BIZANTINA, CIVILTÀ
Per quanto perdesse il suo nome nel diventare, come Costantinopoli o Nuova Roma, la capitale dell'Impero d'Oriente, Bisanzio ebbe la sorte di essere ancora ricordata quando si volle designare l'arte, la letteratura, le istituzioni di quell'impero che, sopravvissuto al crollo dell'Occidentale, se per certi riguardi si può considerare una continuazione del romano, ebbe tuttavia, nei secoli di mezzo, una funzione storica importantissima ed una civiltà propria.
Sommario: Storia dell'impero bizantino (i, Il periodo romano [330-641], p. 120; ii, Dalla morte di Eraclio alla morte di Basilio I [641-1025], p. 125; iii, La decadenza e la rovina [1025-1453], p. 131). - Diritto, p. 141. - Letteratura, p. 148. - Arte, p. 154. - Musica, p. 165.
Storia dell'impero bizantino.
1. Il Periodo romano (330-641). - L'origine romana dell'impero bizantino. - La storia dell'Impero bizantino comincia da Roma. Sul principio, infatti, esso non fu se non la parte orientale dell'Impero romano - donde anche il nome di Impero d'Oriente, col quale spesso viene indicato - e la sua costituzione iniziale e le sue leggi non furono se non la costituzione e le leggi romane. Solo col tempo e quando, per effetto delle invasioni germaniche, si staccò in modo definitivo dall'Occidente, esso venne assumendo quei caratteri, in prevalenza greco-orientali e cristiani, che gli diedero una fisionomia propria, diversa tanto dalla tradizione greca quanto da quella latina. Non è qui il luogo di esporre in che modo, nel sec. IV d. C., si rompesse di fatto l'unità politica dell'impero fondato da Roma; ricordiamo solo che a tale rottura non si arrivò per deliberata volontà di imperatori aspiranti a finalità non romane, ma per effetto di forze etniche e sociali che già da lungo tempo operavano, modificandola, sulla realtà politica. Sin dal sec. I d. C., pur sotto l'uniformità di leggi e di amministrazione che Roma aveva imposto a tutti i popoli vinti, si poteva notare una diversità di spiriti e di tendenze fra l'Occidente e l'Oriente. In realtà, questi formavano due mondi che nessun accorgimento politico poteva unificare a fondo: l'uno era ellenistico, l'altro latino; in questo prevaleva il senso pratico di Roma, in quello lo spirito speculativo dei Greci e degli Alessandrini. La diversità, col tempo, arrivò a tal punto che non fu più possibile non tenerne conto nella vita politica: tanto che Diocleziano (284-305 d. C.), riformando la costituzione dello stato, ritenne necessario dividere il potere fra due Augusti, ripartendo l'amministrazione in due sfere d'azione, la orientale e l'occidentale. Fu quello il primo passo verso la divisione dell'impero. Pochi anni dopo, Costantino, vinti ed eliminati i suoi rivali, ristabilì l'unità, riunendo nuovamente tutti i poteri sovrani nelle sue mani; ma nello stesso tempo, trasferiva la sede del governo da Roma a Bisanzio. Noi non conosciamo le ragioni che indussero il grande imperatore a questo cambiamento; ma non è possibile ammettere, come generalmente si fa, che egli intendesse con ciò iniziare un'opera di trasformazione dell'impero, dandogli un carattere orientale. Tutta la sua azione, al contrario, ci appare diretta a sanare il dissidio interno che minava l'unità creando un grande centro latino al punto d'incrocio dei due mondi e ponendo il governo in una sede che offriva un grande vantaggio strategico contro i nemici esterni, che allora erano i Goti sul Danubio e i Persiani in Asia. Nel suo pensiero, la nuova capitale, che fu inaugurata solennemente l'11 maggio 330 d. C., e proclamata Nuova Roma, doveva essere puramente latina; e per questo, non solo vi trasportò il senato e vi attirò molte nobili famiglie romane ed italiche, ma vi impose anche la lingua latina e mantenne rigidamente le istituzioni e le leggi romane. Tuttavia, è innegabile che il trasferimento del governo a Bisanzio segna un passo decisivo nel processo di differenziazione dell'Oriente e nella storia del suo distacco dall'Occidente. Costantinopoli non poteva diventare una città latina né, quindi, mantenere a lungo allo stato il suo originario carattere romano. Città di tradizioni ellenistiche, popolata in prevalenza da genti greco-asiatiche, essa era destinata a diventare fatalmente il centro di attrazione e di cristallizzazione degl'interessi politici ed economici dell'Oriente e, quindi, a svolgersi sulle direttive della civiltà greco-orientale. La sua stessa posizione geografica doveva contribuire a questo risultato, giacché i barbari trovando, a partire dal sec. IV, un insuperabile ostacolo alla loro avanzata verso sud, scivolarono dietro la linea dei Balcani verso l'Italia e la Gallia ponendosi fra l'Occidente e l'Oriente.
L'impero d'Oriente da Teodosio a Giustiniano (395-527). - L'unità politica, ristabilita da Costantino, non si poté, pertanto, mantenere a lungo e, alla morte di Teodosio il Grande (395), i suoi due figli, Arcadio e Onorio, procedettero a una vera spartizione. Ci fu, da quel momento, un Impero d'Oriente e un Impero d'Occidente. Ma di questi due imperi, solo il primo si considerò e, in un certo senso fu realmente, l'erede di Roma. A mantenere questa concezione, concorsero prima di tutto l'idea che la spartizione dello stato e la creazione di due governi non volesse significare la fine dell'unità; in secondo luogo, la recente tradizione che faceva di Costantinopoli il centro dell'impero e finalmente la circostanza che non a Roma bensì in Ravenna, città senza un passato imperiale, andò Onorio a porre la sede del suo governo. Le vicende storiche del sec. V rafforzarono questa concezione. Gl'imperatori d'Occidente non solo non seppero affrancarsi dalla tutela di quelli dell'Oriente, dai quali spesso o invocarono aiuti contro i proprî nemici o chiesero la conferma della loro elezione; ma non furono nemmeno in grado di difendere le provincie dell'Occidente. Essi furono ombre di sovrani che passarono sul trono senza lasciare nessuna traccia. Gl'imperatori bizantini, al contrario, anche se uomini mediocri e spesso dominati dai proprî ministri, riuscirono con la forza delle armi o con l'abilità diplomatica a difendere le provincie orientali e a tenere alto il nome e il prestigio romano. Al tempo d'Arcadio (395-408), i Goti, che già si erano stanziati nella Macedonia e nella Grecia, furono allontanati verso occidente. Sotto Teodosio II (408-450), furono costruite le potenti mura che, dalla parte di terra, resero inespugnabile Costantinopoli; fu promulgato un Codice, dove vennero raccolte le costituzioni imperiali da Costantino in poi; si sostenne con successo l'urto formidabile degli Unni. Sotto Marciano (450-457) e Leone I (457-474), si mandarono a vuoto i tentativi fatti dai generali barbari - fra i quali il più pericoloso fu l'alano Aspar - per impadronirsi del potere imperiale. Si comprende pertanto come, dopo la deposizione di Romolo Augustolo (476), che segna la fine della successione imperiale in Occidente, i monarchi bizantini rivendicassero per sé tutta l'eredità di Roma, e, quindi, il possesso dell'Occidente, alla cui sovranità, nonostante l'insediamento dei barbari, non si volle rinunziare. Per Costantinopoli, i diritti dell'Impero romano erano imprescrittibili. E li difese strenuamente. Né Zenone (474-491) né Anastasio I (491-518), né Giustino (518-527) si piegarono a riconoscere il fatto compiuto. I re barbari furono riguardati e trattati o come usurpatori o come luogotenenti dell'imperatore. Invano Teodorico, dopo la conquista dell'Italia, si adoperò a ottenere il riconoscimento legale del suo governo e il titolo di re. La corte bizantina, che pur l'aveva spinto alla conquista, si rifiutò sempre ad accogliere la sua domanda; e duando salì sul trono di Bisanzio un uomo di grandi idee e le risorse economiche dell'impero lo consentirono, si passò dalle rivendicazioni verbali all'azione.
Giustiniano e la restaurazione imperiale in Occidente. - Iniziando la riconquista dell'Occidente, Giustiniano (527-565) non inaugurava, come in generale si afferma, una nuova politica. Certo, la mentalità e i costumi che ormai prevalevano in Bisanzio quasi nulla avevano di romano. L'ambiente orientale, e specialmente il cristianesimo, avevano già impresso alla monarchia caratteri e tendenze nuove, da quando gl'imperatori si erano assunti il compito di regolare le cose della fede e di subordinare la chiesa allo stato non con spirito laico, ma con spirito e animo di credenti. Costantino ne aveva dato l'esempio, convocando e presiedendo il concilio di Nicea (325) e promulgandone le deliberazioni, e i suoi successori lo avevano seguito su questa via. L'intervento imperiale non aveva ristabilito mai la pace religiosa e l'unità del dogma, ma aveva avuto due conseguenze ugualmente dannose allo stato e alla chiesa: aveva, cioè, finito col far degenerare in conflitti politici quelle che inizialmente erano divergenze dottrinali; e subordinata l'autorità ecclesiastica al potere imperiale, la chiesa allo stato. La monarchia bizantina si era così a poco a poco trasformata in una specie di teocrazia e l'imperatore aveva assunto un carattere sacro. Il clero orientale aveva accettato l'ingerenza e la superiorità dell'imperatore nella chiesa: ma non per questo perdette la sua libertà di azione e la sua indipendenza di giudizio; ché anzi, sia per le ricchezze di cui fu provvisto dalla pietà dei sovrani e dei fedeli, sia per il frequente prevalere degl'interessi e delle finalità religiose nella politica imperiale, acquistò un potere così esorbitante nello stato da mettersi a volte in contrasto con lo stesso imperatore e da provocare financo delle rivolte. Il carattere sacro della monarchia fu poi accentuato dal cerimoniale che, secondo le tradizioni orientali, fu nella corte bizantina complicatissimo e si regolò secondo le cerimonie del culto.
Nonostante questa evoluzione del potere imperiale, già compiuta agl'inizî del sec. VI, la tradizione romana non era ancora rotta né affievolita. Romane erano la costituzione politica, l'amministrazione provinciale, le leggi, l'esercito. Romana l'aspirazione verso il dominio universale. Per Giustiniano, come per i suoi predecessori e per i suoi contemporanei, la deposizione di Romolo Augustolo non aveva significato la fine dell'Impero d'Occidente, ma piuttosto il ristabilimento dell'unità ideale del mondo romano. Riconquistare l'Occidente era per lui non solo un diritto, ma anche un dovere; come un dovere era il mantenere allo stato il carattere romano. Ed egli si applicò all'uno e all'altro compito. Nel suo romanesimo, tuttavia, egli andò tant'oltre da sacrificare spesso gli interessi matetiali e ideali dell'Oriente, rendendo in tal modo più acuta la crisi che travagliava all'interno l'impero e accelerandone la sua trasformazione da romano in bizantino. La riconouista dell'Occidente, nella quale si segnalarono Belisario e Narsete, fu compiuta brillantemente. Nel 533-534, fu abbattuto il regno dei Vandali nell'Africa; fra il 535 e il 552, quello degli Ostrogoti in Italia; nel 554, fu occupata parte della Spagna. Ma, per raggiungere questi risultati, Giustiniano sguarnì di truppe la Mesopotamia e l'Illiria, con grave danno di quelle provincie. Fra il 540 e il 545, il re di Persia Cosroe I Anūshirwān devastò la Mesopotamia, la Siria e l'Armenia bizantina, battendo ripetutamente le milizie imperiali. Finalmente, il 562, Giustiniano, nell'impossibilità di respingere la sua offensiva, fu costretto a concludere una pace gravosa per la quale s'impegnò a pagare un tributo annuo alla Persia. Nello stesso periodo di tempo, l'Illiria, la Macedonia e la Tracia furono ripetutamente invase e saccheggiate dagli Unni, dai Bulgari e da Slavi, i quali arrivarono a minacciare la stessa Costantinopoli. Anche questi nemici, più che con la forza delle armi, furono allontanati col danaro. Tutto ciò rese necessario un inasprimento delle imposte, provocando un vivo malcontento nel popolo, il quale non poteva comprendere le ragioni ideali della sua politica e certo non ne vedeva i vantaggi.
Anche nell'opera legislativa di Giustiniano si osserva questo contrasto fra le sue idealità e i bisogni della vita reale, fra la tradizione romana e le tendenze bizantine. Il Codice da lui promulgato e che porta il suo nome, le Pandette o Digesto, costituiscono il più solenne e compiuto monumento della sapienza giuridica dei Romani. Ma queste leggi non erano tutte applicabili né provvedevano a tutte le necessità della vita orientale. Giustiniano dovette promulgare nuove leggi; e mentre nel Codice aveva mantenuto la lingua latina, nelle Novelle, per renderle accessibili ai sudditi, fu costretto ad adoperare la lingua greca, giacché, come egli stesso confessa nel proemio della Novella VII, il greco era la lingua dominante e il latino era compreso solo da pochi.
La riconquista dell'Occidente ebbe una ripercussione sulla politica religiosa. Fin dal primo momento che l'Africa e l'Italia furono rioccupate, Giustiniano comprese che era necessario, perché l'unità si mantenesse, creare una comunanza di spiriti e d'interessi fra le nuove e le antiche provincie dell'impero. Agl'interessi materiali egli provvide non solo con una savia riforma amministrativa e burocratica, ma anche con una serie di provvedimenti che favorivano l'agricoltura e il commercio. L'unità spirituale non poteva essere data che dalla religione. Ma qui egli si trovò dinnanzi ad ostacoli e resistenze che, alla fine, resero più grave l'abisso che ormai separava in modo definitivo i due mondi. Nell'Oriente, malgrado la politica ortodossa dei suoi predecessori, il monofisismo era molto diffuso. L'Egitto, la Siria, la Mesopotamia, l'Armenia ne erano pervase. Alcuni anni innanzi, Zenone e Anastasio avevano fatto una politica favorevole ai monofisiti per guadagnarli a Bisanzio. Questa politica veniva ora sostenuta alla corte dall'imperatrice Teodora, donna di grande animo e di acuta intelligenza, nonostante la sua bassa origine; ma era evidente che con ciò si sarebbe alienato il papato, il quale era inflessibile difensore dell'ortodossia, e quindi anche l'animo degli occidentali. All'Oriente Giustiniano preferì l'Occidente e nel 536, dal concilio di Costantinopoli, fece condannare i dissidenti monofisiti. Si scatenò allora una persecuzione religiosa in Oriente che accrebbe in larghi strati sociali l'avversione contro la politica dell'imperatore. Le conseguenze furono tali che lo stesso Giustiniano ne fu impressionato, tanto che, nel 543, permise che si ricostituisse la chiesa monofisita dell'Egitto e dieci anni dopo da un nuovo concilio fece condannare alcuni scritti, che già erano stati approvati dal concilio di Calcedonia e dovevano quindi ritenersi come ortodossi. Era questa una concessione ai monofisiti. Il papa Virgilio si rifiutò di approvarla. Giustiniano, che prima aveva perseguitato i dissidenti, ora perseguitò il pontefice che, insistendo nell'opposizione, fu deposto.
