Civiltà e mondo magico: Croce e De Martino
In una delle pagine centrali della Storia come pensiero e come azione (1938), discutendo la legittimità del ricorso all’irrazionalismo come categoria di spiegazione storica, Benedetto Croce affermava con forza il principio che solo del positivo si potesse scrivere la storia. E spiegava che la ragione per cui non si poteva fare una storia del negativo era che reale è soltanto l’attività con cui gli uomini superano l’errore, la mancanza e la privazione.
Tutto questo Croce riteneva evidente e confessava pertanto il suo stupore di fronte ai tentativi sempre più ricorrenti di scrivere la storia di ciò che non è e non può essere. Ma che quel principio fosse molto più problematico di quanto Croce ritenesse era testimoniato, fra le altre cose, dal fatto che pochi anni dopo Adolfo Omodeo (1889-1946) si trovò costretto ancora una volta a ribadire che del negativo non si può fare storia. Scrisse quindi Omodeo:
a rigore di logica la storia del magismo non esiste, perché la storia si può fare del positivo e non del negativo: il magismo è una potenza di cui ci si spoglia nel processo della ragione, appunto perché si rivela inadeguata, e non creativa (lettera di Omodeo a De Martino del 24 febbraio 1941, in E. De Martino, Dal laboratorio del mondo magico. Carteggi 1940-1943, a cura di P. Angelini, 2007, p. 85).
Con quelle parole Omodeo rispondeva al suo vecchio allievo Ernesto De Martino (1908-1965) che, in una lettera datata 19 febbraio 1941, aveva sollecitato il giudizio del maestro a proposito di un saggio – probabilmente andato perduto – nel quale tematizzava il rapporto fra magia e razionalità occidentale (p. 83). Non si trattava certo di un argomento occasionale e privo di rilievo nell’economia del pensiero demartiniano. Appena dato alle stampe il suo primo libro, Naturalismo e storicismo nell’etnologia (1941), De Martino si era infatti dedicato ad analizzare il passaggio dalla Weltanschauung magica all’umanesimo della civiltà occidentale. E anche in quell’occasione aveva scritto a Omodeo una lunga lettera, datata 20 ottobre 1940 (in E. De Martino, Dal laboratorio del mondo magico, cit., p. 49), per comunicargli la nuova direzione del suo pensiero e per presentare i primi risultati delle sue ricerche.
Omodeo aveva espresso con chiarezza le difficoltà che vedeva in quel progetto. Quel giudizio critico del maestro riecheggiò per anni nella mente di De Martino. In una importante nota del Mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo (1948), De Martino decise pertanto di pubblicare quel passo della lettera di Omodeo e di rendere in tal modo esplicita una divergenza teorica che aveva costituito uno degli assi attorno al quale si era formato il suo pensiero.
Che il confronto con il pensiero crociano avesse rappresentato per il giovane De Martino una questione di assoluta rilevanza non è consentito dubitare. De Martino, che pure aveva subito l’influenza di Vittorio Macchioro (1880-1958), figura eclettica di archeologo e storico delle religioni nonché padre della sua prima moglie Anna, aveva scelto lo storicismo crociano come proprio orizzonte concettuale. Prova di questo spirito di discepolato è la lunga e tormentatissima lettera a Croce – non datata, ma che verosimilmente risale allo stesso periodo della corrispondenza con Omodeo cui idealmente si riallaccia – nella quale De Martino esponeva i propri dubbi su alcune conclusioni formulate da Croce in La storia come pensiero e come azione e, in modo particolare, in La natura come storia senza storia da noi scritta (1939).
A De Martino non mancava certo la fiducia nelle proprie doti intellettuali. Andò dunque senza infingimenti al cuore di ciò che riteneva essere una contraddizione all’interno della filosofia dello spirito. Nella Natura come storia senza storia da noi scritta Croce aveva affermato che anche la natura doveva avere una storia dal momento che, in quanto realtà, non poteva sottrarsi al divenire. Una volta riconosciuto il carattere pratico degli pseudoconcetti della scienza naturale, diventava necessario riassorbire la natura nell’unità dello spirito e attribuirle una qualche coscienza del suo fare. Ma allo stesso tempo la storia della natura non si poteva porre identica alla storia dello spirito. Di quest’ultima si danno documenti e testimonianze, prodotte da uomini come noi, mossi dagli stessi motivi che muovono noi ora. La prima, invece, è fatta da esseri le cui aspirazioni, gioie e dolori non possiamo capire. Per questa ragione, argomentava Croce, se pure si doveva ammettere che gli esseri naturali conoscono la loro storia perché l’hanno fatta, bisognava però concludere che «non la conoscono gli uomini, che non l’hanno fatta e non la fanno» (La storia come pensiero e come azione, a cura di M. Conforti, 2002, p. 285). Croce giungeva a questa posizione sulla scorta della propria concezione della storiografia «come problema teorico nascente da un bisogno di azione o correlativo a questo bisogno» (p. 285). Concezione da cui seguiva direttamente la conclusione che, data la diversità dei bisogni degli uomini da quelli degli esseri naturali, la natura dovesse rimanere un libro chiuso. L’unico livello di intelligibilità del mondo naturale cui l’uomo poteva pervenire era pertanto quello offerto dai concetti scientifici, i quali però astraevano dalla vivente realtà delle cose e dai problemi che avevano dato vita a quelle vicende storiche. Così, concludeva Croce, «le cosiddette scienze della natura […] hanno nel loro fondo una storicità che l’uomo non risentirà né ripenserà [...] mai» perché «per risentirla e ripensarla dovrebbe abbassarsi disotto dell’uomo». Casi di questo genere non sono certo impossibili, ma si danno soltanto quando affiorano condizioni patologiche nelle quali i malati riacquistano «simpatie e corrispondenze con gli esseri o le cose naturali che non sono compatibili con uno stato di sanità» (p. 287).
