civilta
Idea che ha avuto una lunga evoluzione, nel corso della quale ha assunto significati diversi tra loro, ma spesso legati (per affinità o per contrasto) al concetto di cultura (➔). Al di là delle molte sfaccettature, i significati principali del termine sono riconducibili a quattro: quello giuridico-politico di ‘cittadinanza’, prevalente nell’Antichità e nel Medioevo; quello morale-pedagogico di ‘buone maniere’, prevalente tra 15° e 16° sec.; quello storico-sociale di progresso verso livelli di vita sociale e culturale sempre più elevati, che si afferma nell’Illuminismo francese e anglo-scozzese e al quale si contrappone la visione tedesca della civilizzazione come fase decadente di una cultura; infine quello neutrale proprio delle scienze sociali, sviluppatosi a partire dal 19° sec., secondo cui la c. è l’insieme delle manifestazioni di vita materiale e spirituale di un popolo o di un’età. Nelle scienze sociali, tuttavia, si è fatto di preferenza ricorso al concetto di cultura, mostratosi più idoneo ad assumere una valenza descrittiva rispetto all’idea di c., tenacemente condizionata dai suoi usi assiologici (positivi o negativi).
Il termine civilitas compare per la prima volta nel 1° sec. d.C., quando Quintiliano lo impiega come equivalente del termine greco πολιτεία (sulla base della corrispondenza tra πόλις e civitas): esso indica la condizione di cittadino e il diritto di cittadinanza. Questo significato politico si conserva nel latino medievale, dove civilitas indica l’appartenenza a una città e, in senso lato, l’ordinamento politico-giuridico di quest’ultima; in questa accezione il termine viene utilizzato anche dagli scrittori politici del Cinquecento, per i quali esso comprende nel suo significato anche le arti finalizzate al bene comune e il comportamento virtuoso del cittadino. Accanto al significo politico, legato all’origine letterale del termine, si sviluppa tuttavia un significato metaforico, legato alla sfera morale e pedagogica: civilitas diviene sinonimo di urbanitas, ossia di quell’insieme di ‘buone maniere’ che deve osservare chi vive in società e che sono il frutto di un’accurata educazione. Nel 16° sec. è ormai questo il significato prevalente di c., come dimostra la fioritura di piccoli trattati finalizzati a «insegnare la civiltà ai fanciulli», il più celebre dei quali è il De civilitate morum puerilium (1530) di Erasmo, che ebbe uno straordinario successo.
Il termine c., nel Seicento, era ormai così legato all’idea della ‘buona educazione’ che quando, nel secolo successivo, si vorrà esprimere l’idea del progresso di un popolo verso un livello di esistenza superiore alla barbarie o allo stato selvaggio si sentirà il bisogno di ricorrere a un neologismo: nascerà così, nella Francia del Settecento, il termine civilisation, che si affermerà rapidamente nella lingua francese e di qui passerà nell’inglese (civilisation), nel tedesco (Zivilisation) e, in forma leggermente diversa, nell’italiano (incivilimento). Il nuovo termine veicola l’idea moderna di c., ossia quella di un processo storico-sociale in virtù del quale un popolo passa dallo stato selvaggio alla barbarie e di qui alla condizione di popolo civile. Tale condizione finale è tuttavia anch’essa il momento di un processo, giacché la natura dell’uomo è perfettibile e quindi destinata a progredire ulteriormente. A partire da Voltaire (che peraltro non usò mai il termine) l’idea di c. fa dunque tutt’uno con la nozione di progresso (➔) e ne segue i diversi sviluppi nella tradizione illuministica francese e in quella anglo-scozzese. Se in Voltaire il progresso è limitato e non esente da interruzioni (esso riguarda i costumi, le arti, le lettere, il sapere scientifico e filosofico, ma non la politica), in Condorcet è ormai diventato un processo senza soste, senza ritorni indietro e senza limiti in avanti: il cammino della c. è destinato a trasformare in meglio la stessa natura umana. Questa componente utopistica è assente nella tradizione anglo-scozzese, che sottolinea il nesso tra c. e libertà (cosa che in Francia aveva fatto soprattutto Montesquieu): Hume, Ferguson e A. Smith fanno coincidere lo sviluppo dell’umanità con lo sviluppo della ‘società civile’, ossia di un’organizzazione socio-politica complessa (diversa da popolo a popolo) i cui elementi costitutivi sono il ‘governo delle leggi’, la libertà individuale, la garanzia della proprietà privata, la stratificazione sociale, il commercio e le relazioni politiche con altri Stati. Il raggiungimento di queste condizioni, tuttavia, non è dato una volta per tutte: il progresso può infatti arrestarsi, afferma Ferguson, e i popoli possono decadere.