L'impero da Giustiniano alla morte di Eraclio (565-641). - L'opera di Giustiniano, per quanto romanamente pensata e attuata, non poteva durare. I due mondi, l'orientale e l'occidentale, erano più divisi e diversi che mai e gl'interessi e i bisogni dell'uno erano in contrasto con quelli dell'altro. Né i Bizantini avevano animo da sostenere una politica imperiale alla romana. Il poeta Corippo racconta che quando Giustino II, succeduto nel 565 a Giustiniano, si presentò per la prima volta all'ippodromo, il popolo si levò a rumore domandando il rimborso dei prestiti fatti allo stato per la guerra e il riscatto dei prigionieri. Un cambiamento di rotta nelle direttive politiche s'imponeva, tanto più che l'impero si trovò di fronte a nuovi formidabili nemici. Nel 568, sull'Italia si abbatté l'invasione dei Longobardi; intorno allo stesso tempo gli Avari, popolo di origine tatarica, si stanziavano nella Pannonia, fondandovi uno stato che per oltre due secoli doveva contrastare ai Bizantini il predomino sulla penisola illirica. I successori di Giustiniano, Giustino II (565-578) e Tiberio (578-582), non esitarono un solo momento: senza rinunciare all'Occidente, essi concentrarono tutte le loro forze in Oriente dove il pericolo era più grave. L'esercito tuttavia era così prostrato che non si poté evitare che, intorno al 580, un'immensa moltitudine di Slavi irrompesse nella Tracia, nella Macedonia e nella Grecia, e vi si stabilisse come in casa propria. E come se ciò non bastasse, nel 582 i Persiani, sfruttando le difficoltà in cui si trovava l'impero, ruppero la pace e invasero la Siria. Maurizio, succeduto in quello stesso anno a Tiberio, accentuò il ripiegamento dall'Occidente all'Oriente richiamando quasi tutte le truppe bizantine dall'Italia e dall'Africa. Egli trasformò queste due lontane provincie in due vicereami, affidandole a degli esarchi, i quali riunivano nelle proprie mani tutti i poteri, civili e militari, e dovevano provvedere alla loro difesa servendosi degli elementi locali. La guerra allora fu condotta con molta energia, tanto nell'Illiria quanto in Asia. Qui Maurizio riuscì a imporre la pace ai Persiani con un trattato vantaggioso per l'impero che estese il suo dominio sull'Armenia. Nella Balcania, non poté sloggiare gli Slavi già stanziatisi in Grecia e in Macedonia; ma si sottrasse al vergognoso tributo verso gli Avari e portò le insegne vittoriose dell'impero oltre il Tibisco. Disgraziatamente, l'opera di consolidamento militare e finanziario, iniziata da Giustino II, e da Maurizio condotta molto innanzi, fu nel 602 compromessa da una rivolta militare che costò la vita a lui e ai suoi e portò sul trono Foca, un centurione brutale e incapace. Avari e Slavi, non più contenuti dalle milizie imperiali, ripresero le incursioni avanzandosi fin sotto le mura di Salonicco e di Costantinopoli; il re di Persia, Cosroe II Parvīz riprese la guerra e occupò successivamente la Mesopotamia, la Siria, l'Armenia e l'Asia Minore. Di fronte a questi disastri e alla tirannide di Foca, nel 610, scoppiò una nuova rivolta militare che portò sul trono di Bisanzio Eraclio, armeno d'origine e figlio dell'esarca d'Africa. Foca fu ucciso; ma, per alcuni anni, il nuovo imperatore non poté far nulla per la difesa dell'impero che aveva poche risorse, essendosi ridotto quasi soltanto alla capitale, ad alcune città marittime fortificate e alle provincie occidentali. Nel 612, i Persiani s'impadronivano di Antiochia, Apamea e Cesarea; nel 614 di Damasco; l'anno seguente, di Gerusalemme, donde asportavano il legno della Santa Croce e altre preziose reliquie cristiane; nel 617, penetravano nell'Egitto e, in Asia Minore, si spingevano sino a Calcedone sul Bosforo. Ma furono questi gli ultimi loro successi. Nel 620 Eraclio riuscì a concludere la pace col chagan degli Avari e due anni dopo, avendo già ricostituito l'esercito e addestratolo in piccole spedizioni, intraprese una grande offensiva contro i Persiani. Per le profanazioni compiute nei Luoghi Santi e per le persecuzioni contro i cristiani, i Persiani avevano provocato un vivo fermento nelle provincie bizantine invase. Eraclio sfruttò questo stato d'animo e alla sua offensiva diede il carattere d'una vera crociata contro i nemici della fede cristiana. Con mossa geniale, egli portò la guerra in territorio persiano. Per sei anni tenne il campo nell'Armenia, nell'Azerbeigian, nella Media, senza lasciarsi distrarre dalla meta che era la capitale stessa della Persia, Ctesifonte, né dai rigori invernali, né dalle difficoltà d'approvvigionamento, né dai lamenti dell'esercito, né, finalmente, da un formidabile attacco che Avari e Persiani collegati, nel 626, sferrarono contro Costantinopoli per terra e per mare. La capitale resistette all'urto e fu quella una grande vittoria. L'anno seguente Eraclio sgominò completamente l'esercito persiano presso Ninive, aprendosi la via di Ctesifonte. Qui egli apparve nel 628. Cosroe morì al sopraggiungere del nemico, e ciò facilitò la fine della guerra. Il successore Kavādh II Shīrōyeh si affrettò a invocare la pace e questa fu conclusa con un trattato per il quale venivano imposte ai Persiani lo sgombero di tutti i territorî romani, che erano stati occupati dalla morte di Maurizio in poi, la restituzione delle sacre reliquie trafugate da Gerusalemme e il pagamento d'una indennità di guerra. L'anno seguente Eraclio riportò solennemente a Gerusalemme il Santo Legno; quindi rientrò a Costantinopoli.
La vittoria diede immenso prestigio all'imperatore. Ed egli se ne servì per ritentare l'opera di fusione morale fra i varî popoli che componevano l'impero. L'ostacolo principale, come è stato detto, proveniva dal contrasto di opinioni intorno alla natura di Cristo che esisteva fra monofisiti e ortodossi. Consigliato dai patriarchi di Costantinopoli e d'Alessandria, Sergio e Ciro, egli pensò di superare tale ostacolo trasportando la discussione dalla natura alla volontà di Cristo, sulla cui unità riteneva non ci potesse essere divergenza d'opinione fra gli uni e gli altri. Nel 638 egli pubblicò la nuova formula di fede monoteletica che fu detta ἔκϑεσις, imponendola a tutti i sudditi. Come era facile prevedere, la nuova dottrina scontentò tanto gli ortodossi quanto i monofisiti e, invece di sopire le discordie, le riaccese rendendole più acute. E mentre ferveva la lotta che, per l'opposizione del papato alla nuova dottrina, doveva sempre più approfondire l'abisso fra l'Occidente e l'Oriente, si scatenava sulla Siria e sull'Egitto l'invasione araba. Eraclio che aveva trionfato sull'Impero persiano, non fu in grado di arginare la nuova invasione. Troppo stremato di forze era l'impero per la lunga lotta sostenuta contro Persiani e Avari. E troppo diversi dagli altri nemici erano gli Arabi, animati dalla nuova fede e spinti da un entusiasmo irrefrenabile. Le milizie bizantine furono sconfitte nel 634 a Rannath Moab (l'Agnnādain delle fonti arabe), nel 635 a Damasco, nel 636 sullo Yarmūk. La Siria ormai era loro aperta ed Eraclio dovette convincersi, dopo una ispezione, che era vano illudersi di poterla conservare. Una vera linea di difesa non poteva essere che quella del Tauro, tanto piu che i Siriaci non nascondevano le loro favorevoli disposizioni per gli Arabi. La Siria fu quindi abbandonata e gli Arabi vennero occupandola, impadronendosi, oltre che delle città interne, di quelle costiere, nonostante la presenza della flotta bizantina.
La perdita della Siria isolò dalla parte di terra l'Egitto e l'Africa e rese difficile la difesa della Mesopotamia. La sorte di queste provincie fu allora segnata e gli Arabi ne iniziarono la conquista. Quando, nel 641, Eraclio morì, già si disegnavano nell'Asia e nell'Africa le linee dell'immenso impero arabo-musulmano che doveva assorbire i territorî bizantini posti a sud del mare Mediterraneo e della catena del Tauro, che separa l'Anatolia dalla Siria.
II. Dalla morte di Eraclio alla morte di Basilio I (641-1025). - La trasformazione dell'impero da romano in bizantino. Caratteri del bizantinismo. - Nell'evoluzione dell'Impero d'Oriente, la morte di Eraclio segna la fine del periodo romano. L'Occidente si può ormai considerare come perduto per sempre: delle conquiste di Giustiniano i Bizantini riuscirono a conservare solo una piccola parte dell'Italia e solo per qualche secolo. Perduti sono anche i territorî, già romanizzati, dell'Illiria settentrionale, dove si stabiliscono i Serbocroati, della Dacia e della Mesia, che cadono in possesso dei Bulgari; e perdute le provincie orientali - Egitto, Siria, Mesopotamia - che già i contrasti religiosi avevano messo in urto con Bisanzio, ridestandovi le sopite diversità etniche. Ma, per converso, l'impero acquista una compattezza territoriale che gli consente di resistere con successo ai nemici che lo accerchiano. Costantinopoli diviene ora veramente il centro della vita politica e spirituale dell'impero. Contemporaneamente, si opera una trasformazione interna, prima di tutto, nell'amministrazione provinciale. Fino a Giustiniano, questa aveva conservato i quadri antichi. L'impero era diviso in due prefetture del pretorio: quella di Oriente e quella dell'Illiria, le quali, alla loro volta, si suddividevano in diocesi e in eparchie. Giustiniano non solo mantenne questo regime, ma lo ristabilì anche nell'Africa e in Italia dopo la conquista. Ma, dopo di lui, la necessità di provvedere più efficacemente alla difesa delle provincie più minacciate impone la concentrazione dei poteri. I funzionarî civili non sono eliminati, ma vengono sottoposti all'autorità militare. Si passa così dal regime civile al regime militare nell'amministrazione. Sotto Maurizio, in Italia e nell'Africa, il potere supremo viene affidato agli esarchi. Sotto Eraclio, per le invasioni degli Avari, degli Slavi e degli Arabi, si prendono analoghi provvedimenti per l'Illiria e l'Asia. Si aboliscono le eparchie e le diocesi, i territorî si aggruppano secondo la dislocazione delle truppe e il comando supremo viene affidato ai capi militari (στρατηγοί). Le nuove provincie furono dette temi (ϑέματα), con parola che in origine significava il corpo d'armata e che ora passò a indicare sia il territorio sia l'amministrazione. I primi a sorgere furono i temi degli Armeniaci, degli Anatolici e dell'Opsichion in Asia; quello dei Traci in Europa. Ma ben presto il sistema si rese generale: segno che corrispondeva a una reale necessità. Il numero dei temi variò (nel sec. X arrivò a ventinove); ma il regime si mantenne sempre sino alla fine dell'impero.
Nel governo centrale, non si notano essenziali modificazioni. Anche dopo il sec. VII, esso è impostato sull'assolutismo monarchico e sul conseguente accentramento dei poteri e degli uffici. Ma è caratteristico il progressivo prevalere di titoli e nomi greci, nel protocollo della cancelleria. Fino ad Eraclio, il monarca aveva portato sempre il titolo di imperator o dominus; ora egli è chiamato anche basileus fedele in Cristo (πιστὸς ἐν Χριστῳ βασιλεύς); il senato diviene la σύγκλητος βουλή e, accanto ai nomi di praepositus sacri cubiculi, di curopalate, di magister militum, appaiono quelli di παρακοιμώμενος, λογοϑέτης, στρατηγός, ecc. Certo, non sempre il mutamento del titolo indica una trasformazione nell'ufficio o una nuova funzione, ma esso sta a dimostrare come, a poco a poco, la tradizione latina, pur senza scomparire mai, giacché gl'imperatori si dicono sempre romani, e romei ('Ρωμαῖοι) sono detti i sudditi, si viene affievolendo. Il greco soppianta il latino anche nella corte e nei comandi dell'esercito e diviene la sola lingua dell'Impero bizantino. E la lingua è indice della mentalità e dello spirito. L'impero, ridotto ormai alla Macedonia, alla Grecia, alla Tracia, all'Anatolia e a parte dell'Armenia, non forma un'unità etnica. L'Anatolia e l'Armenia, che ne costituiscono la grande riserva di forze, non sono popolate da genti elleniche, e la stessa Grecia, per le numerose infiltrazioni slave, perde talmente la sua purezza di razza che, nei secoli IX-XI, sarà considerata un paese slavo; ma esso ha ormai acquistato un'unità, oltre che politica, spirituale.
Se ora vogliamo intendere da che cosa venga all'impero questa unità spirituale che accomuna tutti i popoli, dobbiamo pensare non all'ellenismo, morto col paganesimo e, comunque, non più compreso, ma alla religione cristiana. È questa che segna di sé il pensiero e regola la vita dei Bizantini. La monarchia accentua sempre più il suo carattere sacro, e della religione fa il cardine fondamentale della sua politica; la cultura e l'arte sono esclusivamente ecclesiastiche; il clero occupa nella corte, nelle cerimonie pubbliche, nell'amministrazione, nella società, una posizione preminente. E la religione penetra talmente nella vita dei popoli, esprime così compiutamente la loro anima, si adegua talmente alla loro mentalità che, pur partendo essa dai medesimi principî e professando, con leggiere variazioni, gli stessi dogmi, si differenzia e allontana da quella professata in Occidente, come son differenti e lontani dalle popolazioni d'Occidente quelle dell'Oriente, soggette all'impero. Così, a Bisanzio, la chiesa si stacca da Roma e diviene una chiesa nazionale. Approfondirono questo distacco le controversie dottrinali e la lotta combattutasi, specialmente a partire dal sec. VI, fra il vescovo di Roma e il patriarca di Costantinopoli, aspiranti l'uno e l'altro al primato nella chiesa universale; ma esso già preesisteva e si veniva preparando da tempo. In esso si manifestava quell'antagonismo fra Oriente e Occidente, fra Latini e Greci che già prima aveva portato, nel campo politico, alla scissione dell'impero romano. L'ortodossia a Bisanzio tenne luogo della nazionalità; e il patriarca, per quanto la chiesa fosse subordinata allo stato, acquistò un'autorità immensa di cui generalmente si servì a difesa dello stato e della monarchia, ma a volte anche contro lo stato per il trionfo di fini e interessi esclusivamente ecclesiastici. Se, insomma, nella civilta bizantina, considerata nelle sue molteplici manifestazioni politiche, culturali, artistiche, si riscontrano elementi greci, romani e orientali; se la lingua e la mentalità prevalenti a partire dal sec. VII sono greci, è soltanto tuttavia la religione cristiana o, meglio, l'intima compenetrazione di cristianesimo e di vita civile, di chiesa e di stato che distingue quella civiltà dalle altre civiltà antiche e moderne. L'evoluzione alla quale abbiamo accennato fu accentuata dal carattere che, a partire dal sec. VII, assunsero le guerre nelle quali fu impegnata l'esistenza dell'impero. I basileis si trovarono da allora in poi in lotta contro gli Slavi nella Balcania e contro gli Arabi in Asia. Con gli Slavi, essi adoperarono, oltre che le armi, la propaganda religiosa, riportando, in essa, successi più clamorosi e, ad ogni modo, più duraturi di quelli conseguiti con la forza delle armi. Furono missionarî greci quelli che portarono la religione cristiana e l'alfabeto fra i Bulgari - popolo di origine mongolica presto slavizzatosi - fra i Serbi e poi anche fra i Moravi e i Russi. E con la religione e l'alfabeto, penetrò in quei paesi l'influsso politico e culturale di Bisanzio, conservatosi fino ai nostri giorni. Contro gli Arabi, la propaganda religiosa non valeva. Si impose la guerra. E la guerra assunse in Oriente il carattere di crociata.
La dinastia di Eraclio. - Dopo la conquista della Siria e dell'Egitto, gli Arabi continuarono l'avanzata da un lato verso l'Anatolia, dall'altro verso la Libia. Qui, i Bizantini non poterono far quasi nulla; le guarnigioni erano scarse e le popolazioni insofferenti del giogo greco. L'Africa settentrionale fu gradatamente perduta; ma nell'Anatolia, l'impero sbarrò il passo ai musulmani, costituendo una barriera insuperabile. Se l'Europa cristiana fu salvata dal pericolo di cadere sotto il dominio dell'Islam, ciò, più che alla vittoria riportata dai Franchi a Poitiers nel 732, si dovette alla resistenza dei Bizantini nell'Anatolia e in Costantinopoli, dove la guerra non ebbe se non brevi tregue. Se questi baluardi dell'impero fossero caduti, nulla avrebbe più potuto arrestare la marcia degli Arabi attraverso la Balcania verso l'Italia, che fu sempre una meta della loro espansione, e verso l'Europa centrale. Fu merito incontestabile dei primi successori d'Eraclio - la cui dinastia durò fino al 711 - di avere rotto il primo impeto dei musulmani e organizzato la difesa sulla linea del Tauro. I contrasti dinastici manifestatisi alla morte di Eraclio furono rapidamente superati. L'imperatore aveva lasciato il trono ai due figliuoli Costantino II, avuto dalla prima moglie, ed Eracleona, avuto dalla seconda moglie, la ambiziosa Martina: ma, essendo Costantino malaticcio, il potere era stato assunto da Martina, assistita dal patriarca Pirro, l'uno e l'altra impopolari. Morto Costantino, l'esercito acclamò imperatore il figlio di lui Costante, ufficialmente Costantino III (642-668), il quale allontanò da Bisanzio Eracleona e Martina. Egli si dimostrò uomo di carattere duro ma energico. Gli Arabi, in questo tempo, occuparono la Cirenaica e la Tripolitania (642-643) e, costituita una flotta, cominciarono a correre le coste dell'Anatolia e delle isole. Come se ciò non bastasse, nel 647 l'esarca d'Africa, Gregorio, sfruttando il malcontento della popolazione, si ribellò al governo centrale. Il suo esempio poco dopo fu seguito dall'esarca di Ravenna, Olimpio. A eliminare ogni causa di contrasti interni, Costante nel 648 promulgò un editto - detto tipo - col quale proibiva perentoriamente che si continuasse a discutere intorno alla dottrina monoteletica, la grande questione dogmatico-politica degli ultimi anni. E poiché il papa Martino condannò apertamente il tipo, Costante lo fece catturare e, dopo un rapido processo, lo esiliò in Crimea, dove Martino morì. La stessa sorte toccò ad alcuni alti prelati orientali, come l'abate Massimo. Questa risolutezza fece cessare, almeno per qualche tempo, la lotta religiosa. Anche i papi si mostrarono più sottomessi ai voleri imperiali.