Tutto questo non convinceva De Martino. E a non convincerlo era soprattutto un’osservazione che Croce aveva inserito quasi di sfuggita ma che ai suoi occhi acquisiva invece un significato tutto particolare. Continuando in quel ragionamento Croce aveva scritto che ogni tentativo di conoscere storicamente le cose della natura finiva per sostituire al processo conoscitivo un «vario processo di immaginazione». E, spiegava, questo avveniva non soltanto quando nelle favole si immaginavano le cose della natura come se fossero esseri umani o quando un certo pensiero metafisico di ispirazione romantica trasformava quelle cose in categorie metafisiche, ma anche quando «si sogn[ava] di entrare in relazioni di familiarità con loro per mezzo di una supposta arte e potenza magica» (p. 287).
Quest’ultimo punto era per De Martino cruciale. Davvero la magia rappresenterebbe soltanto una delle forme dell’immedesimazione fantastica con le cose naturali? E davvero la magia sarebbe soltanto inganno e impostura? Di tutto ciò De Martino era molto meno persuaso di Croce – e per una pluralità di ragioni.
Da un lato, agivano su di lui suggestioni che derivavano dalla sua frequentazione con i testi di parapsicologia e di metapsichica. Proprio in quegli anni molti studiosi avevano fatto oggetto di indagine sperimentale i fenomeni paranormali: secondo De Martino quegli esperimenti di laboratorio dimostravano in modo convincente e scientificamente fondato la realtà di alcuni poteri magici quali la preveggenza, la visione a distanza e la telecinesi. Dall’altro, e più profondamente, esercitavano su di lui un influsso profondo tutta una serie di letture che esulavano dall’orizzonte crociano e che aprivano prospettive alternative di interpretazione della realtà magica. Si è detto di Macchioro, ma vanno ricordati gli antropologi inglesi e tedeschi, la scuola sociologica francese di Émile Durkheim (1858-1917) e, soprattutto, di Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939), e infine Ernst Cassirer (1874-1945) – della cui Philosophie der symbolischen Formen (3 voll., 1923-1929) fu attento lettore, tanto da proporne alcuni anni più tardi la traduzione del solo secondo volume, Il pensiero mitico, a Einaudi per la ‘collana viola’ da lui diretta con Cesare Pavese.
Nella lettera a Croce, tuttavia, De Martino decise di non rendere esplicite le intuizioni che si agitavano nel fondo del suo pensiero. Preferì ragionare e parlare da crociano – eterodosso certo, ma pur sempre crociano. E così non affrontò subito e direttamente il problema della realtà dei poteri magici e impostò invece il discorso nei termini rigorosi della concezione storicista della realtà. Scrisse quindi che «codesto concetto di magia mal si accorda[va] con lo spirito e con la lettera della vostra [di Croce] filosofia» e che ciò risultava tanto più evidente quando si fosse impiegata quella filosofia per interpretare le «forme di vita religiosa delle civiltà inferiori». E continuò osservando che se è vero che la natura è «storia senza storia da noi scritta» – una storia disindividuata, dunque – ciononostante niente impediva di pensare che ci fosse stato un tempo in cui ciò che ora ci sta davanti muto, come altro da noi, fosse stato invece parte dei bisogni e degli interessi di una protoumanità che noi, «figli del Rinascimento dell’Illuminismo e del romanticismo», ci siamo ormai definitivamente lasciati alle spalle. In questo senso, ragionava, era corretto dire che «per noi che abbiamo di così gran tratto distanziato la vita sub-umana e naturale» la magia non fosse altro che una «illusione», ma questo soltanto a patto di «considerarla come realtà per l’umanità primitiva» (lettera di De Martino a Croce, in E. De Martino, Dal laboratorio del mondo magico, cit., pp. 61-62).
Così esposto, l’argomento di De Martino era ellittico e poco persuasivo. Croce non aveva parlato di popoli primitivi ed era chiaro che in quel saggio intendesse riferirsi agli esseri naturali e non a quella che De Martino chiamava la «proto-umanità». De Martino voleva dunque dire qualcosa di più e di diverso da ciò che era scritto in Natura come storia senza storia da noi scritta. E di ciò era pienamente consapevole: era lui stesso, d’altronde, a riconoscerlo in uno scritto preparatorio alle ultime pagine di Naturalismo e storicismo nell’etnologia – e quindi redatto poco tempo prima della composizione della lettera a Croce – in cui, dopo aver discusso le tesi esposte in Natura come storia senza storia da noi scritta, aveva affermato che la sua lettura era sì crociana, ma più nel senso di essere stata ispirata dalle analisi crociane che nel senso di esserne una fedele riproposizione.
Era una lettura eterodossa perché De Martino vi introduceva una tripartizione fra «mondo subumano» (o naturale), «umano-primitivo» e «umano» che non era presente nel testo di Croce, ma alla luce della quale egli ne reinterpretava l’intera argomentazione. Il punto di partenza era dato dalla necessità di specificare meglio il concetto di bisogno e interesse. Riconosciuto con Croce che i bisogni del mondo subumano non potevano essere quelli dell’uomo, si dovevano però formulare in modo più convincente i modi in cui il rapporto fra storia e natura si veniva a costituire all’interno della ragione storiografica. Croce aveva osservato che ogni atto di comprensione storica è per sua natura selettivo e determina ciò che ha significato storico nello stesso momento in cui decide di far decadere tutto il resto, per tutta e sola la durata di quell’indagine, a «cose indifferenti, sulle quali si esercita l’astrazione che le materializza, le rende esterne, le classifica, le misura e le calcola» (B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit., p. 286). De Martino approfondiva quell’intuizione fino a fare del concetto di natura una funzione del giudizio storico: natura era da definirsi quindi tutto ciò che non è oggetto di attenzione storiografica, tutto ciò che non è tematizzato come elemento che possa soddisfare un bisogno. E pertanto concludeva che mentre la storia del mondo subumano era «teoricamente possibile ma del tutto improbabile», la storia del mondo umano-primitivo era invece «possibile di diritto e di fatto», essendo sufficiente che nascesse da un «bisogno dell’azione, da una Fragestellung» (Umano, Umano primitivo, Archivio Ernesto De Martino, 1.51, p. 5).
