuto formulare la sua celebre e prosaica definizione: “L’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi nella luce” (Vers une architecture, 1923). Tuttavia, il rapporto intessuto con la classicità non si esaurisce in una questione espressiva né meramente estetica. Durante i suoi viaggi fa tesoro del classicismo strutturale dei suoi maestri, Behrens e Perret, trovando nel classico una giustificazione teorica. Riconosce nelle forme pure del Partenone “un prodotto di selezione applicato a uno standard”, vale a dire il germe di un principio di produzione in serie. L’immagine dell’antico tempio è presentata in una pagina assieme al profilo di una Delage Grand Sport del 1921, una delle più recenti proposte del mercato automobilistico: “Mostriamo dunque il Partenone e l’automobile perché si comprenda che si tratta, in campi differenti, di due prodotti di selezione, l’uno realizzato compiutamente, l’altro in prospettiva di progresso. Questo nobilita l’automobile. Allora! Allora restano da confrontare le nostre case e i nostri palazzi con le automobili. È qui che i conti non tornano. È qui che non abbiamo i nostri Partenoni” (Vers une architecture, 1923). Il taglio nitido e fiero dei marmi greci è paragonabile ai sinuosi profili in acciaio delle automobili moderne; lo studio del Partenone, come quello delle automobili, degli aeroplani, dei piroscafi, impone agli architetti di riflettere sul processo di produzione industriale dell’architettura, cercando nelle conquiste della moderna tecnologia le fonti d’ispirazione del proprio operare artistico.
L’antico viene smontato, ripulito, semplificato e riletto a proprio comodo, facendo tabula rasa di tutte le conoscenze acquisite dalla filologia sul cromatismo e rifiutando tutto ciò che in esso nega assialità, geometrismo, regola: “Ma nella Roma dell’architettura non c’era niente da fare: le mura chiudevano troppo, le case arrivavano anche a dieci piani uno sull’altro, come in un vecchio grattacielo. E il foro doveva essere brutto, un po’ come quella paccottiglia del santuario di Delfi. Urbanistica, grandi tracciati? Niente da fare. Bisogna andare a Pompei per poter ammirare una pianta ortogonale. [...] Fuori Roma, disponendo di spazio, hanno costruito Villa Adriana. Qui si riflette sulla grandezza di Roma. Perché qui hanno creato una disposizione che obbedisce a delle norme. Anzi, è la prima grande disposizione regolamentata d’Occidente. E se si ristabilisce il confronto con la Grecia si è portati ad ammettere: Il Greco era scultore, niente di più” (Vers une architecture, 1923).
Se Roma fornisce a Le Corbusier, con i suoi grandi tracciati, un riferimento importante per le sue composizioni urbanistiche, è probabilmente nell’incontro con l’Acropoli ateniese che assume un altro dei temi portanti del moderno: l’idea che la natura più profonda dell’architettura si riveli attraverso un’esperienza dinamica, ossia nel movimento all’interno e al di fuori di essa. È sempre nel solco del classicismo che nasce la quarta dimensione spazio-temporale; concetto che il giovane Charles-Édouard poteva aver tratto dalle pagine dei filosofi ottocenteschi. Basterebbe prendere uno dei suoi schizzi dei Propilei e leggere un passo dell’Estetica (1821) di Hegel: “In questi prostili e anfiprostili, in questi colonnati semplici e doppi, che immediatamente conducono a uno spazio aperto, vediamo le persone circolare all’aperto, liberamente, isolate o raggruppate accidentalmente, giacché le colonne in generale non servono a chiudere, ma solo una delimitazione che rimane senz’altro oltrepassabile, così che ci si trova per metà fuori, per metà dentro, o per lo meno si può uscire immediatamente all’aperto [...]. Così l’impressione di questo tempio rimane, sì, semplice e grandiosa, ma nello stesso tempo serena, aperta, gradevole, in quanto l’intero edificio è volto più a servire per il paesaggio, per l’intrattenersi, per l’andirivieni che non per il concentrato raccoglimento interiore di una assemblea chiusa tutto intorno e isolata dal mondo esterno”.
Eredi del nord
Questo senso allargato di umanità, infuso dall’architettura classica, la sua capacità di dare una forma essenziale e compiuta a un microcosmo umano, trova ampi e ben più profondi consensi nei paesi dell’estremo nord dell’Europa, in Svezia, in Danimarca, in Finlandia, che cercano nel classico una nuova identità culturale e architettonica. Proprio l’irregolarità degli impianti classici greci, come la Delfi ripudiata da Le Corbusier, affascina gli architetti scandinavi. Il cimitero di Stoccolma di Asplund e Lewerentz (1918-1920) costituisce probabilmente il primo tentativo di applicazione dei principi dell’architettura greca ellenistica a una creazione moderna, non solamente riferita agli elementi architettonici, agli ordini, alla tipologia templare, ma ai rapporti planimetrici e volumetrici instaurati dagli edifici, dove all’ortogonalità romana, la tradizione greca oppone un ordine irregolare, asimmetrico, complesso nella dislocazione degli edifici. In questo luogo, come nel santuario di Delfi, senza il ricorso a impositive assialità, si ha l’impressione che la natura sia stata addomesticata, come se tutto stesse in uno stato di sospensione, vera e propria “consacrazione del luogo”, ha detto Kurt W. Forster. Il Cimitero di Asplund, forse più di tutta la tradizione classica messa assieme, sembra infatti costituire il fondamento di tutta l’opera di Alvar Aalto, il massimo architetto scandinavo del Novecento.
Anche Louis Khan (1901-1974), senza dubbio la figura più interessante dell’architettura americana del dopoguerra, trova la propria strada solo dopo un soggiorno di un anno (1950-1951), trascorso all’American Accademy di Roma a studiare le antichità classiche: ha 50 anni, non ha costruito ancora nulla, ma dopo Roma la sua architettura non sarà più la stessa e il classico, una volta ancora, rinascerà sotto nuove spoglie.