Tutte le cure del sovrano poterono quindi essere volte alla guerra. Gli Arabi, nel 647, fecero la prima comparsa nell'esarcato d'Africa; nel 649, sbarcarono a Cipro; nel 651, penetrarono in Anatolia, donde però furono ricacciati; due anni dopo, favoriti dall'alta nobiltà locale, s'impadronirono dell'Armenia. Nel 655, la flotta bizantina, comandata dallo stesso imperatore, si scontrò con la musulmana sulle coste della Licia. La battaglia fu sfavorevole ai cristiani; ma è da credere che essi abbiano preso subito dopo la rivincita, se, nel 659, il nuovo califfo Mu‛āwiyah non solo venne a pace con Bisanzio, ma si obbligò anche a pagare un tributo annuo all'imperatore. Della tregua, Costante approfittò per fare una spedizione contro gli Slavi della Macedonia. Vinti questi, nel 662 egli parti da Atene alla volta dell'Italia. Egli non vagheggiava il romantico progetto di riportare a Roma il centro dell'impero, ma intendeva ristabilire il dominio imperiale su tutta la penisola, caduta in parte sotto i Longobardi, e fare della Sicilia la base per la guerra contro gli Arabi dell'Africa settentrionale. Il suo disegno fallì miseramente e per l'indifferenza della popolazione italiana, ormai staccatasi moralmente da Bisanzio e per nulla disposta a sobbarcarsi a sacrifici per essa, e per l'indisciplina dell'esercito. Dopo avere vanamente tentato di espugnare Benevento, Costante passò in Sicilia: e qui, nel 668, fu assassinato. I cospiratori acclamarono imperatore l'armeno Mizizio (Mğeğ), uno dei capi dell'esercito. Ma poco dopo apparve nell'isola il figlio dell'ucciso monarca, Costantino, il quale punì con la morte i colpevoli e l'usurpatore e ricondusse in Costantinopoli l'esercito. Costantino IV (668-685), soprannominato Pogonato, continuò le tradizioni militari della dinastia. Riaccesasi la guerra con gli Arabi, egli li fronteggiò con valore e successo. Invano, per cinque anni, i musulmani assalirono per terra e per mare l'Anatolia. Nel 672 essi apparvero anche dinnanzi a Bisanzio. Ma la flotta bizantina, grazie specialmente ad una nuova arma da guerra, il fuoco greco, inventato da un ingegnere siriaco, Callinico, mantenne una netta superiorità su quella araba, alla quale inflisse una grande sconfitta nelle acque di Scilleo. Battuto per terra e per mare, il califfo Mu‛āwiyah dovette nel 678 nuovamente accettare la pace e sottomettersi a tributo. Allora Costantino iniziò una campagna nella Balcania. Qui, negli anni precedenti, Slavi e Avari avevano compiuto numerose incursioni, spingendosi verso sud. Più volte avevano tentato d'impadronirsi di Tessalonica; ma la città "protetta da S. Demetrio" aveva sempre resistito agli assalti.
Ora, il pericolo proveniva da un altro popolo, cioè dai Bulgari, i quali, superato il Danubio sotto la guida di Asparuch, loro principe, si erano stanziati nella Mesia. Costantino, sostenuto anche da una flottiglia che risaliva il Danubio, cercò di sloggiarli dalle nuove sedi; ma una grave malattia lo costrinse a interrompere la campagna. I Bulgari rimasero nella Mesia, dove fondarono un principato che ebbe come centri Varna, Preslav e Silistria. Essi sottomisero le popolazioni che già abitavano il paese - discendenti degli antichi popoli già romanizzati, e Slavi - e mostrarono tali qualità organizzatrici che lo stato da loro fondato salì ben presto a grande potenza. Costantino mise anche fine alla lotta religiosa provocata dal monotelesimo. Ormai il monofisismo era ridotto a nulla nell'impero. La necessità d'una formula che conciliasse ortodossi e monofisiti non c'era più. L'imperatore, quindi, fece condannare dal concilio di Costantinopoli (680-681) la dottrina monoteletica, e ristabilì con ciò non soltanto l'unità di fede nell'impero, ma anche l'accordo col papato e quindi con l'Italia. Per alcuni anni, al dire del cronista Teofane, "una grande tranquillità regnò nell'Oriente e nell'Occidente".
Disgraziatamente, Giustiniano II, che successe al padre Costantino nel 685, non ebbe nessuna delle belle qualità che avevano reso glorioso il nome della dinastia e consolidato il regime monarchico. Fu un megalomane incapace e tirannico. Cominciò il sul regno con una spedizione contro i Bulgari e gli Slavi, li vinse e né trapiantò alcuni gruppi in Asia. Inorgoglito, ruppe la pace con gli Arabi. L'Anatolia conobbe di nuovo gli orrori della guerra e dell'invasione musulmana e i sudditi furono sottoposti a gravezze esorbitanti. Nel 695 una rivolta militare rovesciò dal trono Giustiniano che ebbe tagliato il naso - donde il soprannome di Rinotmetos, col quale è passato alla storia - e fu mandato in esilio nella Crimea. In sua vece fu innalzato un capo militare: Leonzio. Si aprì per l'impero un periodo di venti anni di lotte civili e di anarchia. Nel 698, un ammutinamento della flotta costrinse Leonzio a cedere il potere al drungario (ammiraglio) Apsimaro che prese il nome di Tiberio III. Ma sette anni dopo, Giustiniano, con l'aiuto del khān dei Bulgari, Tervel, rientrò in Costantinopoli, dove fece le più spaventevoli vendette. Leonzio e Tiberio furono impiccati. Giustiniano si mantenne col terrore fino al 711, quando una nuova insurrezione della flotta portò al trono l'armeno Filippico Bardane (711-713). Giustiniano fu decapitato. Con ciò tuttavia non ebbero fine i disordini interni.
Contro Filippico, infatti, il senato acclamò imperatore Anastasio II; ma questi, nonostante le sue buone qualità, non poté regnare a lungo, avendo contro di sé l'esercito. Nel 716, le truppe del tema Opsichion elessero Teodosio, un funzionario civile che invano tentò di sottrarsi all'onorifica ma pericolosa dignità, e l'anno seguente, quelle del tema degli Armeniaci e del tema Anatolico, Leone, uno dei migliori generali dell'impero. Fra i due rivali prevalse Leone, il quale, venuto a Costantinopoli, fu anche riconosciuto dal senato e dal popolo e consacrato imperatore dal patriarca. L'avvento di Leone fu provvidenziale. I venti anni di anarchia e di rivolte avevano ridotto l'impero in condizioni quasi disperate. All'esterno, gli Arabi avevano occupata definitivamente l'Africa settentrionale (693-698), risottomessa l'Armenia (703), devastata la Cilicia, la Pisidia, la Cappadocia; i Bulgari avevano ampliate le loro sedi verso la Tracia e per due volte erano apparsi a Costantinopoli (708, 712). All'interno, non esisteva più né disciplina, né sicurezza, né sentimento di lealismo verso la monarchia. L'esercito strapotente, le provincie ribelli, il popolo demoralizzato, perché non più protetto dalla legge. Fra tanta miseria, la superstizione aveva fatto enormi progressi e il clero, specialmente quello dei conventi, che era di gran lunga il più ricco, aveva acquistato un potere eccessivo sulle folle, potere di cui si serviva per accrescere i suoi possessi e per sottrarsi a ogni autorità civile.
La dinastia isaurica e la lotta per il culto delle immagini (717-857). - Leone III (717-740) reagì energicamente e con successo contro questo moto di disfacimento, tanto all'interno quanto all'esterno. Nella tradizione ecclesiastica, a cagione della sua politica religiosa, il suo nome è stato tramandato come quello di un violento tiranno; ma la realtà storica è diversa. Egli fu un vero uomo di stato: valoroso generale, abile diplomatico, buon organizzatore, restauratore delle finanze pubbliche e dell'economia del paese. Appena salito al trono, dovette parare uno dei più grandi colpi tentati dall'Islam contro l'impero: il grande assedio dei musulmani, per terra e per mare, a Costantinopoli, dall'agosto 717 all'agosto 718. Ma egli batté il nemico e lo ricacciò, rafforzando enormemente la sua posizione. La guerra araba certo non cessò, ma perdette molto della sua asprezza. Lo slancio offensivo dei Musulmani era definitivamente spezzato.
Orma duratura lasciò Leone anche nel campo dell'attività civile. Il regime dei temi, apparso, come abbiamo detto, al tempo di Eraclio, fu da lui esteso a tutto l'impero; ma le circoscrizioni territoriali furono ridotte a minore estensione, sia per renderne più efficace la difesa, sia per diminuire la potenza degli strateghi. La disciplina dell'esercito fu energicamente restaurata ed ebbe il suggello di nuove regole che formarono un Codice militare. Nello stesso tempo, Leone emanò importanti decreti relativi alla marina (Codice nautico), altri all'agricoltura (Codice rurale). Per promuovere quest'ultima, egli difese la piccola proprietà contro la tendenza, già inquietante, verso il latifondo. La sua opera legislativa culminò con la pubblicazione di un codice civile (detto Ecloga), che riassumeva le principali disposizioni del Codice giustinianeo e le integrava con nuove provvidenze, appropriate al nuovo spirito bizantino e ai nuovi bisogni. L'Ecloga fu scritta in greco.
Ma il nome di Leone III è legato principalmente alla riforma religiosa. Questa non toccò il dogma, ma il culto delle immagini, da molti deplorato per ragioni religiose e politiche (v. iconoclastia). Nessun dubbio che Leone fu mosso principalmente da ragioni politiche: diminuire la ricchezza e potenza dei monaci. In questo egli era sicuro di avere l'appoggio di molti vescovi, specialmente dell'Anatolia, e di gran parte del clero secolare, gelosi delle ricchezze e della popolarità dei monaci. Si ebbe così il decreto del 726, col quale si proibiva il culto delle immagini e si ordinava la loro rimozione dalle chiese e dai luoghi pubblici; poi il decreto del 728, che estendeva la proibizione al culto delle reliquie e alle preghiere ai santi. Viva fu, contro questi decreti, l'indignazione specialmente del popolo minuto e dei conventi; in Occidente poi, dove il culto non era degenerato in forme eccessive e dove non esisteva nessuna preoccupazione per la propaganda musulmana, l'indignazione fu ancora maggiore. Il patriarca di Costantinopoli Germano e il papa protestarono altamente. Nella Grecia e nelle isole dell'arcipelago, scoppiò un'insurrezione, capeggiata da due comandanti della flotta, che tentarono anche di abbattere Leone. Nell'Italia, l'esarca Paolo e molti altri funzionarî greci che tentavano di eseguire gli ordini imperiali furono o uccisi o acciecati o scacciati via. Leone procedette con rigore: Germano fu deposto; l'insurrezione fu domata e i suoi capi uccisi. In odio al papato, l'Italia meridionale, la Sicilia, la Dalmazia e l'Illiria occidentale furono sottratte alla giurisdizione di Roma e sottoposte al patriarcato di Bosanzio; ma né Leone né il suo successore poterono impedire che i Longobardi, approfittando delle favorevoli circostanze, invadessero l'esarcato, occupassero Ravenna e marciassero contro il ducato romano. L'Italia centrale, da quel momento, si può considerare perduta per l'Impero d'Oriente. Ma al dominio bizantino non si sostituì quello longobardico, sibbene quello pontificio. I papi, non potendo per i contrasti religiosi continuare a stare sotto i basileis, né volendo cadere sotto i Longobardi, con l'aiuto dei Franchi gettarono le fondamenta dello Stato della chiesa, comprendente i territorî imperiali del Lazio, della Tuscia, dell'Umbria, della Pentapoli, e dell'Esarcato. Sul resto dell'Italia bizantina, i basileis poterono mantenere il loro dominio; ma in alcune delle più importanti città, come Venezia e Napoli, la popolazione scelse dei duchi locali, ciò che doveva necessariamente portare al loro affrancamento da Costantinopoli. Nell'Oriente, l'opposizione ai decreti imperiali, nonostante l'opera di sobillazione dei monaci e gli scritti infuocati di Giovanni Damasceno, uno dei più convinti difensori del culto delle immagini, non produsse, almeno nei primi tempi, nessun pericoloso movimento politico, anche perché Leone si tenne lontano da ogni eccesso. Tuttavia, anche lì, aspra fu la lotta fra iconoduli e iconoclasti, cioè fra veneratori e avversarî delle immagini, e appassionò gli animi dividendo i sudditi in due campi irreconciliabili.
La morte di Leone III invece di attenuare i contrasti li inasprì, poiché il suo figliuolo e successore Costantino V (740-775) non solo mantenne i precedenti decreti, ma da un concilio convocato a Hieria, nel 753, al quale parteciparono 338 vescovi, fece proclamare come contrario alla dottrina cristiana il culto delle immagini e anatemizzare coloro che lo difendevano. Da quel momento, Costantino poté colpire gl'iconoduli non solo come ribelli al governo, ma anche come eretici. Si scatenò allora una vera persecuzione. Alcuni alti funzionarî e prelati furono colpiti di pena capitale o esiliati, molti conventi furono o secolarizzati o trasformati in caserme, i beni dei monaci furono confiscati. Gli scrittori iconoduli e il popolo si vendicarono del monarca, affibbiando al suo nome titoli offensiví come quello di καβαλλίνος, cioè "staffiere", e di Copronimo (da κόπρος "sterco"), col quale è passato alla storia. E certo, Costantino andò oltre il segno e nell'offendere i sentimenti e le tradizioni più care ai fedeli e nel colpire gli avversarî. Ciò tuttavia non deve far dimenticare i servigi che egli rese all'impero, per la sua opera civile e militare. Costantino per questo lato deve considerarsi come uno dei più notevoli imperatori d'Oriente. Se, al suo tempo, l'Italia centrale fu perduta dai Bizantini, ciò non fu grave danno, essendo essa veramente un peso morto per l'impero; ma sui campi dell'Asia e della Balcania, a Cipro, contro gli Arabi e i Bulgari, il basileus riportò notevoli successi. La sua opera fu continuata dal figlio Leone IV (775-780); ma dopo la immatura morte di questo imperatore, si ebbe un cambiamento di indirizzo che, da un lato, arrestò il processo di laicizzazione dello stato, dall'altro procurò all'impero una serie di sconfitte militari che lo ricondussero alle condizioni in cui si trovava prima che sorgessero gli Isaurici. Leone lasciava la corona al figlio ancora decenne, Costantino VI (780-797). Per lui prese le redini del governo la madre Irene, donna ambiziosa e fervente iconodula, che prima allontanò dagli alti gradi del governo della chiesa e dell'esercito i più convinti iconoclasti, suscitando un vivo malcontento, specialmente nelle truppe che si abbandonarono a clamorose dimostrazioni contro la reggente; poi, d'accordo col nuovo patriarca di Costantinopoli Tarasio, convocò un concilio a Nicea (787) e fece condannare come eretica l'iconoclastia e restaurare il culto delle immagini. Ma quanto la politica dei primi imperatori isaurici corrispondesse a reali esigenze politiche e sociali dello stato e quanto largo seguito avesse l'iconoclastia, si vide subito dopo. L'esercito insorse ed Irene fu costretta a lasciare il governo. Richiamatavi poco dopo dal figlio, ella ricominciò la repressione dell'iconoclastia. Il figlio, che si oppose, fu detronizzato e acciecato (797) ed Irene regnò in proprio nome. Nei cinque anni del suo governo personale (797-802), il partito monastico riacquistò tutta la sua antica potenza. Alla corte dominarono le fazioni e gli eunuchi, con grave danno per l'impero, umiliato anche da una serie di insuccessi militari e diplomatici. Fu quello il tempo in cui il glorioso califfo di Baghdād, Hartūn-ar-Rashīd, impose a Bisanzio un tributo annuo e Carlo Magno restaurò l'impero d'Occidente. Abbattuta da una rivoluzione nell'802 ed esiliata nell'isola di Lesbo, Irene mori l'anno seguente. Salì al trono il gran logoteta Niceforo I. La questione delle immagini si riaccese nuovamente e, per quarant'anni, ancora dominò la vita politica dell'impero. Ma il problema dottrinale ormai veniva perduto di vista. La lotta, in questo periodo, fu impostata esclusivamente sul problema dei rapporti fra lo stato e la chiesa. Questa, sotto Irene, aveva affermato la sua volontà di sottrarsi alla dipendenza del potere civile, mentre gli imperatori intendevano ora ristabilire la loro supremazia. Niceforo I (802-811) consentì che il patriarcato fosse tenuto da un iconodulo; ma sottopose i beni ecclesiastici alle imposte pubbliche e colpì inesorabilmente i monaci che erano fautori della libertà della chiesa. Non altrettanta fermezza mostrò il suo successore Michele I Rangabe (811-813), il quale pertanto fu rovesciato dal trono. Leone V l'Armeno (813-820), Michele II (820-829) e Teofilo (829-842) procedono inesorabilmente sulle orme di Costantino V e di Niceforo. Sebbene inclini a tollerare il culto delle immagini, essi non cedono sul punto principale e ricorrono alle misure estreme contro i monaci recalcitranti, imprigionandoli od esiliandoli e confiscandone i beni. La basilissa Teodora che, dopo la morte di Teofilo, fu reggente per il figlio Michele III, nell'843 chiuse il periodo della lotta restaurando solennemente il culto delle immagini; ma ormai il partito monastico era definitivamente domato e la chiesa passata alla dipendenza dell'autorità imperiale.