Attraverso la ridefinizione funzionale del concetto di natura e la specificazione del concetto storiografico di mondo umano-primitivo De Martino era in grado di allargare le maglie del sistema crociano per introdurvi quell’interesse etnologico a cui Croce non era affatto sensibile. Il problema di una storia del mondo umano-primitivo diventava dunque innanzitutto quello di individuare quali bisogni muovessero l’uomo primitivo e di farli nostri, ovvero di trovare un modo di ridiscendere a quel mondo primitivo che costituisce il presupposto storico della civiltà e, così facendo, di costituirlo come oggetto di indagine storiografica.
Era nei termini di questa interpretazione del saggio Natura come storia senza storia da noi scritta che De Martino esponeva a Croce le sue perplessità sulla tenuta teorica di una filosofia dello spirito che rifiutasse di tematizzare il fenomeno magico come genuino problema storico. Certo, non si trattava di un compito facile. Già Giambattista Vico – e Vico era un autore profondamente meditato da De Martino in quegli anni – aveva notato quanto fosse difficile spogliarsi delle «nostre nature ingentilite» per penetrare nelle profondità di quelle «affatto fiere ed immani» dei bestioni primitivi (G. Vico, Principi di scienza nuova, 1744, in Id., Opere, a cura di F. Nicolini, 1953, p. 484). Ma il compito di un’etnologia storicistica era, per De Martino, precisamente quello di aprire una strada che conducesse dal moderno al primitivo e, così facendo, di portare alla luce il significato storico di quel momento in cui ebbe inizio il processo di formazione dell’umanità civilizzata.
E qui entrava finalmente in gioco la magia. La magia, scriveva De Martino a Croce usando una formula che non poteva non colpire il suo interlocutore, è «la “Storia come pensiero e come azione” dei primitivi». Questo perché «se la natura è [...] storia senza storia da noi scritta», allora «la magia è una storia della natura rappresentata e agita se non proprio dalle piante e dagli animali che l’hanno fatta, da uomini molto prossimi alle piante e agli animali» (lettera di De Martino a Croce, in E. De Martino, Dal laboratorio del mondo magico, cit., p. 63).
Per articolare meglio questo punto De Martino ricorreva a una suggestiva immagine tratta dal libro di Alberto Geremicca Spiritualità della natura (1939) – un testo che Croce conosceva bene per averlo recensito positivamente sulle pagine della «Critica». Quando eravamo embrioni, aveva osservato Geremicca, tutte le nostre idee e i nostri desideri avevano per oggetto «la formazione e lo sviluppo di ciò che siamo soliti chiamare il nostro fisico» ed eravamo in grado di «richiamare, ad es., gli umori in una parte più che in altra e promuoverne o temperarne la crescita» (Spiritualità della natura, cit., pp. 111-12). Ma se questo è vero, ribatteva De Martino a Croce, se davvero ci fu un tempo in cui eravamo in stretto contatto con la nostra natura fisiologica, allora nulla impediva di pensare a un tempo nella storia della civiltà umana in cui il mago si trovava in una più stretta comunione con ciò che adesso per noi è natura, «un tempo in cui potevamo attraversare il fuoco senza bruciare le nostre carni», «un tempo in cui potevamo a volontà arrestare i battiti del cuore» (lettera di De Martino a Croce, in E. De Martino, Dal laboratorio del mondo magico, cit., p. 64).
La proposta teorica che De Martino sottoponeva all’attenzione di Croce era dunque chiara e muoveva da un’assunzione radicale. Questa: che certamente avevano ragione Croce e Omodeo ad affermare che solo del positivo si può dare storia e mai del negativo; ma che bisogna allo stesso tempo tener fermo che ciò che è positivo non si riduce a ciò che appare positivo a noi che apparteniamo a una civiltà fondata sulla religione laica della libertà, dello spirito e della storia e sul dominio tecnico sulla natura. Non c’è dubbio che per la nostra civiltà la magia sia impostura, illusione, puro negativo, qualcosa di cui ci si spoglia nel processo della ragione; non lo era però per le civiltà primitive.
Nelle pagine introduttive di Naturalismo e storicismo nell’etnologia, De Martino aveva affermato che per completare l’ordito dell’animo moderno si doveva rintracciare quell’unico filo mancante, il filo del mondo primitivo. Lo ribadiva anche in questa occasione: era necessario riannodare tutti i fili, ma per riuscirci bisognava cogliere il positivo di cui la vicenda magica rappresenta la storia. Occorreva provare a comprendere quel dramma.
Non sappiamo quale fu la reazione di Croce a quelle pagine tormentatissime che De Martino aveva sottoposto alla sua attenzione – non ci è pervenuta la sua lettera di risposta, se mai ce ne fu una. Quello che però sappiamo è che Croce era a conoscenza dell’eterodossia demartiniana diversi anni prima dell’apparizione del Mondo magico come volume inaugurale della collana viola einaudiana: nella lettera che De Martino gli inviò erano infatti presenti in nuce tutti i problemi che andarono a costituire il nucleo incandescente di quell’opera. Non stupisce più di tanto quindi che Croce, letto il libro, ne avesse dato inizialmente un giudizio sostanzialmente positivo ma sbrigativo. Croce aveva già una certa familiarità con i concetti che disegnavano l’architettura teorica del capolavoro di De Martino. Vi aveva perciò dedicato una breve recensione sui «Quaderni della “Critica”» (marzo 1948, 10, pp. 79-80), rimarcandone i meriti (la critica del naturalismo, il contributo alla costruzione di una nuova metodologia della storia) e notando, quasi incidentalmente, il suo difetto, ovvero il tentativo di storicizzare le categorie. Ma quando lo rilesse una seconda volta, con più calma e con un maggior distacco critico, Croce si accorse che c’era qualcosa in quel libro che lo turbava profondamente.