Quando, sul finire del 18° sec., il termine Zivilisation penetra nella lingua tedesca, esso incontra un altro termine (Kultur) che gli impedisce di acquisire lo stesso significato assunto in Francia e in Gran Bretagna. Per Kant la Zivilisation riguarda la sfera delle convenienze sociali, mentre la sfera del sapere e delle arti fa parte della Kultur; a queste va aggiunta la Moralität (moralità), che è superiore a entrambe ma è più vicina alla Kultur. Humboldt riprenderà la concezione di Kant, collocando la Zivilisation, relativa alla sfera del comportamento esteriore, al di sotto della cultura e della moralità; ma sostituirà quest’ultima con il concetto di Bildung, ossia con il processo di formazione individuale della personalità (equivalente alla greca παιδεία e alla romana humanitas). Ma già con J.H. Pestalozzi il rapporto di subordinazione tra c. e cultura si trasforma in un rapporto di aperta contrapposizione: la c. è il prodotto della natura sensibile (che l’uomo ha in comune con gli animali), mentre la cultura ha fondamento nella natura umana e ha un carattere spirituale. Questa contrapposizione verrà ripresa e articolata in vario modo dalla cultura tedesca dell’Ottocento: la c. è meccanica, mentre la cultura è organica; la c. è tecnica, mentre la cultura è arte; insomma, l’una è il ‘corpo’, l’altra lo ‘spirito’ dello sviluppo dell’umanità. Questa antitesi – che ha giocato un ruolo di primo piano nelle motivazioni ideologiche della prima guerra mondiale (la Kultur tedesca contro la civilisation francese) – troverà la sua più chiara espressione nell’opera di Spengler.
In Der Untergang des Abendlandes (1918-22; trad. it. Il tramonto dell’Occidente) Spengler si propone di delineare una «morfologia della storia universale». Egli sostiene che le culture sono assimilabili agli organismi: come ogni essere vivente, hanno un loro patrimonio biologico, in virtù del quale producono un mondo simbolico del tutto diverso da quello delle altre culture (il che rende impossibile la reciproca comprensione); e come ogni essere vivente sono destinate a morire. Quando lo slancio creativo di una cultura si esaurisce, allora inizia il suo declino, che corrisponde alla fase della c. nella quale predomina il sapere tecnico-scientifico e si assiste al venire meno dei valori tradizionali. Nell’epoca attuale al posto della città, con la sua articolazione in ceti e classi, troviamo la metropoli, dove si concentrano masse improduttive e informi; e il regime che riflette questa decadenza è la democrazia (peraltro destinata a trasformarsi in cesarismo), dove al primato della politica e dello spirito succede quello dell’economia e del denaro. La concezione di Spengler è stata ripresa, per certi aspetti, dallo storico inglese A. J. Toynbee, il quale sostiene che ogni c. – ossia ogni società complessa che ha superato il livello dell’umanità primitiva – passa attraverso quattro fasi: nascita, crescita, crollo e disgregazione. Ma questo ciclo, per Toynbee, non ha un andamento ‘fatale’, perché dipende dalla capacità degli uomini di reagire alle sfide interne o esterne. Una civiltà sorge quando un gruppo umano, rompendo la «crosta della tradizione» propria della cultura primitiva, risponde con successo a una sfida postagli dall’ambiente o dal contatto con altri gruppi: di qui inizia il suo sviluppo, che proseguirà sin quando tale gruppo saprà fronteggiare le sfide che l’ambiente e la storia gli propongono.