Questo periodo di lotte religiose, se all'interno aveva giovato all'assolutismo monarchico, che ormai in Bisanzio non ebbe più limiti, all'esterno aveva costato enormi sacrifici e perdite. L'offensiva araba era stata vittoriosa per terra e per mare. I musulmani non solo avevano recuperato i territorî perduti nella Siria e nell'Amienia, ma nell'826 avevano anche occupato Creta e iniziato la conquista della Sicilia. Qui i Bizantini, alla morte di Teofilo, non si mantenevano se non in alcune città della costa orientale e nelle fortezze di Caltanissetta e Castrogiovanni. Ma anche queste essi erano destinati a perdere. Nell'842 cadde Messina, nell'859 Castrogiovanni, nell'878 Siracusa, sede del governatore bizantino. La resistenza continuò ancora per cirea un secolo (Rametta cadde soltanto nel 965), ma l'isola si poteva considerare come totalmente perduta con l'espugnazione di Siracusa. Nella Balcania la situazione si era fatta inquietante per i progressi dei Bulgari, i quali tendevano da un lato verso l'Adriatico combattendo contro i Serbi, dall'altro verso la Tracia. Niceforo aveva tentato di arrestarli, ma era stato sconfitto e ucciso. Una sosta nell'avanzata si era ottenuta al tempo di Leone V che, dopo una vittoria a Mesembria, aveva potuto concludere una pace di trent'anni (817). Di questa approfittarono la diplomazia e missionarî bizantini per un'attiva propaganda fra Bulgari e Slavi. La loro opera fu fortunata. Nell'864, lo zar Boris di Bulgaria si convertiva al cristianesimo ortodosso e il suo esempio era seguito dai sudditi. Nello stesso tempo, i due fratelli Cirillo e Metodio di Salonicco intraprendevano l'opera di evangelizzazione fra gli Slavi della Pannonia e della Moravia, riportando notevoli successi. Un tentativo della Curia romana, per attrarre la Bulgaria nell'orbita della chiesa cattolica, fu frustrato dalla diplomazia bizantina; e l'Oriente slavo rimase sotto la giurisdizione della chiesa ortodossa, vale a dire sotto l'influsso bizantino. Questo successo ebbe un'immediata ripercussione sui rapporti fra Roma e Bisanzio. Da lungo tempo, questi erano molto tesi. Ora si venne ad un'aperta rottura, in seguito alla deposizione del patriarca Ignazio ordinata dal Cesare Bardas, fratello della basilissa Teodora che reggeva lo stato, ed alla elezione di Fozio. Papa Niccolò I (858-867), sollecitato da Ignazio, avocò a sé l'affare e, dopo un'inchiesta, condannò Fozio imponendogli di lasciare il patriarcato. La scomunica ebbe solo l'effetto di eccitare ancora di più l'animosità del clero bizantino contro la curia romana. Ne approfittò Fozio per adunare un concilio a Costantinopoli, dove fu scagliato l'anatema contro il pontefice e dichiarata illegale ogni sua ingerenza nelle cose della chiesa greca. La rottura ormai era definitiva (867).
La situazione dell'impero in questo tempo era quanto mai difficile. L'amministrazione corrotta, l'aristocrazia e il clero petulanti, i nemici esterni minacciosi. Michele III (842-867) non mancava d'ingegno; ma, vizioso e dedito tutto ai piaceri, lasciava il governo ai favoriti che cambiavano di anno in anno e che dovevano la loro fortuna o alle loro qualità fisiche o alla loro abilità nell'adulare. Fra questi, si elevò rapidamente Basilio. Venuto dalla Macedonia a Costantinopoli, egli era entrato nelle grazie di Michele III tanto da essere adottato come figliuolo e associato al trono col titolo di Augusto. Nell'867, tolti di mezzo con l'astuzia o col delitto i suoi rivali, egli assassinò il suo benefattore e rimase solo imperatore.
La dinastia macedonica: l'impero all'apogeo della sua potenza. - Basilio I (867-886) fu il fondatore della dinastia - detta impropriamente macedonica, essendo esso di origine armena - che resse più a lungo l'impero e lo portò ai più alti fastigi della sua potenza e della sua prosperità. I progressi nelle idee di legittimità e nei sentimenti di fedeltà, per cui, nonostante le rivoluzioni interne e le usurpazioni di potere, si ebbe sempre un rispetto per i porfirogeniti, cioè per i "nati nella porpora", come si dissero i principi della famiglia regnante, si dovettero principalmente alle qualità di statisti o di guerrieri che ebbero quasi tutti i discendenti di Basilio e al loro interesse nel promuovere il bene pubblico. Un lato caratteristico della loro attività è questo: che essi si tennero quasi del tutto estranei alle questioni religiose. Nella loro azione c'è una grande continuità di propositi e di direttive. Essi mirano costantemente a restaurare all'interno l'autorità statale, combattendo contro i progressi della feudalità latifondista, che in Oriente non era meno pericolosa che in Occidente, e vegliando sul clero per impedire che riprendesse il potere di una volta; all'esterno, mirano a passare dalla difensiva all'offensiva. Questi capisaldi sono posti da Basilio e proseguiti dai suoi successori. Abbiamo già accennato alla conquista araba della Sicilia. Ma all'avvento di Basilio, a quella perdita si era aggiunta quella di una parte dell'Italia meridionale. I musulmani, nell'839, avevano invaso la Calabria e, negli anni seguenti, la Puglia, occupando Taranto e Bari. Per quanto assorbito nella guerra d'Oriente, Basilio, reagendo contro la politica di disinteressamento dei suoi predecessori, intervenne in Occidente per salvare il dominio bizantino e contrastare i progressi degli Arabi. Nell'869, egli si accordò con l'imperatore Lodovico II per una spedizione contro i musulmani dell'Italia meridionale. Gli Arabi furono vinti e Bari espugnata: ma la città e i territorî riconquistati non passarono sotto il dominio franco. Approfittando delle discordie fra Lodovico II e i principi longobardi, i Bizantini, nell'873, occuparono Bari che, da quel momento, divenne la base di una restaurazione imperiale nella Puglia e nella Calabria. La difesa degli interessi italiani indusse Basilio a soddisfare il papa, allontanando dal seggio patriarcale Fozio e richiamandovi Ignazio. Ciò tuttavia, non sanò il dissidio fra le due chiese che, come sappiamo, aveva cause molto profonde, sì che alla prima occasione si rinnovò.
Nell'Oriente la guerra fra Bizantini e musulmani non ebbe mai tregua. Essa si combatté per mare e per terra ed ebbe vicende drammatiche. Sotto Basilio, gli Arabi furono respinti dalla Cappadocia e dalla Cilicia. Un episodio importante della lotta sul confine orientale fu la distruzione della potenza dei Pauliciani, una setta religiosa che, al limite fra l'impero e il mondo musulmano, costituiva un pericolo per Bisanzio. A Basilio successero Leone VI (886-912) e Costantino VII (912-959). Essi non ebbero le qualità guerriere del padre e si dedicarono quasi del tutto agli studî. Ma la difesa dell'impero non ebbe a soffrirne. In loro nome e sempre sotto la loro alta autorità, che, malgrado tutto seppero far valere contro ogni tentativo d'usurpazione, governarono uomini di alto valore e di grande energia. Fra questi bisogna ricordare Romano Lecapeno, suocero di Costantino, che per ventiquattro anni (919-944) tenne il potere come correggente. Fu appunto sotto di lui che le armi bizantine presero il sopravvento sui musulmani. Questi, negli anni precedenti, si erano spinti nelle loro incursioni marittime fino a Costantinopoli. Nel 904, avevano preso e devastato orrendamente Salonicco. A distruggere la loro base navale, che in Oriente era Creta, i Bizantini intrapresero una serie di spedizioni, che finalmente ebbero un esito felice. Nel 961 il generale Niceforo Foca, sbarcato nell'isola, espugnò la capitale Candia (al-Khandaq) e pose fine al dominio musulmano. Per terra, la lotta fu condotta successivamente da Giovanni Curcuas, da Bardas Foca e dai suoi figliuoli Niceforo Leone e Costantino, tutti generali di alto valore. Gli Arabi furono sloggiati dalle loro posizioni e respinti dall'Armenia, dalla Cilicia, dalla Siria. Nel 928, fu espugnata Teodosiopoli (Erzerum); nel 934, Melitene; nel 944, Edessa; nel 957, Amida; nel 958, Samosata. Le maggiori conquiste furono fatte sotto il regno di Niceforo Foca, Giovanni Zimisce e Basilio II.
Niceforo Foca (963-969) non apparteneva alla famiglia imperiale, ma s'impadronì del potere dopo il breve regno di Romano II (959-963), figlio di Costantino VII Porfirogenito, per istigazione dell'imperatrice vedova Teofane. Niceforo aveva già conquistato Creta: ora si gettò sulla Siria, tenuta dagli emiri Ḥamdānidi di Aleppo. La sua avanzata fu fulminea. L'una dopo l'altra caddero Adana, Mopsueste, Tarso, Laodicea, Emesa, Aleppo, Antiochia. Nel 969 Niceforo fu assassinato nel suo appartamento del palazzo imperiale per una congiura militare ordita dalla sua stessa moglie Teofane. Giovanni Zimisce, uno dei cospiratori, occupò il suo posto sia nella reggia sia sul campo di battaglia (969-976). Qui furono estese le conquiste nella Mesopotamia e nella Siria, con l'espugnazione di Edessa, Nisibi, Damasco e Berito. Basilio II, figlio di Romano II, assunto direttamente il potere e il comando degli eserciti alla morte di Giovanni (976), diede il colpo di grazia alla potenza araba in Oriente, completando la conquista della Mesopotamia e dell'Armenia e sottomettendo l'Iberia e la Georgia.
Ma il nome di Basilio II è principalmente legato alla distruzione del regno bulgaro. Agl'inizî del sec. X, questo era stato sul punto di sostituirsi a Bisanzio nel dominio della Balcania. Lo zar Simeone, successo nell'893 a Boris, prendendo a pretesto un'ordinanza di Leone VI che colpiva gl'interessi economici della Bulgaria, aveva rotto la pace, riprendendo il moto di espansione da un lato verso l'Adriatico e dall'altro verso la Macedonia e la Tracia. Invano la diplomazia oppose ai Bulgari gli Ungheri, che allora si avanzavano verso la Pannonia, e i Pecceneghi della Crimea, i quali fecero un'irruzione nella Bessarabia e nella Dobrugia. Nel 914 i Bulgari presero Adrianopoli; nel 917 sconfissero l'esercito imperiale presso Anchialo; nel 923, apparvero sotto le mura di Costantinopoli. Il loro regno in questo momento si estendeva sulla Tracia, sulla Macedonia, esclusa la regione costiera con Salonicco, sulla Tessaglia settentrionale. A nord, comprendeva l'antica Mesia fino al Danubio: a ovest, l'Epiro, l'Albania dal golfo di Ambracia (Arta) a quello del Drin meno Durazzo, e l'attuale Serbia. Quali fossero le mire di Simeone, egli lo manifeaò chiaramente quando assunse il titolo di zar e autocrate dei Bulgari, dei Greci e dei Romani - titolo che gli fu confermato dal papa - e istitui un patriacrato bulgaro sottraendo il suo paese alla giurisdizione ecclesiastica del patriarcato greco. A coronare la sua opera mancava Costantinopoli. Ma la città non fu conquistata. Sia che cedesse, come generalmente si ritiene, alle esortazioni di Romano Lacapeno, sia che riconoscesse l'impossibilità di espugnare la città per la mancanza d'una flotta, egli non insistette nell'attacco e si ritirò, pago di avere imposto al basileus un tributo annuo. La sua morte, avvenuta nell'anno 927, segna l'inizio di un moto di disgregazione interna e di decadenza per i Bulgari. Sotto il lungo regno di Pietro (927-968), sobillati dalla diplomazia bizantina, insorsero contro il loro dominio i Croati e i Serbi. Con l'impero, la pace tuttavia si mantenne fino al 967, quando Niceforo Foca rifiutò di pagare il tributo e, alleatosi col principe russo Svjatoslav, invase la Bulgaria. I Bulgari furono vinti, ma il paese, dal Danubio alla Tracia, fu occupato da Svjatoslav, il quale da alleato divenne nemico dell'impero. Giovanni Zimisce, nel 970, intraprese contro di lui una grande spedizione e, vintolo ad Arcadiapoli (Lule Burgas) e a Dorostol (Silistria), lo costrinse a ritirarsi. La Bulgaria allora cadde sotto il dominio bizantino e fu abolito il patriarcato di Preslav. Ma il pericolo bulgaro con ciò non era scomparso. Nella Balcania occidentale, dopo la caduta di Preslav, il conte bulgaro Šišman si proclamò zar e, raccogliendo intorno a sé i Bulgari e gli Slavi di quella regione, ricostituì il regno, stabilendo la sua sede a Presba. Le lotte civili scoppiate nell'impero, alla morte di Giovanni Zimisce, favorirono il moto di riscossa bulgara. Samuele, figlio di Šišman (986-1014), ampliò il nuovo stato, portandone i confini fino a Salonicco e a Corinto. La situazione si aggravò rapidamente. Ma Samuele trovò un avversario formidabile in Basilio II. Domati i tentativi di rivolta dei generali Bardas Scleros e Foca, Basilio si propose la distruzione della potenza bulgara; e per trent'anni, egli tenne il campo, percorrendo in tutti i sensi la penisola balcanica e infliggendo ai nemici dell'impero numerose sconfitte, fra le quali le più famose sono quelle dello Sperchio nel 997 e di Cimbalongu (Kleidion) nel 1014 (v. basilio 11). Finalmente, egli riuscì a spezzare per sempre la resistenza bulgara. Nel 1018, Vladislao, ultimo degli Šišmanidi, si arrese al basileus, insieme con i grandi del regno e fu condotto a Costantinopoli. La crudeltà dimostrata da Basilio durante la guerra, gli valse il titolo di "uccisore dei Bulgari" (Bulgaroctono); ma il regno bulgaro era distrutto e i confini dell'impero, da questa parte, erano riportati in occidente fino all'Adriatico, a nord fino alla Sava e al Danubio..
Lo stato e le condizioni dell'impero, nei secoli IX-XI. - Non meno energica fu l'azione dei basileis della dinastia macedonica nell'opera di restaurazione interna. Certo, i loro successi in questo campo non furono così splendidi come quelli riportati sui nemici esterni; ma essi fecero quanto era possibile per consolidare il regime monarchico e promuovere il benessere pubblico, e riuscirono, se non a eliminare del tutto le cause di disgregazione interna, a dominarle, ritardando così ancora di qualche secolo la fatale decadenza dell'impero.
Già abbiamo notato come, malgrado la debolezza o la minorità di alcuni imperatori, la dinastia abbia saputo tutelare i suoi diritti sovrani. Il progresso dell'idea di legittimità in questo periodo fu evidente, con grande vantaggio della stabilità del potere imperiale. Coloro che, come correggenti o tutori dei basileis, ressero il governo, non poterono farlo se non imparentandosi con la famiglia regnante. Romano I Lecapeno fu suocero di Costantino VII; Niceforo Foca sposò la vedova di Romano II, Teofano. Cause speciali impedirono che Giovanni Zimisce sposasse la stessa Teofano; ma egli non poté più mantenersi sul trono, quando Basilio II e Costantino VIII figli di Romano II, divennero maggiorenni; e i tentativi di Bardas Scleros e Bardas Foca per succedere nel governo a Giovanni Zimisce si ruppero contro la resistenza dei legittimi sovrani, sebbene essi fossero appoggiati dall'alta nobiltà asiatica e da parte dell'esercito. Il diritto ereditario nella trasmissione del potere acquistò tanta importanza che, nel sec. XI, all'estinzione della discendenza maschile della dinastia, l'autorità imperiale venne tenuta dalle superstiti donne, Zoe e Teodora, che elevarono al trono i nuovi imperatori, sia come mariti sia come figli adottivi. E quando uno di questi - Michele V Calafate - tentò di governare solo e relegò la legittima imperatrice in una delle isole dei Principi, il popolo della capitale insorse, costringendolo a lasciare il potere e riportando sul trono la deposta basilissa.