De Martino aveva infatti proseguito sulla linea che aveva indicato ai suoi maestri, giungendo a conclusioni radicali e sovvertitrici. Era innanzitutto riuscito finalmente a definire in modo preciso in che cosa consistesse la positività della vicenda magica ed era quindi in grado di rispondere compiutamente all’obiezione mossagli da Omodeo sette anni prima. E i termini in cui quella risposta era formulata continuavano a essere crociani, così come crociana era l’aspirazione a portare avanti l’«allargamento dell’autocoscienza della nostra civiltà» (E. De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, 20072, p. 3) e a sottoporre la filosofia dello spirito alla prova di nuove esperienze storiografiche.
Lo storicismo etnologico demartiniano prendeva le mosse da una critica della categoria di realtà in vigore nella nostra cultura. Siamo «prigionieri di una limitazione culturale», osservava De Martino, che ci porta a dare per scontata la presenza del soggetto, l’esserci unitario della persona, la capacità del soggetto di opporsi a un oggetto e di tenerlo fermo come qualcosa di diverso da sé. E parlava di «ipostasi metafisica di una formazione storica» per indicare il tratto distintivo di una tale carenza di riflessione critica (pp. 160-61).
Ancora una volta, a essere chiamato in causa era il concetto di natura e il suo impiego nel contesto di un lavoro storiografico metodologicamente avvertito. Certamente l’uomo moderno non ha motivo di mettere in questione la propria presenza, ma all’immediatezza di questo dato va riconosciuta natura funzionale e non metafisica. È infatti soltanto un residuo di credenza nella realtà in sé quello che porta ad assumere come ovvia e non problematica la presenza dell’individuo. «Nel mondo magico l’individuazione non è un fatto, ma un compito storico, e l’esserci è una realtà condenda» (p. 75). E questo perché, nel mondo magico, era sempre vivo il rischio che la presenza restasse intrappolata nel contenuto che si trovava di fronte, senza riuscire a oggettivarlo e renderlo un altro da sé: il «soggetto, in luogo di udire o di vedere lo stormir delle foglie», scriveva De Martino, diventava «un albero le cui foglie sono agitate dal vento», «in luogo di udire la parola» diventava «la parola che ode» (p. 72).
Nel criticare la datità della presenza De Martino faceva valere il principio idealista secondo cui tutto ciò che è reale deve essere risultato, mediazione, prodotto di un’attività. L’obiettivo di una filosofia concretamente storicista era quello di sciogliere «le concrezioni intellettualistiche che sembrano porre un limite all’immanenza», riportando il fatto al fare umano (p. 4). Il compito che si prefiggeva era quindi di individuare quello specifico dramma storico che aveva reso possibile la costituzione dell’unità sintetica dell’appercezione, che della «consapevolezza dell’autonomia della persona» rappresentava il «vertice ideale» (p. 157).
All’obiezione di Omodeo De Martino rispondeva che la pretesa negatività del dramma magico non era che una conseguenza di una limitazione storiografica. E che, non appena si fosse abbandonato il pregiudizio nella validità eterna delle categorie di interpretazione usate nell’indagine etnologica, sarebbe riemersa la positività del dramma magico – una positività che risiedeva nella lotta per approntare istituti culturali in grado di far fronte al rischio di una dissolvenza della presenza.
Figura centrale di questo dramma era quella del mago, il «Cristo magico» che si faceva «mediatore per tutta la comunità dell’esserci nel mondo come riscatto dal rischio di non esserci» (p. 98). A differenza dei membri della comunità che rimanevano inermi di fronte al rischio di non esserci, il mago era in grado di arrestare la labilità e coglierla come un problema in attesa di un riscatto. De Martino era chiaro su questo punto: non era la labilità il tratto caratteristico del mondo magico, ma piuttosto l’angoscia che questa labilità generava e la conseguente «volontà di esserci come presenza davanti al rischio di non esserci» (p. 73). La sola labilità sarebbe infatti puro negativo e assoluta mancanza. Ma su questo negativo si poteva innestare il positivo della magia, il riscatto della presenza attraverso la creazione di forme culturali definite.
Il mago come eroe della mediazione si portava deliberatamente al limite della propria presenza, ne acquisiva la signoria e fondava una realtà, un ordine culturale e una comunità. «Al centro del mondo culturale magico», come suo fondamento ultimo, «sta[va] il mago» che, aprendosi «al dramma esistenziale proprio del magismo», conseguiva una vittoria che aveva valore tanto individuale quanto sociale (p. 97). Diventando signore del limite, il mago si faceva centro della labilità dell’intera comunità, diventava interprete del dramma esistenziale dei suoi membri e approntava strategie di risoluzione che diventavano culturali nella misura in cui si plasmavano in tradizione.
Con la discesa al mondo magico e la scoperta del dramma esistenziale della presenza lo storicismo crociano poteva diventare davvero integrale. Anche «l’ultima Thule» del realismo ingenuo, la «dualità che contrappone l’individuo come dato a un mondo di fatti naturali» cadeva infatti sotto i colpi di una critica immanente (p. 4). Ma a farne le spese era il sistema crociano delle categorie che risultava non più adeguato a spiegare la posta in gioco nel dramma magico. Scriveva De Martino, con parole che non lasciavano spazio alcuno a fraintendimenti:
Ogni sistemazione filosofica che riconosca solo le forme tradizionali (p. es., il sistema crociano delle quattro forme) esprime […] il momento metodologico di una esperienza storiograficamente limitata alla civiltà occidentale (p. 164).
E parlava a questo proposito di «umanesimo circoscritto» che si privava della capacità di comprendere l’interesse individuante che caratterizzava il mondo magico.