La caratterizzazione della c. contemporanea in termini di c. di massa, insieme a una visione critica della democrazia, sarà largamente ripresa – tra le due guerre mondiali – dalla letteratura sulla ‘crisi di c.’. L’avvento delle masse presenta, agli occhi di Ortega y Gasset (La rebelión de las masas, 1930; trad. it. La ribellione delle masse), aspetti positivi, come l’innalzamento del livello medio dell’umanità, ma porta con sé aspetti molto negativi, come la preoccupazione esclusiva per il benessere materiale e un livellamento spirituale generatore di conformismo. Il problema è che l’uomo-massa contemporaneo non è un uomo civilizzato, per Ortega, ma un ‘primitivo’ che vive in un mondo civilizzato, di cui sfrutta le conquiste tecniche senza essere consapevole dei loro presupposti conoscitivi ed etici: è un essere moralmente carente e per questo esposto al pericolo incombente di uno Stato onnipervasivo. Huizinga, dal canto suo, sottolinea in In de schaduwen van morgen (1935; trad. it. La crisi della civiltà) che il progresso del sapere tecnico-scientifico non è stato accompagnato da un equivalente progresso spirituale e morale: esso è quindi rimasto nella sfera esteriore e può condurre tanto alla salvezza quanto alla rovina della civiltà. Di «disagio della civiltà» parlerà invece S. Freud, ma nel contesto di una teoria della c. basata sul parallelismo tra sviluppo culturale e sviluppo individuale e senza le implicazioni fortemente pessimistiche presenti in Ortega e in Huizinga. Il fondatore della psicoanalisi, che non fa differenza tra Kultur e Zivilisation, sostiene che lo sviluppo psicologico del singolo e lo sviluppo culturale della specie umana seguono il medesimo processo, all’inizio del quale si troverebbe il conflitto con la figura paterna (il complesso di Edipo). In Totem und tabu (1913; trad. it. Totem e tabù) Freud parte dall’ipotesi dell’orda primitiva: al suo interno il padre esercita un dominio assoluto, che include il monopolio sessuale di tutte le donne. I figli, uccidendo e mangiando il padre, mettono fine a tale dominio, ma sono assaliti da un terribile senso di colpa, che li conduce a fondare l’organizzazione sociale sul tabù dell’incesto. Lo stesso processo avviene, in modo simbolico, a livello individuale: ogni bambino prova verso il padre un sentimento ambivalente, di odio e ammirazione al tempo stesso, perché vede in lui un rivale più forte nella lotta per l’amore della madre. L’uccisione del padre simboleggia la liberazione dalla sua autorità, mentre il pasto totemico simboleggia l’interiorizzazione della medesima autorità (il divenire adulti); l’esito finale, anche in questo caso, è la repressione di una parte degli istinti sessuali. Freud, in opere successive (Jenseits des Lustprinzips, 1920, trad. it. Al di là del principio di piacere; Die Zukunft einer illusion, 1927, trad. it. L’avvenire di un’illusione; Das Unbehagen in der Kultur, 1930, trad. it. Il disagio della civiltà), generalizzò le sue conclusioni, affermando che il principio del piacere spinge gli individui a soddisfare in modo non regolato i propri impulsi sessuali; ma un simile comportamento rende impossibile la nascita di qualsiasi forma di vita sociale. Ogni società poggia infatti sul principio di realtà, ossia sul riconoscimento che non tutti i nostri desideri possono essere soddisfatti; ed è proprio la repressione parziale degli istinti sessuali che permette di liberare l’energia psichica necessaria per raggiungere obiettivi più complessi, di tipo sociale e culturale. Se per un verso la repressione degli istinti sessuali è dunque necessaria, per altro verso il suo eccesso può provocare la disgregazione della vita sociale, indebolendo l’Eros e mettendo in libertà impulsi aggressivi e distruttivi.