La forza dell'impero si reggeva principalmente sull'amministrazione e sull'esercito. Il principio della concentrazione dei poteri, prevalso già a partire dal sec. VII, fu sempre rigidamente mantenuto e sviluppato. In alto il basileus, sovrano per diritto divino e la cui volontà è legge. Egli ha un potere assoluto che si estende sugli affari civili e religiosi. La lotta impegnata dal clero contro l'imperatore in Oriente non arrivò mai a fare del patriarca quello che da Gregorio VII in poi fu il papa in Occidente. Taluni patriarchi, è vero, resistettero talvolta ai voleri imperiali o si imposero agli stessi monarchi; ma furono casi eccezionali che non portarono pregiudizio ai diritti di sovranità. Il basileus in Bisanzio rimase sempre il capo supremo della società e il patriarca fu a lui subordinato. Quanto al lavoro burocratico nella capitale, esso era ripartito in riumerosi uffici ai quali presiedevano gli alti funzionarî della corte e dell'amministrazione; il gran logoteta, specie di cancelliere dell'impero, capo dell'amministrazione civile e segretario per gli affari esteri; il gran domestico o logoteta militare, ministro della guerra, al quale era subordinato il grande stratiopedarca, direttore dei servizî d'intendenza; l'eparco, prefetto di Costantinopoli; il gran drungario, ministro della marina, ecc. Le attribuzioni di ognuno erano nettamente fissate dal protocollo della cancelleria, sì che gli uffici funzionavano ordinatamente e rari erano i conflitti di competenza. In ogni affare importante si riferiva al monarca, al quale spettava il diritto di decisione. Una sopravvivenza delle antiche istituzioni romane è il senato il quale si mantiene fino alla caduta dell'impero; ma esso non ha in Costantinopoli l'importanza politica che aveva avuto in Roma né rappresenta una limitazione del potere imperiale. Le sue funzioni sono giudiziarie e legislative. Esso costituisce una specie d'alta corte di giustizia e di consiglio di stato: giudica i grandi processi politici; interviene nelle elezioni dell'imperatore e del patriarca, è interpellato negli affari e nelle circostanze più gravì per l'impero; e per quanto Leone VI nel sec. IX gli tolga il diritto legislativo, pure sono sottoposte alla sua approvazione le leggi più importanti. Nelle cerimonie della corte e nei ricevimenti degl'inviati delle potenze straniere i senatori occupano un posto d'onore.
L'impero, come abbiamo detto, era diviso in temi, trenta nel sec. XI, cioè 18 in Asia e 12 in Europa. A capo del tema, stava lo stratego, nominato direttamente dall'imperatore. Egli riuniva il potere civile e militare. Nel civile, era assistito dal protonotario e giudice. Investiti di vasti poteri, gli strateghi bizantini furono spesso tentati a usurpare i diritti sovrani, come nell'Occidente fecero i conti e i marchesi carolingi; ma i loro conati furono sempre stroncati sul nascere, e gli strateghi rimasero sempre semplici funzionarî, in tutto dipendenti dall'autorità imperiale.
Compiti precipui dell'amministrazione erano il mantenimento dell'ordine pubblico e la riscossione delle imposte. Senza entrare qui in minuti particolari possiamo affermare che all'uno e all'altro compito la burocrazia militarizzata dell'impero corrispose magnificamente. Malgrado le continue guerre, il pagamento di numerosi tributi ai re barbari, le enormi spese della corte, i sussidî che, sotto la specie di viveri, si dovevano dare al popolo delle grandi città e particolarmente della capitale, le grandiose costruzioni promosse e condotte a termine dai basileis, il bilancio dello stato fu generalmente in floride condizioni. Al principio del sec. XI l'insieme delle entrate si calcola ammontasse a circa 650 milioni di soldi d'oro cioè a più di tre miliardi della nostra moneta. E alla morte di Basilio II, si trovò nelle casse dello stato una riserva di oltre 220 milioni, cioè oltre un miliardo. Certamente per ottenere questo risultato, la pressione fiscale divenne spesso eccessiva; ma se essa suscitò vivo malcontento, raramente diede origine nelle provincie a rivolte popolari.
La millenaria durata dell'impero, le sue magnifiche riprese dopo periodi di collasso e di guerre civili, si devono in massima parte alla sapiente organizzazione e al patriottismo dell'esercito. Ad esso rivolsero le loro principali cure i migliori imperatori e specialmente gli Isaurici, i Macedonici e, più tardi, i Comneni. "L'esercito - lasciò scritto uno di essi - è per lo stato ciò che la testa è per il corpo umano. Se si trascura, la salvezza stessa dell'impero viene compromessa." Se si guarda alla sua composizione, sembra che esso non possa formare un tutto organico. Nell'impero, come del resto in tutti gli stati dell'Europa medievale, non esisteva un vero e proprio servizio militare obbligatorio. Base del reclutamento era il volontarismo mercenario. Ma ecco ora una delle caratteristiche dell'esercito bizantino: in esso, per quanto numerosi fossero i mercenarî, cioè Unni, Vandali, Goti, Longobardi, Gepidi fra il sec. VI e l'VIII, Cazari, Bulgari, Pecceneghi, Vareghi, Russi, Normanni, Arabi nei sec. IX-XII, pure l'elemento nazionale costituì sempre il nucleo fondamentale e sudditi dell'impero furono quasi semprc i supremi comandanti, a partire dal sec. VI. Alcune provincie, specialmente la Tracia, la Cappadocia, l'Isauria, l'Armenia, fornirono sempre soldati e generali ammirevoli, dando un'unità spirituale all'esercito. Gl'imperatori poi, per assicurarsi la fedeltà dei mercenarî, qualunque fosse la loro provenienza, e per interessarli alla difesa dello stato non solo rimuneravano bene il loro servizio, ma concedevano loro anche delle terre demaniali in beneficio, stanziandoli in qualità di piccoli proprietarî nelle provincie più esposte. Col tempo gli stranieri diventavano bizantini ed erano animati da sentimenti religiosi e patriottici non meno fervidi che gli abitanti originarî del paese. I contingenti dell'esercito bizantino non furono mai molto elevati. Nel sec. VI Belisario aveva fatto le campagne d'Africa e d'Italia con non più di 30.00 uomini. Nel sec. X lo scrittore arabo Ibn Khordādbeh calcolava a 120.000 uomini le forze bizantine; raramente s'intrapresero spedizioni con contingenti superiori a 40-45 mila uomini. Ma erano tutte milizie bene armate e addestrate. L'arma principale era la cavalleria, divisa in due corpi: quello dei catafratti, coperti di pesanti armature, e quello dei trapeziti, armati alla leggiera. Venivano quindi i pedoni provvisti di pesanti scudi. L'istruzione militare e la preparazione morale erano curate meticolosamente. In nulla, come nell'esercito, si conservò la tradizione romana. Alla foga disordinata dei nemici i Bizantini opponevano la disciplina. "Non c'è che la gente inesperta - scrive l'imperatore Leone VI nel suo trattato Tactica - che possa credere che una guerra si decida per la superiorità nurmerica e per il coraggio cieco nella batiaglia; con l'aiuto di Dio, è necessaria, per condurla a buon fine, un'arte superiore, un'alta intelligenza nei capi, e la forza morale delle truppe". L'arte della guerra è considerata già in Bisanzio come una scienza, al servizio della quale dovevano entrare non solo una savia pratica amministrativa con tutto ciò che si riferisce ai servizî logistici, ma anche la meccanica per l'uso delle armi d'assedio, la medicina, la meteorologia. Il patriottismo fu tenuto sveglio e stimolato sempre con i ricordi della grandezza antica romana e col sentimento religioso. Niceforo Foca andò in questo tant'oltre, da proporre a un concilio che la chiesa considerasse e proclamasse martiri della religione i soldati caduti in guerra. La proposta venne respinta; ma le legioni bizantine furono dagl'imperatori e dal popolo considerate "sante legioni"; e le guerre che combatterono ebbero quasi sempre il carattere di crociate per la difesa del "santo impero" e della fede cristiana nel mondo.
Se la forza e la sicurezza dell'impero erano fondate sull'esercito e sull'amministrazione, la sua prosperità dipendeva dalla notevole attività economica dei cittadini. La fertilità di alcune provincie, come l'Italia meridionale, la Tracia, la Grecia, la Cilicia, la Cappadocia; la varietà dei prodotti del suolo; la situazione geografica dell'impero, posto nel punto centrale delle vie che necessariamente doveva seguire il commercio mondiale; l'abbondanza di città e di porti capaci, come Costantinopoli, Salonicco, Tarso, Adalia, Smirne, Trebisonda, Cherson, Pireo, Corinto, Patrasso, Durazzo, Bari, Napoli, Amalfi; i contatti immediati, da un lato con gli Arabi, dall'altro col mondo slavo e con l'Occidente latino, consentivano un imponente sviluppo d'attività e di ricchezza. I basileis non si disinteressarono mai della vita economica e cercarono di regoiarla. Il loro intervento non fu sempre utile, poiché spesso, più che stimolare l'iniziativa e il lavoro dei cittadini, si proponeva d'impinguare il fisco; ma, nel complesso, si può affermare che, nell'impero d'Oriente, l'agricoltura, l'industria e il commercio furono dal governo meglio tutelati e promossi che nel resto dell'Europa. Ma base della vita economica dell'impero fu sempre l'agricoltura. A questa volsero principalmente le loro cure i basileis. Dicemmo come agli Isaurici si debba il primo codice rurale. Un imperatore del sec. X scriveva, raccomandando ai governatori di tutelare i lavoratori dei campi contro le vessazioni dei signori: "Due cose sono necessarie alla conservazione dello stato: l'agricoltura che nutrisce i soldati, e l'arte militare che protegge gli agricoltori. Tutte le altre professioni sono inferiori a queste". L'agricoltura fu promossa in tutti i modi: prima di tutto, con la colonizzazione interna. Come abbiamo visto, gl'imperatori, per facilitare il reclutamento dell'esercito, concessero ai soldati appezzamenti di terreni demaniali. Questi si trasmettevano di padre in figlio e diventavano inalienabili; ma erano sottoposti alla sorveglianza del governo. I beneficiarî poi, oltre all'obbligo del servizio militare, avevano quello di lavorare la terra. Non si conosce il numero di questi benefici; ma doveva essere elevatissimo. Nel sec. VII, furono fissati nella Tracia, nell'Epiro, nel Peloponneso, circa 12.000 siriaci, i Mirditi del Libano, valorosi soldati. Al tempo di Giustiniano II, 70.000 Slavi furono stanziati nella Macedonia e in Asia. In alcuni temi, si contavano fino a 4000 proprietarî militari di "terre imperiali". Il suolo, disertato nei periodi d'invasioni e d'incursioni nemiche, veniva in tal modo ripopolato con vantaggio dell'agricoltura. Gli imperatori presero poi energiche misure per combattere l'abbandono delle terre, colpendo di confisca quei proprietarî che lasciavano incolti i loro terreni. Nel sec. VI, essi imposero l'epibolè, per cui i detentori delle terre coltivate furono resi responsabili del pagamento delle imposte che colpivano le terre abbandonate, in modo da costringere i contribuenti a dissodarle. L'epibolè si mantenne fino al sec. X. In questo tempo il problema che più attrasse l'attenzione del governo bizantino fu la sempre maggior diffusione che andava prendendo il latifondo.
La tendenza alla concentrazione delle terre nelle mani di pochi non fu particolare dell'Europa romano-germanica, fra i secoli VI-XI. Essa si manifestò anche in Oriente. Ma qui, gl'imperatori reagirono con più energia e fermezza che non in Occidente i Carolingi e i Sassoni. Abbiamo già ricordato come, nel sec. VIII, gli Isaurici avessero tentato, riuscendovi in gran parte, di fiaccare la potenza dei monaci, colpendoli nei loro beni. Dagl'imperatori della dinastia armeno-macedonica la lotta fu estesa anche ai signori secolari, alcuni dei quali, come i Foca, gli Scleros, i Comneni, i Duca, avevano esteso talmente i loro dominî da costituire un pericolo sociale e politico, poiché da un lato tendevano ad annullare la piccola proprietà, dall'altro a limitare i poteri statali, usurpando, nei loro possessi, i diritti di sovranità. Basilio I emanò una serie di provvedimenti in difesa della piccola proprietà e stabilì che lo stato concorresse alle spese processuali nelle cause intentate dai piccoli proprietarî contro le usurpazioni dei potenti. I suoi successori ne continuarono l'opera, colpendo con leggi e con confische, spesso arbitrarie e illegali, la grande proprietà secolare ed ecclesiastica. Leone VI, con legge del 912, vietava ai nobili l'acquisto di beni immobili appartenenti a piccoli proprietarî o a militari, nelle circoscrizioni dove essi non avevano il loro domicilio. Non essendo stato rispettato questo decreto, nel 947 Costantino VII ordinò la confisca, senza indennità, di tutti i beni acquistati fino allora, contro le disposizioni della legge del 912. Niceforo Foca, appartenente a una delle più potenti famiglie asiatiche, si mostrò più remissivo, salvo che verso i beni ecclesiastici; ma Basilio II, che al suo avvento al trono dovette lottare contro i Foca e gli Scleros, procedette con spietata energia. Attraversando una volta la Cappadocia, egli s'imbatté in un ricco proprietario che da solo poté ospitare lui e tutto l'esercito. Il monarca ne fu così impressionato che, di ritorno a Costantinopoli, invitò a sua volta l'ospite cappadocico, lo tenne sotto sorveglianza e ne confiscò tutti i possedimenti. Fu questo il sistema favorito di Basilio II. Nonostante però le leggi di eccezione, nonostante le confische, la grande proprietà non scomparve. Ma l'azione energica di questi imperatori non fu vana; essa impedi che la piccola proprietà fosse totalmente inghiottita dai latifondi e che i potenti acquistassero, come i feudatarî d'Occidente, l'indipendenza politica.
Il lavoro industriale e il commercio erano minuziosamente regolati dal governo. Mentre, nell'Occidente, l'economia urbana aveva avuto un grave colpo, nell'Oriente bizantino la città rimase sempre un focolare di attività industriale. Bisanzio mantenne e sviluppò il sistema delle corporazioni (scholae, systemata), avuto in retaggio dall'impero romano. Le Novelle dei basileis e il Libro del Prefetto, compilato nel sec. X, ci mostrano quali fossero allora il numero e l'attività, di queste corporazioni. "Esse raggruppavano a un tempo gl'industriali e i commercianti. I notai figurano accanto ai banchieri, ai cambiatori, ai giocolieri; i mercanti di spezie accanto ai beccai, salumai, fornai, vinai; i profumieri e i fabbricanti di cera accanto ai tintori, ai saponai. Le più numerose sono le corporazioni dell'industria tessile, dei mercanti di seta greggia, dei filatori e dei tintori di seta, dei lanaioli, dei mercanti di stoffe preziose. Alcune professioni, come quella dei fabbri ferrai, dei pittori, dei mosaicisti, dei marmorarî, sono riunite in associazioni non privilegiate. Vi sono inoltre manifatture di stato dove si produce unicamente per l'esercito e per la casa imperiale" (P. Boissonade, Le travail dans l'Europe chrétienne au Moyen Âge, Parigi 1921, p. 58). Le corporazioni erano poste sotto l'autorità e il controllo del prefetto della città che ne regolava il funzionamento e la produzione, e godevano di estesi privilegi.
Il commercio non era del tutto libero. Oltre che a riservarsi il monopolio di alcune derrate, come i cereali e il sale, il governo bizantino mirò sempre a ricavare i massimi profitti dal traffico. La sua fu una politica di monopolio e di protezione fiscale che, se giovò a volte all'erario, nocque alla prosperità dei cittadini. Pure, erano tali e così apprezzati i suoi prodotti industriali, specialmente quelli di lusso (tessuti di seta, broccati, oreficerie, lavori in smalto e in avorio, mosaici, ecc.), ed era così centrale la posizione delle sue città, che in ogni tempo il commercio dell'impero fu intensissimo. I prodotti della Cina e dell'India, seguissero essi la via marittima fino al Golfo Persico, o le vie terrestri attraverso l'Asia anteriore, il Turkestan e la Russia meridionale, sboccavano nei porti bizantini della Siria, dell'Anatolia, del Mar Nero. Da questi porti poi si distribuivano verso l'Occidente. Non tutto il commercio era in mano dei Greci. Rivali temibili e fortunati erano nell'Asia gli Arabi e i Turchi che dominavano le vie carovaniere dell'India, del Turkestan, della Caldea, della Persia e della Mesopotamia; nel Mediterraneo, gl'Italiani, specialmente Amalfitani, Baresi, Veneziani, Pisani, Genovesi. Tuttavia, fino al sec. XI, i Greci mantennero il sopravvento sui loro concorrenti.
Fu questo il periodo di massima potenza e floridezza per l'Impero d'Oriente. I suoi confini, per le vittorie di Basilio II, avevano oltrepassato nell'Illiria e nell'Asia quelli raggiunti al tempo di Giustiniano. I suoi porti rigurgitavano di navi e di mercanti di ogni parte del mondo: Siriaci, Arabi, Egiziani che vi apportavano le spezie e gli aromi dell'Estremo Oriente; Russi che vi vendevano pellicce, pesce salato, caviale; Bulgari, Latini, Germani che venivano a scambiare i loro prodotti. Nella sola Costantinopoli, si calcola che, su una popolazione di circa 700.000 persone, vi fossero almeno 70.000 stranieri. Le più numerose colonie erano quelle dei Bulgari, degli Armeni, dei Veneziani i quali ultimi godevano di speciali diritti commerciali ed erano stanziati in un quartiere sul Corno d'Oro con chiesa propria e proprî fondachi e notari, sotto l'autorità di un console o bailo. A questi stranieri, Bisanzio, per la ricchezza e la bellezza delle sue chiese e dei suoi palazzi, per la magnificenza delle cerimonie imperiali, per l'intenso ritmo della sua vita economica, appariva come la più maravigliosa città che esistesse. E tale era veramente. Essa dominava non soltanto con la forza delle armi ma anche con quella dello spirito. L'influsso della sua arte e della sua cultura, che già era penetrato a fondo nell'Italia meridionale e fra i Bulgari, i Serbi, i Daco-romani della regione carpatica, che conservavano quasi intatto il patrimonio della tradizione romana, ora si estese nella Georgia, nella Caucasia e specialmente fra i Russi, per la conversione al cristianesimo ortodosso della zarina Olga, vedova del principe di Kiev, Igor, venuta a ricevere il battesimo in Costantinopoli, e per il matrimonio del principe Vladimiro, figlio di Svjatoslav, con Anna sorella di Basilio II. In questa irradiazione della sua arte e della sua cultura in tutto l'Oriente cristiano slavo-asiatico, Bisanzio continuò e completò l'opera di universalità iniziata da Roma nel mondo.