La strada che De Martino intendeva percorrere era stretta. Da un lato, rivendicare con forza l’autonomia specifica del mondo magico, osservando che fin quando si fosse continuato a considerare il mondo magico nei termini delle quattro categorie crociane sarebbe stato impossibile coglierne il dramma che gli era proprio. E proponeva pertanto di ricondurlo all’interno della forma suprema dell’unità trascendentale dell’autocoscienza come suo movimento e sviluppo. Ma, dall’altro lato, non era chiaro se una tale distinzione fra le quattro categorie e la forma suprema della presenza fosse filosoficamente legittima. Non era infatti pensabile un’epoca della storia in cui gli esseri umani non fossero impegnati in attività economiche, morali, estetiche o logiche. De Martino propendeva quindi per una soluzione compromissoria: parlava di un interesse dominante che non escludeva gli altri, ma non si arrischiava a delinearne la fisionomia e la funzione sintetica (p. 164).
Questo era il contenuto del secondo capitolo del Mondo magico, quello in cui si erano condensati i suoi pensieri più radicali. Non stupisce che, leggendolo, Croce si fosse sentito chiamato in causa. Quello che stupisce – ed era uno stupore che aveva effettivamente provato Carlo Antoni, che ne parlò a Croce (lettera di Antoni a Croce, 7 luglio 1948, in Carteggio Croce-Antoni, a cura di M. Mustè, 1996, p. 92) – è piuttosto la scarsa attenzione che in quella prima recensione era stata dedicata a quell’errore fondamentale, il desiderio di storicizzare quel motore immoto della storia che sono le categorie. In quell’occasione Croce si era limitato a segnalare l’errore, ma si era detto convinto che questo non inficiasse la correttezza delle ricerche storiche. E questo porta a pensare che, in effetti, il «turbamento» a cui Croce accennava in Intorno al magismo come età storica (1948), la seconda recensione dedicata al Mondo magico, non fosse dovuto soltanto all’eresia storicista che De Martino avrebbe formulato.
Un indizio in questa direzione è offerto da quanto Croce annotava in data 17 giugno 1948 nei suoi Taccuini di lavoro. In quelle poche righe si legge quanto segue: era stato il desiderio di scrivere un saggio attorno ai «giudizi dello Hegel sui fatti del magnetismo» e su quanto se ne dice nel Mondo magico.a spingere Croce a ripercorrere quel testo. E solo in seguito a questa ulteriore disamina si era reso conto che il primo giudizio, dettato dall’«affetto per quel giovane», era troppo benevolo (B. Croce, Taccuini di lavoro, 6° vol., 1946-1949, 1987, pp. 203-04).
Il riferimento era alle pagine finali del libro in cui, dopo aver percorso in rassegna il modo in cui il problema dei poteri magici era stato trattato nella storia dell’etnologia, De Martino aveva riscontrato che nemmeno con Georg Wilhelm Friedrich Hegel si era giunti a un superamento della limitazione storiografica propria di come la civiltà occidentale si era rapportata al mondo magico. Nell’Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1817) Hegel aveva dedicato alcune incisive osservazioni alla «vita cosmica siderea e tellurica dell’uomo», ammettendo che sebbene l’uomo civilizzato avesse ormai perso ogni legame simpatetico con la natura, presso i popoli «meno progrediti nella libertà spirituale» si davano «rapporti reali» che consentivano previsioni ai nostri occhi meravigliose. E aveva perciò protestato contro tutti coloro che si erano accontentati di definire tali rapporti pure illusioni e frodi, senza capire che in quel campo «la condizione fondamentale» per poter comprendere «è di non essere impigliati nelle categorie intellettualistiche». Nonostante ciò, però, Hegel ricadeva nell’errore di contrapporre alla libertà dello spirito l’unità dell’uomo con la natura e a considerare la magia «come un momento negativo, come non-cultura e come non-umanità». Gli era sfuggito quindi il dramma magico, la lotta per assicurare la presenza dell’esserci, quella «semplice e umile presenza» che «sembra accompagnarci senza dramma nell’agone quotidiano per i valori dello ‘Spirito’» (E. De Martino, Il mondo magico, cit., p. 219).
Queste osservazioni attrassero l’attenzione di Croce e lo spinsero a comporre un intervento sul magismo – il saggio Sulla conoscibilità e inconoscibilità del mondo misterioso (1948) – e, allo stesso tempo, a ritornare al Mondo magico. Ed è facile pensare che dietro a Hegel Croce intravedesse il proprio profilo e nella critica a Hegel una critica del proprio pensiero. Di conseguenza, il confronto con De Martino prendeva anche le forme di una disputa su Hegel e sulla sua corretta collocazione nel quadro di una filosofia della libertà. Per Croce la valutazione che si doveva dare di quei passi hegeliani era ovviamente ben diversa da quella che ne offriva De Martino; verteva infatti non sul problema della positività del dramma magico ma sull’opposizione fra sanità e malattia.
In Intorno al magismo come età storica Croce procedeva perciò a sua volta ad analizzare il preteso dramma del mondo magico. «La logica filosofica», scriveva, doveva «muovere la sua obiezione». Cioè doveva ricordare a chi volesse intraprendere una ricerca etnologica che sia «le categorie della coscienza» sia «l’unità sintetica» di quelle categorie non erano altro che «lo spirito stesso che crea la storia» e pertanto non potevano essere ritenute formazioni storiche. Certo era legittimo insistere di volta in volta su alcuni fatti, affermando, per es., che in Grecia nacque la poesia e che con il cristianesimo ebbe inizio la coscienza morale, ma ciò non voleva dire che la categoria dell’arte avesse avuto origine in un preciso momento della storia dell’uomo (B. Croce, Intorno al magismo come età storica, in Id., Filosofia e storiografia, a cura di S. Maschietti, 2005, p. 193). Su questo punto Croce aveva già insistito nella Storia come pensiero e come azione, distinguendo fra le categorie e i nostri concetti di esse e osservando che se i secondi sono sottoposti a mutamento è solo perché le prime vi sono sottratte. Vi insisteva nuovamente qui, ricordando a De Martino qualcosa che lui stesso diceva di sapere bene dal momento che in Naturalismo e storicismo nell’etnologia aveva esplicitamente affermato che delle categorie non si fa storia.