Il primo tentativo di definizione sociologica della c. è rintracciabile in Alfred Weber, il quale vede nella c. un processo esterno (il progressivo dominio dell’uomo sulla natura) e interno (lo sviluppo intellettuale): tuttavia questo duplice processo rappresenta la continuazione dello sviluppo biologico, mentre la cultura rappresenta la capacità di svincolarsi dai condizionamenti naturali ed esprime quindi l’essenza spirituale o metafisica di ogni epoca. Se A. Weber, conformemente alla tradizione culturale tedesca, tende a identificare la c. con il progresso tecnico-scientifico, N. Elias – in Über den Prozess der Zivilisation (1936-37; trad. it. Il processo di civilizzazione) – la concepisce invece come mutamento di costumi, come trasformazione delle ‘buone maniere’ e delle convenzioni sociali che conduce alla progressiva riduzione delle differenze sociali e nazionali. Anche l’antitesi tra la c. francese e la cultura tedesca viene ricondotta da Elias al diverso sviluppo della borghesia francese (che assimilò i costumi di corte) e di quella tedesca (i cui ceti intellettuali furono emarginati dall’aristoscrazia). In quanto costituita da un insieme di comportamenti socialmente accettati e di regole che li sanzionano, la c. rappresenta un meccanismo di controllo degli impulsi individuali, meccanismo che nel corso del suo sviluppo è progressivamente passato da forme di eteronomia a forme di autonomia (➔ autonomia/eteronomia). Nell’antropologia la c. ha assunto invece un significato globale, indicando la totalità delle manifestazioni di una società, ma limitatamente alla fase temporale più recente dello sviluppo umano. In Man makes itself (1936) e in altre opere posteriori G. Childe riprende la tripartizione di stato selvaggio, barbarie e c., facendo coincidere il primo con il Paleolitico e la seconda con il Neolitico; ma alla prospettiva di uno sviluppo lineare e cumulativo sostituisce la concezione di una successione di livelli che comportano salti di carattere ‘rivoluzionario’. Tra il quarto e il terzo millennio a.C., in un’area del globo che va dalla Mesopotamia e dall’Egitto alla valle dell’Indo, l’uomo perviene – in virtù di una serie di scoperte decisive, come l’aratro e la ruota – a produrre eccedenze alimentari che consentono di liberare gruppi sociali dall’impegno nel lavoro produttivo; la società si articola allora in strati distinti che assolvono funzioni diverse, dal culto all’artigianato e al commercio. Tale processo si compie in un contesto nuovo, che è quello urbano. L’origine della c. è quindi legata – per Childe come già per Spengler – alla nascita della città (cioè a quella civitas dalla quale deriva originariamente il termine civilitas). Per Childe, come per tutto il filone neoevoluzionistico dell’antropologia novecentesca che da lui prende le mosse, il processo della c. rimane, al di là delle varianti, sostanzialmente unitario: si parla quindi di c. al singolare, contrariamente a Toynbee, per il quale c. è un concetto da declinare al plurale.
Complessivamente, il concetto di c. occupa, nelle scienze sociali, un posto marginale. A volte viene usato per indicare l’insieme delle manifestazioni di una determinata società: in questo caso la cultura diviene un sotto-insieme della c. (la sfera delle attività intellettuali). Altre volte accade il contrario: ad assumere un significato totale è il concetto di cultura e allora c. indica o gli aspetti tecnico-strumentali di una cultura oppure il suo aspetto più progredito, pervenuto alla scrittura e alla vita urbana. Si giunge così alla distinzione, per es. in B. Malinowski, tra culture primitive e culture-civiltà. Le difficoltà e le oscillazioni nell’uso della nozione di c. nelle scienze sociali sono probabilmente dovute, come ha scritto Pietro Rossi, alla dimensione assiologico-valutativa (di tipo positivo o negativo) tenacemente presente in essa. Mentre il concetto di cultura si è rivelato suscettibile di un uso sempre più ampio e descrittivo – esso è stato allargato dagli antropologi in direzione del mondo umano, permettendo di intendere il valore delle forme di vita di ogni popolo, e dagli etologi in direzione degli animali, riducendo la distanza tra mondo umano e mondo animale – il concetto di c. è servito piuttosto a distinguere e ad allontanare: in base ad esso si è distinto tra l’Occidente e le società extraeuropee, tra un gruppo di società ‘civili’ e altre considerate primitive, tra strati sociali. Tale uso, per quanto legittimo, si scontra tuttavia con le esigenze metodiche proprie delle scienze sociali, che in genere si ispirano al modello weberiano della scientificità avalutativa (➔ avalutatività).