III. La decadenza e la rovina dell'impero (1025-1453). - Dalla morte di Basilio II all'avvento dei Comneni (1025-1081). Pochi periodi nella storia dimostrano in modo così evidente come questo, quanto la sorte degli stati sia legata alla capacità degli uomini che li governano. Fino a Basilio II, il governo fu in mano di uomini di eccezionale energia e l'impero raggiunse l'apice della sua potenza. Morto Basilio, gli successero il fratello Costantino VIII (1025-1028), poi le figlie di costui: Zoe (1028-1050), la quale elevò al trono successivamente tre mariti e un figlio adottivo - Romano III (1028-1034), Michele IV (1034-1041), Michele V Calafate (1041-1042), Costantino IX Monomaco (1042-1054) - e Teodora (1054-56), principi inetti, e si cadde nell'impotenza e nell'anarchia. Il frutto di tanti anni di legittimismo fu perduto e all'estinzione della dinastia macedonica successero venticinque anni di torbidi e di rivoluzioni dinastiche, che finirono per togliere ogni autorità alla monarchia. Dal 1056 al 1081, sei imperatori passarono sul trono, senza che nessuno avesse il tempo di consolidare la sua posizione e di provvedere efficacemente alla difesa dello stato. Portati su da rivolte militari o civili, essi erano costretti ad abdicare o venivano abbattuti appena tentavano di restaurare il prestigio del governo. Le questioni sociali e religiose, che i precedenti basileis avevano saputo dominare, subordinando gl'interessi dell'aristocrazia e della chiesa a quelli dello stato, ora presero il sopravvento. L'aristocrazia latifondista si rifece dei danni sofferti e acquistò tanta potenza da diventare arbitra della monarchia; il patriarca Cerulario, riprendendo il programma di Fozio, pur contro la volontà dell'imperatore Costantino IX, poté nel 1054 provocare la definitiva rottura con Roma; donde conseguenze nefaste per l'impero; poiché la scissione religiosa, se da un lato dava alla chiesa greco-ortodossa la sua piena autonomia, dall'altro rendeva più profondo e inconciliabile l'antagonismo fra Latini e Greci. La prima e immediata conseguenza fu la perdita dell'Italia bizantina.
L'anarchia interna fiaccò la forza di resistenza dell'impero, di fronte ai nemici esterni. Costantinopoli si mostrò da allora impotente non solo a mantenere le conquiste recenti, ma a difendere anche le antiche provincie. E queste furono una dopo l'altra perdute. Vinti i Bulgari e gli Arabi, nuovi e più formidabili nemici scesero in campo contro l'impero: in Occidente i Veneziani e i Normanni; in Oriente i Turchi. I Veneziani, già sudditi dei basileis, si erano nel sec. X affrancati da ogni dipendenza e ora venivano imponendo la loro sovranità sulle città costiere della Dalmazia e sulle isole dell'Adriatico: Zara, Spalato, Traù, Ragusa, Ossero, Arbe, Veglia erano ormai in loro possesso ed essi si affacciavano sullo Ionio e sull'Egeo. Il loro movimento si conteneva ancora nel campo dell'attività economica; ma la rete d'interessi commerciali che essi venivano stendendo in Oriente doveva col tempo suscitare la gelosia e l'opposizione dei Greci e trasformare la concorrenza commerciale in una lotta politica esiziale per l'impero. Più grave e imminente era la minaccia normanna. Discesi nell'Italia meridionale, i Normanni avevano prima combattuto come mercenarî anche nelle file dell'esercito bizantino; ma venuti poi a contrasto con Giorgio Maniace, in una spedizione da lui intrapresa contro gli Arabi della Sicilia, si erano gettati sui territorî imperiali della Puglia e della Capitanata, iniziandone la conquista. Lo scisma greco, alienando a Bisanzio l'animo delle popolazioni italiane, favorì la loro avanzata. Nel 1060, cadde Troia; nel 1068, Otranto; nel 1071, Bari. L'impero perdeva in tal modo i suoi possessi d'Italia. Ma i Normanni, appena compiuta la conquista dell'Italia meridionale, si volsero all'altra sponda dell'Adriatico, col proposito di approfittare delle difficoltà in cui si trovava l'impero. Nella penisola illirica il dominio dei basileis era molto scosso. I confini fissati da Basilio II non si erano a lungo potuti mantenere sotto gli assalti dei popoli settentrionali e orientali. I Croati, che avevano riconosciuto la sovranità bizantina, se ne liberarono, costituendo, nel 1076, un regno autonomo che entrò nell'ambito della chiesa romana e della civiltà occidentale. Rovinose erano le frequenti incursioni degli Uzî o Cumani e dei Pecceneghi, popoli di origine turca, che abitavano allora nella Russia meridionale, e gli attacchi degli Ungheri che cercavano, dopo consolidate le sedi pannoniche, di estendere il loro dominio a sud dei Carpazî. Dentro i confini dello stato i Serbi e i Bulgari non si rassegnavano al giogo dei Greci. Nel 1050 i Bulgari insorsero contro Bisanzio sotto la guida di Bodin, costituendo uno stato che si mantenne fino al 1084.
Ma dove l'impero ebbe a subire le più gravi e irreparabili perdite, fu nell'Asia. Verso la metà del sec. XI, qui, al dominio degli ‛Abbāsidi si venne sostituendo quello di alcuni capi mercenarî turchi. Fra questi, acquistarono forza e autorità i discendenti di Selgiūq, Toghrul beg, Alp Arslān e Malik-Shāh, i quali, a capo della loro orda, divennero prima gli arbitri del Califfato e poi i signori dell'Asia anteriore e dell'Egitto. Abbattuta la potenza dei Gaznevidi nella Persia, i Selgiuchidi si gettarono contro l'impero bizantino. Le milizie imperiali, appoggiate alla cortina di fortezze che Basilio II aveva creato in Armenia, resistettero per alcuni anni; ma finalmente, la resistenza fu superata e, nel 1064, i Turchi s'impadronirono dell'Armenia. L'imperatore Romano IV Diogene (1067-1071) tentò di arrestare la loro marcia; ma fu sconfitto a Manzilkert e fatto prigioniero. Da allora, l'Anatolia, che costituiva la spina dorsale dell'impero, fu perduta. I Turchi occuparono gran parte della Cappadocia, della Bitinia e dell'Isauria, spingendosi fino a Nicea e a Crisopoli, che cadde in loro potere nel 1079. Iconio divenne sede di un sultanato che abbracciava quasi tutta l'Asia Minore e che fu quindi detto di Rūm, cioè del paese dei Romani. I basileis non si mantennero se non in alcune città della costa del Mar Nero e dell'Egeo.
L'impero era ridotto quasi soltanto alla Tracia, alla Macedonia, alla Grecia, alle isole e a qualche tratto della costa anatolica, quando, nel 1081, una nuova rivoluzione, abbattuto Niceforo III Botoniate, portò al trono Alessio Comneno.
I Comneni e gli Angeli. La conquista latina di Costantinopoli (1081-1204). - Con Alessio I Comneno, perveniva al potere un uomo di non comune valore e abilità. In trentasette anni di regno (1081-1118), egli lottò con energia e non senza successi contro i nemici esterni e interni dello stato. Certo egli non riusci né a recuperare i territori perduti né a domare la potenza della feudalità, fattore principale della disgregazione interna. Erano ormai esaurite le riserve di energie nell'impero, non potendo l'elemento greco della capitale e della penisola ellenica compensare la perdita dell'Anatolia. Ma ad Alessio si deve se i nemici esterni furono fermati e anche costretti a indietreggiare, tanto in Asia quanto in Europa; a lui se il prestigio della monarchia fu restaurato, tanto da potersi trasmettere la dignità imperiale regolarmente fra i membri della sua famiglia per un periodo di cento anni.
Appena salito al trono, Alessio si volse contro i Normanni i quali, appunto in quell'anno, sbarcati a Vallona, si erano avanzati su Durazzo e ora l'assediavano. La sorte delle armi gli fu sfavorevole. Un esercito da lui inviato al comando di Giorgio Paleologo fu sconfitto a Farsalo (1081) ed egli stesso fu battuto presso Durazzo, che cadde in mano di Roberto il Guiscardo (1082). Ma la campagna alla fine si risolvette in suo favore, avendo egli indotto i Veneziani, mercé la concessione di privilegi commerciali, a unirsi a lui nella lotta contro i Normanni. Nel 1085, mentre Boemondo si spingeva nella Macedonia e nella Tessaglia fino a Larissa, i Veneziani distrussero la flotta normanna, rendendo precaria la posizione dell'esercito terrestre. Questo e la morte di Roberto il Guiscardo indussero Boemondo alla pace, in forza della quale Durazzo e l'Epiro tornarono in possesso di Bisanzio. Un nuovo tentativo fatto nel 1108 da Boemondo ebbe l'identico esito, per l'intervento di Venezia che, a combattere l'espansione dei Normanni nella Balcania, era spinta non solo dai vantaggi che le concessioni imperiali assicuravano al suo commercio nel Levante, ma anche e specialmente dalla necessità di impedire che le due sponde del basso Adriatico cadessero sotto il controllo di una stessa potenza e quindi fosse pregiudicata la libertà della sua navigazione col Levante. Come i Normanni furono vinti con l'aiuto dei Veneziani, così, nella stessa Balcania, il pericolo dei Pecceneghi fu scongiurato mercé l'aiuto dei Cumani. In quest'arte di opporre nemici a nemici Bisanzio era stata sempre abilissima; ma ora Alessio I divenne maestro. Questi due popoli erano, da qualche tempo, diventati una piaga per l'impero con le loro frequenti incursioni, favorite dallo stato di rivolta in cui si trovava spesso la Bulgaria e dalle agitazioni che nella Tracia provocavano gli eretici della setta dei Bogomili, allora molto numerosi in quella regione. Furono questi eretici che nel 1084 chiesero l'intervento dei Pecceneghi.
Per alcuni anni, le milizie imperiali subirono rovescio su rovescio e i barbari si avanzarono fino a Tessalonica. Lo stesso Alessio, avanzatosi contro di loro fino a Silistria nel 1088, riportò una grave sconfitta. Fu solo quando la diplomazia bizantina riuscì a guadagnare a sé i Cumani, mercé il pagamento di una grossa somma di denaro, che i Pecceneghi poterono essere sopraffatti nella sanguinosa battaglia sulle rive del Lebornion (aprile 1091). Per molti anni, essi si tennero lontani dai confini danubiani.
Le esigenze della lotta contro i Normanni e i Pecceneghi impedirono che, nei primi anni del suo regno, Alessio I difendesse efficacemente i territorî che Bisanzio possedeva ancora in Asia. E i Turchi ne approfittarono per estendere i loro dominî, cacciando i Greci dalle coste anatoliche. Nel 1092 morì il sultano Malikshāh. L'impero dei Selgiuchidi si scisse allora in parecchi emirati. Ma questo non giovò ai Greci, i quali invano tentarono di approfittare dei disordini scoppiati in Asia per riprendere le posizioni perdute poco prima.
Alessio allora ricorse allo stesso sistema adoperato nella Balcania contro i Normanni e i Pecceneghi e invocò l'aiuto dell'Occidente latino contro i Turchi musulmani dell'Asia. Il più recente storico d'Alessio, per scagionarlo dalle accuse di perfidia che i Crociati gli mossero per il modo come egli li accolse a Costantinopoli, ha tentato di dimostrare che, contrariamente a quanto afferma la tradizione, non ci fu un vero e proprio appello del basileus all'Occidente (v. F. Chalandon, Essai sur le règne d'Alexis I Comnène, Parigi 1900, p. 155 segg.). Ma la dimostrazione non convince. Certo, la prima crociata non fu intrapresa per l'appello d'Alessio. Essa ebbe moventi molto più profondi e complessi che non fosse il desiderio d'aiutare l'imperatore bizantino; ma che questi pensasse d'iniziare un'azione in grande stile contro i Turchi, servendosi di guerrieri occidentali non può mettersi in dubbio, poiché ciò risulta dalle lettere che egli scrisse al papa Urbano II e al conte di Fiandra, prima del congresso di Clermont. L'imponenza delle schiere latine passate in Oriente, i propositi di conquista manifestati dai loro condottieri, il contrasto di sentimenti scoppiato appena Greci e Latini vennero a contatto, atterrirono il basileus e forse gli fecero capire quale errore avesse commesso nell'invocare l'aiuto dell'Occidente; ma ormai il movimento si era determinato e non era più in suo potere di arrestarlo, Alessio cercò di volgerlo a suo profitto e col danaro, coi consigli, financo con la minaccia di affamarli, costrinse i Crociati a prestargli giuramento di fedeltà e a promettere di restituire all'impero le terre che essi avrebbero ritolte ai Turchi in Asia.
Parve che riuscisse nei suoi piani, poiché i Bizantini, dopo le battaglie di Nicea e Dorileo vinte dai Crociati (1097), poterono occupare una parte importante del litorale anatolico con Smirne, Efeso, Adalia, e intraprendere anche un'avanzata verso l'interno della penisola, recuperando alcune posizioni nella Bitinia e nella Cappadocia. Ma qui finirono i loro successi più diplomatici che militari, poiché i Latini, passati in Siria, tennero per sé le conquiste, fondandovi i principati di Antiochia, Edessa, Tripoli e il regno di Gerusalemme.
La situazione dell'impero, da quel momento, si venne aggravando, poiché ai nemici antichi - musulmani dell'Asia, Bulgari e Slavi della Balcania - si aggiunsero ora i Latini della Siria e della Palestina, ben più temibili dei primi in quanto che alcuni di essi, come Boemondo principe di Antiochia, erano Normanni dell'Italia che insidiavano l'impero tanto in Asia quanto nella Balcania, e tutti erano animati d'odio contro i Greci ortodossi e infidi. I rapporti coi Latini, e specialmente con la chiesa romana, coi Normanni, coi Veneziani, passano ora in prima linea nella politica dei basileis e ogni nuova crociata rappresenta un nuovo e sempre più grave pericolo per Bisanzio.
Fu una fortuna per l'impero, che i due immediati successori di Alessio, Giovanni II Comneno (1118-1143) e Manuele I Comneno (1143-1180), fossero uomini di grande valore come generali e come statisti e tenessero a lungo il potere. Essi lottarono con coraggio e senza tregua contro i nemici che diventavano di giorno in giorno più audaci e pericolosi. Non sempre furono fortunati nelle loro imprese: nel 1126, una flotta veneziana occupò Cefalonia nel 1147, rinnovatasi la guerra coi Normanni, una flotta siciliana, comandata dall'ammiraglio Cristodulo, saccheggiò le coste dell'Attica e dell'Eubea e sbarcò un reparto di truppe che si spinse fino a Tebe, centro allora fiorentissimo dell'industria della seta, la devastò, e vi catturò un gran numero di abitanti e li trasportò a Palermo dove diffusero i metodi loro per la lavorazione della seta; nel 1176, un esercito bizantino fu disfatto a Miriacefalo nella Frigia meridionale. Ma nonostante questi rovesci, sotto i due valorosi monarchi furono mantenute e in qualche settore anche ampliate le posizioni che l'impero aveva raggiunte al tempo di Alessio I; e Bisanzio ebbe una parte importante nel giuoco delle competizioni internazionali. Nell'Asia, le armi imperiali si spinsero fin sotto le mura d'Iconio; nell'Illiria, furono vinti i Magiari e tenuti in freno i Serbi; nell'Occidente, durante la lotta fra il papa Alessandro III e i Comuni italiani da un lato e Federico Barbarossa dall'altro, i Greci poterono anche rimettere il piede in Italia occupando - sebbene per poco - Ancona. Ma appena morto Manuele, con Alessio II (1180-1183), fanciullo, la situazione precipitò verso la rovina. Si rese allora manifesto che soltanto il valore personale dei tre precedenti sovrani aveva sostenuto l'impero. Nessuna forza reattiva esisteva nella capitale e nelle provincie, contro i mali che minavano dall'interno e dall'esterno lo stato: l'aristocrazia era egoista, il popolo fiacco e turbolento, l'esercito senza più l'antica coesione. Ricominciarono le rivolte militari, i colpi di stato, e le agitazioni popolari. La dinastia dei Comneni cadde tragicamente. Nel 1183, il giovane Alessio II fu trucidato dallo zio Andronico I che già si era impadronito del potere come reggente; ma due anni dopo, Andronico fu abbattuto da Isacco Angelo. Dalla strage che seguì questa rivoluzione si salvarono due nipoti di Andronico, i quali, raccolti da una zia materna che regnava nell'Iberia caucasica, dovevano fondare il regno di Trebisonda.