Ciò che invece era logicamente assurdo era il taglio che De Martino cercava di operare fra l’unità spirituale e le sue forme. De Martino sembrava pensare che ci fosse qualcosa come un’unità precategoriale che, soltanto in un secondo momento, si specificava in diverse forme culturalmente operative. Ma Croce aveva buon gioco nel ribattere che le categorie della coscienza non andavano intese come delle aggiunte a quell’unità fondamentale, ma come quell’unità nella sua articolazione interna.
Per tutti questi motivi, ragionava Croce, non si poteva non dare ragione a quanto Omodeo aveva rimarcato nella lettera a De Martino. Del mondo magico non si dava alcuna storia perché non vi era in esso alcun positivo: De Martino stesso aveva riconosciuto che il vero protagonista del dramma magico, il «mago cosiddetto redentore», non riusciva a elevarsi al di sopra della «vitalità inferma e cieca» che «scherma[va] il suo dolore». Croce interpretava in questi termini l’insistenza di De Martino sul carattere non ancora deciso del mondo magico e osservava che tale mancanza di decisione avvolgeva di sé tanto il mago quanto gli individui che si rivolgevano al mago perché assicurasse la loro presenza. Non c’era pertanto alcuna differenza di piano fra il mago e i membri della sua comunità: «Anarchia e tirannia sono entrambe illibertà e si condizionano a vicenda» (B. Croce, Intorno al magismo come età storica, cit., p. 194).
Era in questi termini, dunque, che Croce suggeriva di leggere quei paragrafi dell’Enzyklopädie hegeliana a cui De Martino faceva riferimento in chiusura del Mondo magico. Hegel aveva sì riconosciuto la realtà dei poteri magici, così come aveva ammesso che per comprendere quel complesso immediato in cui non vi è distinzione fra soggettivo e oggettivo era necessario abbandonare le categorie intellettualistiche che presumono l’esistenza di personalità indipendenti opposte a un mondo oggettivo. Ma sbagliava De Martino a ritenere che da ciò si potesse dedurre qualcosa come una teoria del mondo magico. Perché per Hegel – e Croce aveva probabilmente in mente quanto aveva scritto nella Natura come storia senza storia da noi scritta – quegli stati spirituali erano soltanto malattie che, proprio perché tali, erano superate dal ritorno della sanità, dal riaffermarsi dello spirito.
De Martino era conscio di questa possibile obiezione: l’aveva già formulata e discussa nella lettera a Croce del 1940. In quell’occasione aveva sostenuto che quando si cercavano «corrispondenze tra la vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici» si dimenticava che «i selvaggi sono uomini sani almeno quanto gli uomini culti» (lettera di De Martino a Croce, in E. De Martino, Dal laboratorio del mondo magico, cit., p. 62). E aveva spiegato che questo era un errore perché, a differenza dei malati, i primitivi si muovevano all’interno di un orizzonte culturale condiviso. Il fatto di possedere una comunità ne determinava la sanità.
Non sappiamo se questa osservazione non convinse Croce o se semplicemente non se ne ricordò quando scrisse Intorno al magismo come età storica. Fatto sta che non la discusse. Si limitò ad accomunare primitivi e malati e a riaffermare che principio della storia era la lotta eterna della sanità contro la malattia. E così facendo ribadiva un punto su cui aveva insistito con forza in diversi scritti di quegli anni: l’illegittimità di ogni idea di preistoria.
Stava proprio qui la ragione ultima del turbamento che provò Croce di fronte al Mondo magico. In Preistoria e storia (1939) Croce aveva criticato quelle trattazioni etnologiche che invece di offrire «la nobile visione delle lotte umane» si occupavano di «fantastiche origini animalesche e meccaniche dell’umanità», che avevano come effetto quello di gettare su chi le leggeva un «senso di sconforto e di depressione e quasi di vergogna» (B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit., p. 292). In De Martino quel difetto – che era un difetto morale perché inibiva l’azione – assumeva un tratto demoniaco. Questo perché De Martino non si era limitato a storicizzare le categorie nel tentativo di cogliere una pretesa realtà del mondo magico, dando vita a una filosofia della storia che ipotizzava un passaggio impossibile da una condizione di assenza a una di presenza dispiegata della libertà. Si era spinto fino al punto di porre al fondo di quella filosofia della storia, come proprio momento fondativo, l’azione tirannica del mago, una sorta di individuo cosmico-storico – concetto per cui Croce non aveva alcuna simpatia – che soggiogava i membri della sua comunità nell’atto di assicurarne la presenza.
Erano queste conseguenze etico-politiche della storicizzazione demartiniana delle categorie che la rendevano così problematica. La storia come storia della libertà risultava fondata su un atto contingente, e dunque sempre revocabile, violento ed estraneo all’orizzonte etico che si articolava nella storia della civiltà come lotta del bene contro il male. Di queste implicazioni Croce non si era inizialmente accorto e pertanto si era accontentato di indicare quell’errore che riteneva puramente metodologico, dovuto a scarsa consapevolezza storiografica. Ma ora si rendeva conto che tale non era e che, per quanto inconsciamente, «quel giovane» per cui provava «affetto» prestava il fianco alle tentazioni totalitarie in azione nel mondo contemporaneo. Erano queste tentazioni, d’altronde, a generare l’interesse storiografico che faceva credere a De Martino di poter scrivere la storia del dramma dell’assicurazione magica della presenza. Ed erano quelle tentazioni che avevano generato nuovi stregoni «in forma di dittatori e di Stati indifferenziati e totalitari» che avevano minacciato e continuavano a minacciare di trascinare la civiltà europea in una «nuova età selvaggia».