Gli Angeli che ora salirono sul trono non ebbero nessuna delle qualità che avevano reso illustri i Comneni. Essi non seppero né far rispettare la loro autorità dai grandi signori, che dei loro vasti dominî costituirono veri stati, comportandovisi come sovrani; né fronteggiare i nemici esterni. Nella penisola illirica, Serbi e Bulgari insorgevano, costituendo due stati: quelli, sotto Stefano Nemanja che estendeva la sua autorità sulla Rascia, sul Montenegro e sull'Erzegovina; questi, sotto i due fratelli valacchi o bulgari Pietro e Giovanni (Ivan) Asen. Particolarmente pericoloso appariva il regno bulgaro, nel quale erano uniti Bulgari e Romeni dei Carpazî. Isacco tentò di distruggerlo sul nascere; ma fu completamente battuto a Verria e ad Arcadiopolis. Sotto lo zar Ivanica o Calogiovanni (Kaloian), il nuovo regno si estese nella Macedonia e nella Tracia. Ma non da questi vicini nemici venne la rovina, sibbene dai Latini e specialmente dai Veneziani. I rapporti fra Bisanzio e Venezia, nell'ultimo secolo, si erano talmente complicati e avevano così pesato sulla politica imperiale che è necessario prenderli in particolare esame. Abbiamo già accennato come, sin dallo scoppiare delle prime ostilità fra i Normanni e i Bizantini, i Veneziani venissero in aiuto di questi, ricevendo in cambio privilegi commerciali. Essi, a poco a poco, in virtù di tali privilegi e anche per quelli che a partire dalla prima crociata ebbero dai principi latini della Siria e della Palestina, vennero stabilendo una netta egemonia commerciale in tutti i porti del Levante. Il successo li rese insolenti verso i Greci che essi consideravano come un popolo fiacco e degenerato, sì che si adoperarono non solo a mantenere ma anche ad accrescere i privilegi ottenuti. La loro invadenza determinò tale reazione nei mercanti greci che le relazioni fra le due nazioni divennero tese. I basileis, a volte, per le esigenze della lotta coi Normanni, si mostrarono concilianti e remissivi; altre volte, no. Così Giovanni Comneno tentò di abbattere la potenza veneziana, rifiutandosi di confermare al doge Domenico Michiel il crisobollo già accordato da Alessio I ed espellendo i Veneziani dal quartiere già loro concesso in Costantinopoli. I Veneziani ricorsero alla violenza. Nel 1124, di ritorno da una fortunata spedizione contro gli Egiziani in difesa dei Crociati di Terra Santa, il doge assalì e devastò Rodi, Chio, Cos, Samo, Lesbo e Modone in Morea. Il basileus, tuttavia, non si piegò e usò rappresaglie contro i mercanti veneziani. Nel 1126, pertanto, il doge ritornò all'attacco e occupò Cefalonia. Giovanni allora cedette e riconfermò il crisobollo con gli antichi privilegi. Più grave fu la lotta durante il regno di Manuele I. Alleato prima dei Veneziani e da essi soccorso nella guerra contro Ruggiero II di Sicilia, quando fu liberato da questo nemico, si volse contro di loro, risoluto a distruggerne la minacciosa potenza. Cominciò col fare larghe concessioni ai Pisani e ai Genovesi; poi, tolse ai Veneziani Spalato, Sebenico, Ragusa, e altri luoghi della Dalmazia; quindi occupò Ancona, col disegno di farne la base di operazioni contro la repubblica di S. Marco in Italia stessa. Venezia mandò a vuoto i disegni del basileus; e mentre Manuele attirava a sé, contro la rivale, Corrado di Monferrato, essa si avvicinò a Federico Barbarossa e conchiuse un accordo con Guglielmo II, re di Sicilia. Il tentativo greco di restaurazione imperiale in Italia fallì, come abbiamo già detto, anche per l'ostilità dei Veneziani; e allora, Manuele I diede sfogo al suo malanimo contro i potenti avversarî, macchiandosi di un vile tradimento. Il 12 marzo 1171, nonostante le assicurazioni date precedentemente, il basileus fece imprigionare tutti i Veneziani che si trovavano nell'impero (nella sola Costantinopoli erano 10.000) e confiscare le loro merci e i loro beni. L'emozione a Venezia fu enorme e il ricordo di questo iniquo tradimento non si cancellò mai, ispirando da allora tutta la politica veneziana nei riguardi dell'impero d'Oriente. Per rispondere alla provocazione greca, la repubblica inviò una flotta al comando del doge Vitale Michiel II (che però non riuscì a concludere nulla), spinse i Serbi contro Bisanzio, favorì la politica antigreca dell'imperatore tedesco, strinse una nuova alleanza con Guglielmo II di Sicilia. Per quattro anni, Manuele resistette agli assalti e alle pressioni; finalmente, nel 1176, minacciato dalla coalizione veneto-normanna, venne a patti, rinnovando ai Veneziani gli antichi privilegi e impegnandosi a pagare un milione e mezzo di ducati (che naturalmente non vennero mai pagati), quale indennità per i danni inflitti ai sudditi della repubblica. Ma la contesa, composta allora, riarse più ardente che mai negli anni seguenti e culminò nella strage che la plebaglia di Costantinopoli e delle provincie fece dei Latini, e specialmente dei Veneziani risiedenti nell'impero, nel 1182, per eccitamento di Andronico Comneno che a questo modo credette di svegliare nei Greci il sentimento nazionale. Quella strage colmò la misura. I Veneziani, da quel momento, non mirarono se non alla distruzione dell'impero bizantino e in questo disegno sapevano di trovare consensi in tutto l'Occidente: tanto e così forte Era ormai l'odio che i contrasti politici ed economici e la divergenza di confessione religiosa avevano acceso fra Latini e Greci. E quello che non era ancora riuscito né ai Turchi, né ai Bulgari, né ai Normanni, né agli Svevi succeduti nella Sicilia agli Altavilla, riuscì a Venezia; responsabili ne furono gli stessi Bizantini.
RANDE LETT-B 32esimo 42
Isacco Angelo, dopo dieci anni di un regno imbelle, fu detronizzato dal proprio fratello Alessio III e, acciecato, gettato in prigione insieme col suo giovane figlio Alessio. Alessio III aveva potuto compiere la rivolta contro il fratello a causa del malcontento generale. Ma il suo governo non migliorò la situazione. Il popolo era oppresso dalla nobiltà e dai funzionarî, l'esercito demoralizzato per le sconfitte sofferte in Asia da parte dei Turchi, e nella Balcania da parte dei Bulgari. Nel 1201, il figlio d'Isacco riuscì a fuggire dalla prigione e a riparare in Italia. Egli si mise in cerca di aiuti contro lo zio usurpatore e li trovò in quelli che erano i più irreconciliabili nemici di Bisanzio. Era il momento in cui i cavalieri della IV crociata, promossa da Innocenzo III, si trovavano sotto Zara, per risottometterla al dominio veneziano. I Veneziani avevano in mano quei prodi cavalieri e, quando furono dal giovane Alessio richiesti di aiuto, acconsentirono di liberare Isacco dalla prigionia e rimetterlo sul trono. Pensavano già allora di approfittare della loro entrata in Costantinopoli, per vendicare i passati tradimenti dei Greci? Può darsi. Certo è però che la spedizione ebbe sviluppi che in quel momento nessuno poteva prevedere. I Crociati, partiti nella primavera del 1203, si diressero, contro il volere del papa, su Costantinopoli. Guidava la flotta il doge Enrico Dandolo che, nella strage del 1182, era stato gravemente ferito alla testa sì da perdere quasi del tutto la vista. E li accompagnava Alessio. La città fu presa facilmente ed Isacco fu rimesso sul trono, insieme col figlio Alessio IV. Ma questo non fu se non il primo atto del dramma. Secondo gli accordi già precedentemente stipulati da Alessio, i Crociati, dopo la vittoria, dovevano avere aiuti in uomini e denaro per proseguire la spedizione. Gli aiuti non si poterono o non si vollero dare e allora i Crociati s'installarono da padroni in Bisanzio. Il loro contegno provocò nel gennaio 1204 una rivoluzione popolare. Molti Latini furono uccisi; Isacco e Alessio IV furono rovesciati e fu acclamato basileus Alessio V Murzuflo. Ma la risposta venne subito. La città fu assediata per terra e per mare e il 12 aprile presa d'assalto e saccheggiata orrendamente. Statue, arredi sacri, stoffe preziose, reliquie di santi, tutto fu predato dai cavalieri crociati e dai Veneziani, per adornare i loro castelli e la loro città. Sanguinosa fu la strage e non si rispettarono né donne né bambini, come non si erano risparmiati nel tradimento del 1182, che era ancor vivo nel ricordo e che si volle ora vendicare. Alessio V e i più cospicui cittadini, fra i quali Teodoro Lascaris, che nel momento della strage il senato e il patriarca avevano acclamato imperatore, presero la fuga riparando sulla costa asiatica del Bosforo.
Dalla conquista latina alla restaurazione greca (1204-1261). - Nella città conquistata, i Latini proclamarono imperatore uno di loro, Baldovino di Fiandra; e al seggio patriarcale fu elevato il veneziano Tommaso Morosini. Ma che valore potevano avere queste elezioni, quando, prima ancora di conquistarli, i Crociati si dividevano i territorî dell'impero e l'autorità religiosa del patriarca cattolico non era riconosciuta dai fedeli ortodossi? In realtà, nel 1204 l'impero bizantino fu distrutto e sulle sue rovine sorsero numerosi stati latini e greci. In virtù di un accordo stipulato fra Crociati e Veneziani sin dal marzo e poi più volte rimaneggiato, Baldovino ebbe soltanto la capitale, ma non tutta; parte della Tracia con Adrianopoli, le isole di Samotracia, di Cos, di Lesbo, di Samo e di Chio e l'alta sovranità su tutti i principi latini: sovranità però che rimase sempre un pio desiderio. Il marchese Bonifacio del Monferrato, insieme col titolo di re, ricevette Salonicco e la Macedonia, alla quale poco dopo egli aggiunse la Tessaglia. I Veneziani s'insediarono nei punti più importanti per il dominio delle vie commerciali dell'Oriente; ebbero un ampio quartiere sul Corno d'Oro in Costantinopoli e poi Gallipoli, Rodosto ed Eraclea sul Mar di Marmara e sullo stretto dei Dardanelli; ebbero un gran numero di isole nell'Egeo e nello Ionio, fra le quali Negroponte e Creta; ebbero Corone e Modone nella Morea, l'Acarnania, l'Albania e i dominî bizantini della Dalmazia. Era un vasto impero coloniale che Venezia in tal modo fondava ed Enrico Dandolo, al titolo di "duca delle Venezie, dell'Istria e della Dalmazia", aggiunse ora quello di "signore di una quarta parte e mezzo dell'impero romano". Ad altri capi crociati furono assegnati i rimanenti territorî dell'Asia e dell'Europa; ma di essi solo alcuni riuscirono a prenderne possesso e costituire dei piccoli stati. Fra questi, i più importanti furono: il principato d'Acaia, fondato da Guglielmo di Champlitte e retto poi dai Villehardouin, che lo mantennero fino al 1278; e il ducato d'Atene. che appartenne prima ai La Roche, poi ai Catalani e in ultimo ai fiorentini Acciaioli, i quali ne conservarono il possesso fino alla conquista turca (1456). Nei rimanenti territorî dell'Europa e nell'Asia, i Greci conservarono la loro indipendenza. Ma, nel disordine seguito al crollo dell'impero, essi non si tennero uniti e, come i Latini, formarono numerosi stati. Nella lontana Cappadocia pontica, i due fratelli Comneni, Alessio e Davide, nipoti d'Andronico, i quali avevano trovato un rifugio nell'Iberia, fondarono il regno di Trebisonda; nell'Anatolia, Teodoro Lascaris, genero di Alessio III, raccoglieva intorno a sé il senato, l'alto clero e la nobiltà bizantina e si faceva incoronare "imperatore dei Romani" in Nicea; nell'Epiro, Michele Angelo Comneno, un bastardo della casa degli Angeli, fondava un despotato estendentesi da Naupatto a Durazzo e si atteggiava a successore dei basileis; piccole signorie si formavano a Rodi, a Filadelfia, ad Argo e Corinto e in altre parti dell'impero.
Tutta la storia dal 1204 al 1261 è determinata dalla lotta dell'elemento greco contro i Latini, per eliminarli dall'Oriente bizantino e restaurare l'impero. Questa lotta fu condotta principalmente dai despoti d'Epiro e dagl'imperatori di Nicea, poiché i Comneni di Trebisonda furono messi presto fuori d'ogni possibilità di aspirare a Costantinopoli, sia perché troppo impegnati nella guerra contro i Turchi, sia perché la via del Bosforo fu loro sbarrata dai sovrani di Nicea, sia finalmente, perché essi si appoggiavano a elementi non greci. Ed ora è appunto il sentimento e il patriottismo greco che agisce come forza politica; sentimento risvegliatosi per reazione contro il dominio politico e contro l'imposizione cattolica dei Latini. Da principio parve che i despoti d'Epiro dovessero prendere il sopravvento. Michele Angelo Comneno (1205-1214) seppe magnificamente organizzare il suo nuovo stato e fortificarlo, armando gli Schipetari dell'Epiro, donde poté con successo tenere lontani i Veneziani, e i montanari dell'Etolia, dell'Acarnania e della Macedonia. Di queste forze trasse profitto il suo fratello e successore Teodoro (1214-1230), iniziando una grande offensiva contro i Latini. Ai Veneziani tolse Durazzo e Corfù, sconfisse l'esercito dell'imperatore Roberts di Courtenay (1221-1228) e occupò la Tracia fino al Mar Nero, la Tessaglia e la Macedonia, entrando in Tessalonica dove, fra l'entusiasmo dei Greci, si fece incoronare imperatore. Sembrava che egli fosse destinato a metter fine al dominio latino su Costantinopoli, quando, venuto a conflitto col re dei Bulgari Giovanni (Ivan) II Asen, fu completamente disfatto nella battaglia di Klokotnica, fatto prigioniero e acciecato (1230). Riebbe la libertà, ma dovette rinunziare a gran parte delle sue conquiste e al trono. Sullo stato così ridotto si disputarono il potere Manuele e Giovanni, questi figlio, quello fratello di Teodoro. Nella guerra civile intervenne l'imperatore di Nicea, il quale s'impadronì di Salonicco e costrinse Giovanni, prevalso sullo zio, a rinunziare al titolo di basileus e a dichiararsi suo vassallo. La potenza del despotato d'Epiro andò da allora declinando rapidamente e le speranze del mondo greco si volsero verso l'impero di Nicea.