La «santificazione» e la «venerazione» di De Martino per lo stregone ricordava a Croce l’intrinseca fragilità della civiltà occidentale, le sue malferme fondamenta e il pericolo, sempre presente e in quegli anni sempre più forte, di ricadere nella barbarie. Occorreva perciò proporre un’alternativa che corroborasse l’attività morale. E questa era l’immagine vichiana del «bestione primitivo» che «allo scoppio e al lampo dei fulmini sentì in sé svegliarsi l’idea latente di Dio» (B. Croce, Intorno al magismo come età storica, cit., p. 199). Ovvero l’idea filosofica che le categorie fossero già da sempre tutte presenti in ogni momento della storia umana, da cui conseguiva la tesi storiografica secondo cui, com’era detto nelle battute conclusive di Preistoria e storia, «la preistoria», quando fosse «innalzata veramente a storia», si manteneva «dentro l’umanità», evitando una ricaduta nel «naturalismo e materialismo» (B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit., p. 293).
De Martino non rispose subito alle critiche mossegli da Croce. Aspettò anzi quasi quattro anni prima di prendere una posizione in merito. E quando sembrò prenderla, nella prefazione all’edizione italiana di Le origini dei poteri magici di Émile Durkheim, Henri-Pierre-Eugène Hubert (1872-1927) e Marcel Mauss (1872-1950), lo fece in modo abbastanza sorprendente. In quelle poche pagine De Martino sollevava un’obiezione metodologica al lavoro dei tre maestri della scuola sociologica francese, evidenziando il rischio che lo sforzo di offrire una spiegazione evolutiva degli «strumenti di lavoro dell’intelletto astratto» potesse aprire le porte a una storicizzazione delle categorie. E spiegava che l’intelletto umano andava sì concepito come un «sistema di strumenti tecnici per il pratico controllo della natura» frutto di un corso storico di cui era possibile fare la storia, ma non si doveva però cadere nell’errore di considerare storico anche «il logos» e le «vere categorie». Perché, osservava, se si compisse questo passo, se si pensasse cioè a «un mondo senza né logos, né ethos, né poesia» da cui successivamente si sarebbe generato «il primo logo, il primo costume, il primo ritmo poetico», si rimarrebbe «prigionieri della mentalità teologica». Bisognava perciò tornare indietro alla distinzione introdotta da Croce fra le categorie e i concetti delle categorie, le prime eterne e i secondi sottoposti al mutamento, e tenere fermo il principio che «la storia non è mai storia delle categorie, ma si svolge per entro le categorie» (E. De Martino, prefazione a É. Durkheim, H.-P.-E. Hubert, M. Mauss, Le origini dei poteri magici, 1951, pp. 12-13).
De Martino non faceva alcuna menzione del Mondo magico. Quell’obiezione venne però letta da tanti come una pubblica sconfessione dell’impostazione di quel lavoro e, come tale, suscitò reazioni presso coloro che avevano visto con favore quel progetto. In un intervento intitolato Ernesto de Martino e il problema delle categorie, pubblicato nel 1952 sulla rivista «Il Mulino», Renato Solmi accusò De Martino di essersi ritratto da un progetto filosofico e storiografico che non esitava a definire «stimolante in sommo grado» – la storicizzazione dell’unità della presenza e, di rimando, delle categorie come tratteggiata nel Mondo magico – per tornare ad abbracciare il più confortevole trascendentalismo di matrice crociana (R. Solmi, Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, 2007, p. 52).
Se nel Mondo magico.De Martino avesse davvero cercato di storicizzare le categorie è difficile da dirsi. Quello che è certo è che negli anni immediatamente successivi alla polemica con Croce si era detto convinto non solo di non aver commesso quell’errore, ma anche di essersene mantenuto ben lontano. Nell’archivio sono conservati alcuni manoscritti che recano traccia dei tentativi di replicare alle osservazioni crociane. In quelle meditazioni private affermava di non essersi mai proposto di «storicizzare la categoria di realtà», ma piuttosto di aver cercato di «promuovere e accrescere la coscienza dell’unica categoria di realtà mercé un allargamento dell’orizzonte storiografico che si svolge per entro di essa». Ribadiva insomma la propria fedeltà se non alla particolare sistemazione crociana, perlomeno alla sua aspirazione più profonda. Concedeva però che ci fossero delle ambiguità e manchevolezze nel Mondo magico che riguardavano la «non eseguita deduzione della nuova categoria di esistenza» e il fatto di «aver contratto» la «produttività categoriale» di quella categoria in una forma storica (Archivio Ernesto De Martino, 25.1, pp. 50-52; pubblicato in Sasso 2001, pp. 280-81). Ma, scrisse in un altro testo, rimaneva la sensazione che «nelle critiche del Croce» non mancasse «una certa tendenziosità di interpretazione», cioè che «si insinuasse un fattore perturbante estraneo, e come un rancore inconfessato o almeno non apertamente confessato» (Risposta a Benedetto Croce, Archivio Ernesto De Martino, 3.74, p. 2).
Eppure quei tentativi di articolare meglio la propria posizione non erano esenti da difficoltà. De Martino non solo parlava di categorie laddove sarebbe stato più opportuno parlare di concetti, ma faceva addirittura riferimento alla produttività categoriale dell’esistenza, di fatto introducendo una quinta categoria – di cui la religione e la politica erano le forme storiche – nel sistema della filosofia dello spirito. Una tesi che se pure poteva apparire meno scandalosa della storicizzazione delle categorie, non era tuttavia meno problematica.
Nelle parole di De Martino c’erano dunque molte ambiguità. Ambiguità che caddero con la pubblicazione di Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni (1953), in cui riconosceva che nel Mondo magico, pur non avendo cercato di storicizzare le categorie, aveva sostenuto una tesi – l’idea per cui «nelle civiltà etnologiche non potevano giovare per l’interpretazione le normali categorie storiografiche» – che conduceva a quella conclusione. Ma osservava anche che quella tesi poteva essere abbandonata «senza alcun danno sostanziale per la tesi storica» (E. De Martino, Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni, «Società», 1953, 3, p. 10).
Si ritornava quindi all’inizio, ovvero al primo giudizio che aveva espresso Croce sul Mondo magico. E si ha l’impressione che, ammettendo quell’errore, De Martino in realtà intendesse sbarazzarsi di un equivoco che non aveva ai suoi occhi una reale importanza. Ciò che lo interessava veramente era infatti chiarire la nozione di crisi della presenza, liberandola da quella che ai suoi occhi era la vera contraddizione di quel libro. Ovvero la convinzione che ci fosse qualcosa come «un’unità precategoriale della persona» (E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, 2008, p. 15) il cui conseguimento avrebbe costituito il compito di una determinata epoca storica. Tutto questo gli appariva ormai senza senso: non era mai esistito il mondo magico come età di un dramma storico; non si dava alcuna presenza che precedesse e fosse indipendente dalle categorie del fare. Di reale vi era soltanto la crisi della presenza, la possibilità storica e concreta che, in alcuni momenti particolarmente delicati della propria esistenza, l’individuo perdesse la propria capacità di realizzarsi in forme culturali.
Era a questo livello che la critica di Croce aveva agito in profondità, dando frutti che andavano ben oltre il richiamo alla prudenza nella storicizzazione delle categorie e che facevano sì che anche la produzione matura demartiniana, nonostante la grande attenzione riservata a tradizioni quali l’esistenzialismo, la fenomenologia, la psicoanalisi e il marxismo, rimanesse per molti aspetti all’interno di un orizzonte concettuale crociano. In primo luogo, De Martino ammetteva senza riserve l’impossibilità di operare il taglio e di separare l’unità precategoriale dalle categorie. In secondo luogo, aveva ormai definitivamente abbandonato ogni tentativo (peraltro equivoco) di pensare l’inizio o l’origine del mondo umano: si era reso conto infatti che il dramma della presenza non era la storia dell’acquisizione di un possesso, ma la vicenda del suo venire meno. Inoltre, sulla scorta delle considerazioni crociane, accettava di ricondurre il dramma della perdita della presenza alla sfera della malattia e di considerare la cultura come una serie di istituzioni dirette al ristabilimento della sanità. La coppia oppositiva sanità/malattia, così importante per Croce, era non a caso posta da De Martino, nel 1958, in apertura di Morte e pianto rituale nel mondo antico come chiave di lettura dell’opera. «La crisi del cordoglio», in quanto «caso particolare del rischio di perdere la presenza», vi era presentata come «malattia» e il cordoglio come «il lavoro speso per tentare la guarigione» (E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, cit., p. 15).
Infine, era a partire da materiali e suggestioni crociane che De Martino pensava il concetto fondamentale della sua riflessione e ricerca storiografica matura: la nozione di ethos trascendentale del trascendimento. L’ethos trascendentale del trascendimento era definito come il «dovere di far passare la vita nel valore», il dovere di «risolvere l’essere nel dover-essere-per-il-valore» (E. De Martino, Scritti filosofici, a cura di R. Pastina, 2005, p. 12). Ed era detto correttamente ‘trascendentale’ perché quel dovere di superare la vita nel valore costituiva la possibilità stessa della vita valorizzante, l’apertura alla possibilità di vivere nel valore.
Pur mediato da una terminologia fortemente debitrice alle diverse varianti dell’esistenzialismo con cui De Martino si era confrontato a partire dai primi anni Cinquanta, il concetto di ethos del trascendimento risaliva a un luogo specifico del pensiero crociano. Il punto di partenza era dato ancora una volta dalle pagine della Storia come pensiero e come azione e precisamente da quel luogo in cui Croce, ripensando la struttura della propria filosofia dello spirito, affermava che l’«attività morale» – ma De Martino pensava e scriveva «ethos» – non era da concepirsi come una categoria fra le categorie, ma più radicalmente come «la lotta contro il male» che si oppone al «disgregamento dell’unità spirituale» (B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit., pp. 50-52). ‘Rischio di perdere la presenza’ era il modo in cui De Martino traduceva nel proprio linguaggio il crociano «disgregamento dell’unità spirituale». E aggiungeva che questo ethos fondamentale coincideva «con la presenza come volontà di esserci in una storia» perché la «norma costitutiva della presenza» consisteva precisamente nel non rimanere «immersa, senza lume di orizzonte formale, nella semplice polarità del piacere e del dolore» (E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, cit., p. 17).
Era la dialettica crociana tra forma e materia, tra vitalità come materia di tutte le forme e come forma fra le altre a far da sfondo a queste riflessioni. Un punto estremamente problematico – Croce non aveva infatti mai chiarito il rapporto fra vitalità ed economico – su cui De Martino era però in grado di prendere una posizione chiara, riscattando così le proprie precedenti indecisioni. La pura vitalità definiva la dimensione della pura naturalità, quello che aveva chiamato mondo subumano. Ma con l’aprirsi dell’uomo alla cultura la materia veniva «trascesa nella coerenza culturale» e la vitalità risolta nell’economico. Con questa risoluzione la «civiltà umana comincia», dando il via alla «spirale […] della vita culturale» che procede «dall’economico alla poesia e alla scienza e alla vita morale dispiegata e consapevole di sé». Se la centralità dell’economico aveva certamente un forte carattere marxista, la comprensione del suo ruolo nella dialettica della vita umana era ancora crociana. E questo perché era ancora crociano quell’impianto concettuale che lo portava ad affermare che la vitalità non era un negativo appartenente «al rapporto delle forme fra di loro», ma il «rischio di un assoluto negativo» in cui «veniva rimessa in causa la stessa possibilità del distacco dell’esserci dalla naturalità del vivere» (E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, cit., pp. 19-20).
G. Galasso, Croce, Gramsci e altri storici, Milano 1969, pp. 222-335.
L. Lattarulo, Esistenza e valore. Croce, De Martino e la crisi dello storicismo italiano, Roma 1987.
La contraddizione felice? Ernesto De Martino e gli altri, a cura di R. Di Donato, Pisa 1990.
G. Sasso, Ernesto De Martino fra religione e filosofia, Napoli 2001.
S.F. Berardini, Ethos presenza storia. La ricerca filosofica di Ernesto De Martino, Trento 2013.