Questo rappresentava veramente la tradizione bizantina, non solo perché il suo fondatore, Teodoro Lascaris, era stato proclamato basileus in Costantinopoli nel momento in cui Alessio V, caduta la città in potere dei Crociati, fuggiva e perché accoglieva il patriarca ortodosso, il senato e gli altri dignitarî della corte imperiale; ma anche e principalmente perché era rimasto sempre in prima linea nella lotta contro i Latini. Teodoro Lascaris (1204-1222), a più riprese, era stato assalito da Enrico, fratello e successore di Baldovino, ma nonostante l'esiguità delle forze e dei mezzi di cui disponeva, nonostante che avesse contemporaneamente a combattere contro i Comneni di Trebisonda e contro i Selgiuchidi, era riuscito sempre a salvarsi. Abile diplomatico, oltre che valoroso soldato, egli si era talmente destreggiato fra tanti nemici da opporre i Bulgari ai Latini, i Selgiuchidi ai Comneni, per alleggerire di volta in volta la pressione di tutti e rifarsi delle perdite sofferte. A pezzo a pezzo, con costanza e successo, egli aveva restaurato il dominio bizantino nell'Anatolia occidentale, dal Mar di Marmara al Sangario e al Meandro. Non era riuscito a snidare dalla penisola i Latini, ma ne aveva rotto l'impeto offensivo e aveva fatto dell'impero di Nicea lo stato più organico fra quanti erano sorti dalla catastrofe del 1204. Morendo, egli lasciava un figlio ancora bambino; ma sul trono fu elevato suo genero Giovanni III Vatatze, per evitare i mali che in uno stato insidiato da nemici porta sempre un governo di reggenza. E fu una fortuna, poiché Vatatze ebbe tutte le qualità d'un vero uomo di stato. Appena pervenuto al governo, egli riprese la lotta, passando dalla difensiva all'offensiva. La sorte gli fu favorevole, poiché durante il suo lungo regno l'impero latino fu in mano di due sovrani deboli e incapaci: Roberto di Courtenay (1221-1228) e Baldovino II (1228-1261). Nel 1224 egli sconfisse i Crociati nella battaglia di Poimanenon e li ricacciò dall'Anatolia. Negli anni seguenti, in seguito a fortunate spedizioni, riprese le isole del litorale asiatico Samo, Chio, Lesbo, Cos; nel 1235, occupò Gallipoli sulla costa europea, donde si spinse nella Tracia fino ad Adrianopoli. La meta ormai non era lontana. Per raggiungerla, egli conchiuse una lega col re dei Bulgari, Giovanni II Asen, e con l'imperatore dell'Epiro, Teodoro: ma gli attacchi degli alleati contro Costantinopoli fallirono per l'intervento dei Veneziani, dei Genovesi e dei Pisani, in favore di Baldovino II. Scioltasi la lega, egli approfittò, prima, della morte dello zar bulgaro per impadronirsi di una parte della Macedonia; poi, della guerra civile fra i successori di Teodoro, per occupare Salonicco e costringere, come abbiamo già ricordato, Giovanni di Epiro a riconoscere la sua alta sovranità. Quindi riprese da solo la lotta contro i Latini. Invano Baldovino II si adoperò a suscitargli contro il sultano d'Iconio: Vatatze parò il colpo, concludendo con questo un'alleanza. L'invasione dei Mongoli, che in quel tempo si riversarono sulla Russia e sull'Asia anteriore, dove fu distrutto il califfato di Baghdād, favorì i suoi disegni, paralizzando per qualche tempo le forze dei Selgiuchidi e dei Comneni di Trebisonda. Vatatze spinse con energia la lotta nella Macedonia e nella Tracia, dove occupò Tzurulo, a poche miglia da Costantinopoli. Ma non era riservato né a lui né ai suoi di metter fine all'impero latino, omiai ridotto quasi soltanto alla capitale. Egli morì nel 1254. Il suo figlio e successore, Teodoro II Lascaris (1254-1258), si trovò impegnato in una guerra contro i Bulgari e contro Michele II, despota d'Epiro, il quale, appoggiandosi sulle bellicose popolazioni schipetare, tentò di restaurare la potenza di Teodoro. I Bulgari furono vinti nella battaglia di Rupel (1255) e costretti alla pace (1256); ma le milizie nicene, spedite contro l'epirota, subirono dei rovesci. Teodoro II, nonostante la sua malferma salute, si disponeva a intraprendere personalmente una spedizione contro il despota ribelle, quando morì. La corona passò al suo giovane figliuolo Giovanni IV Lascaris; ma una rivolta militare elevò al potere Michele Paleologo, ottimo generale, appartenente a una delle più aristocratiche famiglie bizantine. Michele esercitò il potere dapprima come reggente e col titolo di despota; ma, nel 1261, fece acciecarc e chiudere in un convento il giovane principe Lascaris e assunse il titolo e la dignità di basileus. Fu una fortuna per l'impero niceno che questa rivolta dinastica non provocasse nuovi torbidi e che l'usurpatore avesse non comuni qualità di uomo di stato. Nella Balcania, la situazione si faceva minacciosa. Michele di Epiro era riuscito a concludere un'alleanza col re di Sicilia Manfredi e col principe di Acaia Guglielmo di Villehardouin e si avanzava nella Macedonia, puntando su Tessalonica. Sembrava che egli volesse prevenire il suo rivale niceno nella marcia su Costantinopoli. Michele Paleologo prese subito l'offensiva, e, passato in Europa, inflisse al despota d'Epiro e ai suoi alleati una sanguinosa sconfitta presso Pelagonia (1259), distruggendone per sempre la potenza. Poi si volse contro Bisanzio. Baldovino II era privo di mezzi e di forze. Egli aveva fatto ripetutamente appello ai soccorsi del papa e dei principi d'Occidente, per salvare il simulacro d'impero che ancora possedeva sulle rive del Bosforo. Ma fra tutte le potenze cristiane solo Venezia era in grado dì sostenerlo. Michele Paleologo si alleò allora coi Genovesi, ai quali, col trattato di Ninfeo (1261), promise di accordare tutti i privilegi commerciali che nel passato erano stati concessi ai Veneziani. Nonostante questa lega, estremamente difficile era per i Niceni d'impadronirsi dell'inespugnabile Costantinopoli finché fosse difesa per mare dalla flotta veneziana. Il caso e il tradimento vennero in aiuto di Michele. Ai primi di luglio, il podestà veneziano Gradenigo si allontanò con le sue navi e con alcune schiere franche dal Corno d'Oro per assediare Dafnusio sulla riva asiatica del Mar Nero. Di ciò approfittò il generale greco Alessio Strategopulo, per avvicinarsi alla città. Di nottetempo, alcuni cittadini introdussero un drappello bizantino nell'interno delle mura e questo riuscì, il 25 luglio 1261, a impadronirsi della porta Selimbria. L'esercito niceno poté così entrare in Costantinopoli, dove il popolo lo accolse con incredibile entusiasmo. Si fece una strage di Latini e Baldovino II poté a stento salvarsi con la fuga. Michele Paleologo, il 15 agosto seguente, fece il suo ingresso trionfale nell'antica capitale dei basileis e fu incoronato, secondo il rito bizantino, nella chiesa di Santa Sofia.
I Paleologi. Fine dell'impero bizantino (1261-1453). Con la conquista di Costantinopoli, l'impero d'Oriente era restaurato: ma quanto diverso era da quello d'una volta e quanto mutata la sua situazione internazionale! Prima dì tutto, esso non abbracciava se non una parte dei territorî d'un tempo, e cioè: l'Anatolia occidentale; la Tracia con Adrianopoli, Seres, Mesembria e Selimbria; una parte della Macedonia con Salonicco; le penisole Calcidica e di Gallipoli e alcune isole dell'Egeo, come Rodi, Samotracia e Imbros. Sussistettero ancora, accanto all'impero: in Europa, il despotato d'Epiro, che comprendeva l'Albania meridionale e una parte dell'Etolia e aveva Giannina per capitale; il principato della Grande Valacchia, o ducato di Neopatra, come lo dissero i Latini, formato dai territorî della Tessaglia, della Pelasgia e della Locride; il ducato d'Atene; e i dominî veneziani dell'Albania e della Morea nell'Asia, il regno di Trebisonda e il sultanato d'Iconio, mentre la maggior parte delle isole dell'Egeo apparteneva ai Veneziani e ai Genovesi, i quali ultimi ora si installavano a Galata e Pera, due importanti sobborghi di Costantinopoli sul Corno d'Oro, nelle isole di Chio e di Lesbo e su alcuni punti delle coste del Mar Nero, dove fondarono fiorentissime colonie. In secondo luogo, non era animato dello spirito di una volta. L'ostilità contro i Latini aveva, senza dubbio, risvegliato nei Greci il sentimento nazionale; ma la popolazione greca non aveva le qualità forti e vigorose di quella anatolica. Per di più, essa era etnicamente disgregata per le infiltrazioni di razze straniere, come gli Schipetari dell'Epiro, gli Slavi e i Valacchi o Arumeni della Macedonia e della Tessaglia, i Bulgari della Tracia; ed economicamente impoverita, essendo i centri principali del commercio passati nelle mani dei Latini e specialmente dei Veneziani e dei Genovesi, più attivi e intraprendenti di loro. Invano i dotti si adoperarono a stimolare l'energia nazionale, esaltando la potenza del genio ellenico e vagheggiando la trasformazione dell'impero da romano-bizantino in ellenico. Una rinascita politica non ci fu. La Grecia non diede né una grande dinastia né forti soldati, come li avevano dati nei secoli precedenti l'Anatolia e l'Armenia, ma soltanto dei retori e dei politicanti astuti, i quali poterono, sì, prolungare per circa due secoli l'esistenza dell'impero, ma non poterono elevarlo al grado di grande potenza. Furono due secoli di miseria economica, di vane e sfibranti lotte interne, politiche e religiose, di sconfitte e di arretramenti dinanzi ai nemici esterni: due secoli di vera agonia, senza soste e senza grandezza. Essi corrispondono pienamente al concetto che della storia bizantina l'animosità, il piegiudizio e l'ignoranza hanno ormai reso tradizionali in Europa, con evidente ingiustizia per quanto si riferisce ai secoli precedenti.
La dignità imperiale, in questo periodo, nonostante le frequenti rivolte e le feroci tragedie di palazzo, fu sempre tenuta dai Paleologi. Fra essi, non mancarono uomini d'ingegno; ma in generale, se se ne eccettua il fondatore della dinastia, furono tutti sovrani di mediocre levatura e ciò rese sempre più grave la situazione interna e menomò la capacità di resistenza dell'impero di fronte ai nemici esterni. Michele VIII Paleologo (1261-1282) vide bene dove risiedeva al suo tempo il pericolo maggiore. I dinasti della Grecia e i Bulgari si potevano senza dubbio vincere con le forze bizantine; la loro sottomissione o la loro scomparsa sarebbe stata questione di tempo; ma l'Occidente no. E l'Occidente era in armi contro Bisanzio; Venezia e il papa parlavano d'una grande crociata, questi per restaurare il patriarca cattolico, quella per difendere la su̇a egemonia commerciale minacciata dai favori che il basileus aveva accordato ai Genovesi. A questi avversarî, a partire dal 1267, si aggiunse Carlo d'Angiò, il quale, erede, come re di Sicilia e in virtù del trattato di Viterbo, dei diritti di Baldovino II, ed alto signore, per il matrimonio di un suo figliuolo con la figlia dell'ultimo dei Villehardouin, del principato d'Acaia, tendeva, con l'impeto che caratterizza tutta la sua azione, alla conquista dell'Oriente. Iniziata subito la guerra, Carlo s'impadroniva di Corfù, lo stesso anno di Durazzo, d'una parte dell'Epiro nel 1272, e si apprestava a dare un gran colpo all'impero alleandosi coi Veneziani, coi Bulgari e coi Serbi, il cui re aveva sposato una figlia di Baldovino II. Michele VIII, con grande abilità, seppe allora stornare il pericolo, avvicinandosi al papa Gregorio X. Al concilio di Lione (1274), il gran logoteta, Giorgio Acropolita, in nome dell'imperatore, riconobbe la supremazia del pontefice sulla chiesa ortodossa e Gregorio X s'impegnò a impedire che i Latini sostenessero Carlo d'Angiò nella sua campagna contro Bisanzio. Fu questo un colpo da maestro di Michele VIII, poiché il re di Sicilia soltanto per l'appoggio della chiesa aveva potuto intraprendere la spedizione, dandole il carattere d'una crociata contro gli "eretici ortodossi". Da quel momento, infatti, l'avanzata di Carlo fu paralizzata e i Bizantini respinsero gl'invasori nell'Epiro e riportarono successi nella Tessaglia e nel ducato di Neopatra. Disgraziatamente per l'impero, la politica d'unione della chiesa greca con la latina incontrò un'accanita resistenza nel clero e nel popolo. Michele ricorse alla violenza, deponendo successivamente tre patriarchi e condannando alla tortura i più rumorosi oppositori. Ma né le condanne né il calcolo degli evidenti vantaggi che la politica del monarca avrebbe procurato all'impero valsero a fare accettare l'unione. L'agitazione, pertanto, continuò, dando all'Occidente l'impressione d'un intensificarsi dell'ostilità greca contro i Latini. E l'Angioino speculò su questa impressione, per indurre il papa a una rottura con Bisanzio. La curia romana resistette per qualche tempo alle sue insistenze; ma quando sulla cattedra di S. Pietro salì un francese, Martino IV, avvenne la rottura. Il papa rinviò brutalmente gl'inviati di Bisanzio, accusò di doppiezza il basileus e indisse una crociata. Carlo d'Angiò riprese la spedizione. Michele VIII tenne fronte ai nemici; ma più che il suo valore, giovò all'impero la rivoluzione dei Vespri siciliani (marzo 1282) che costrinse l'Angioino a richiamare le sue forze in Italia. Michele ne approfittò per volgersi contro gli Angeli di Neopatra. Ma non poté condurre a termine l'impresa. Egli morì l'11 dicembre 1282, e con lui scompariva l'ultimo notevole imperatore di Costantinopoli. La guerra angioino-aragonese, seguita ai Vespri siciliani, fece dileguare per sempre il pericolo latino. Ma, sotto i successori di Michele VIII, due popoli si elevarono a grande potenza: i Serbi nella Balcania e i Turchi ottomani in Asia. Bisanzio poté resistere ai primi; ma cadde e per sempre, sotto l'impeto aggressivo dei Turchi.
Non è qui il luogo di diffonderci sulla storia dei Serbi (v. serbia). Ricordiamo soltanto come, nel sec. XII, il gran zupano della Rascia, Stefano Nemanja, estese la sua autorità sui Serbi della Dalmazia, dell'Erzegovina, del Montenegro e della Vecchia Serbia, gettando le basi d'una forte monarchia. Suo figlio Stefano assunse il titolo di kral e fu incoronato nel 1217 da un legato del papa come "re di Serbia, Dioclea, Tribunia e Dalmazia". I suoi successori Uroš I (1243-1276), Dragutin (1276-1282), Milutin (1282-1321), ampliarono lo stato verso la Macedonia e l'Epiro ai danni dei Bulgari, la cui potenza decadde tra la fine del sec. XIII e il sec. XIV, e dei Bizantini. L'imperatore Andronico II Paleologo (1282-1328) dovette riconoscere le conquiste da loro fatte. Le maggiori perdite l'impero sofferse sotto Andronico III (1328-1341) e Giovanni V Paleologo (1341-1391), quando il re dei Serbi, Stefano Dušan (1331-1355), si propose di riunire sotto di sé tutti i popoli della penisola e di cingere la corona imperiale in Costantinopoli. Il suo disegno ebbe un principio d'attuazione, poiché Stefano conquistò parte della Macedonia, tolse agli Angioini l'Albania e, approfittando della guerra civile che infieriva fra i partigiani di Anna di Savoia, reggente per il figlio Giovanni V, e Giovanni Cantacuzeno, che riuscì a tenere il regno col titolo di basileus fino al 1355, si fece incoronare imperatore dei Serbi e dei Romani (Greci). Completò nel 1346 la conquista della Macedonia e nel 1355 espugnava Adrianopoli. La meta ormai era vicina e le milizie serbe si accampavano a Devoli, a poche miglia da Costantinopoli, quando Stefano Dušan morì quasi improvvisamente, ancora nel vigore degli anni. Con lui, si dileguava il pericolo serbo.
Ma già i Turchi ottomani avevano messo il piede in Europa. Negli ultimi tempi, al dominio dei Selgiuchidi nell'Asia anteriore si era venuto sostituendo quello degli Ottomani. Fondatore della potenza di questi era stato Ertoghrul, il quale, combattendo per il sultano d'Iconio, ‛Alā' ad-dīn, aveva ricevuto alcuni distretti dell'Asia Minore con Eskişehir (Dorileo). I suoi successori ‛Osmān (1289-1326) e Orkhān (1326-1359) avevano ampliato le sue conquiste, sostituendosi nel sultanato ai Selgiuchidi e scacciando gradatamente i Greci dell'Anatolia. I loro progressi erano stati rapidissimi: nel 1326, era caduta Brussa; nel 1329, Nicea; nel 1337, Nicomedia. Andronico II era stato costretto a sottomettersi a tributo. In Europa, gli Osmanli furono introdotti dagli stessi Bizantini, durante le guerre civili scoppiate all'avvento di Giovanni V Paleologo. Giovanni Cantacuzeno, per guadagnare alla sua causa Orkhān, chiamato in suo aiuto da Anna di Savoia, prima gli diede in moglie una propria figliuola, poi gli cedette una fortezza sui Dardanelli. Nel 1354, i Turchi s'impadronirono di Gallipoli, assicurandosi in tal modo il passaggio dall'Asia in Europa; e da quel momento, iniziarono la conquista della Balcania e l'accerchiamento di Costantinopoli. Murād I (1359-1389), succeduto a Orkhān, conquistò la Tracia, dall'Egeo al Mar Nero e trasportò la sede del sultanato da Brussa ad Adrianopoli. I Greci ormai non erano più in grado di difendere le provincie né di rompere il cerchio che stringeva la capitale. Solo l'Europa latina avrebbe potuto salvarli. I basileis l'invocarono continuamente e Giovanni V fece il giro dell'Italia e della Francia in cerca di aiuti. Ma il papato, che solo avrebbe potuto promuovere una crociata, era allora afflitto dallo scisma d'Occidente; Venezia e Genova, che disponevano d'una flotta potente, non si preoccupavano se non dei loro commerci e si combattevano furiosamente per il possesso di qualche isola, senza prevedere che il trionfo degli Ottomani avrebbe messo fine al loro commercio e al loro dominio nel Levante. Amedeo VI di Savoia cavallerescamente intraprese una spedizione contro i Turchi e riuscì anche a snidarli da Gallipoli: ma per poco. Essi ripresero la fortezza. Vano fu un loro attacco contro Costantinopoli; ma i Serbi e i Bulgari che tentarono di arrestare la loro marcia nei Balcani furono completamente disfatti a Kosovo (1389). Nella battaglia, cadde anche Murād I; ma le sorti della Balcania ormai erano decise. Bāyazīd (1389-1402) rese tributaria la Serbia, occupò la Bulgaria, distrusse nella battaglia di Nicopoli l'esercito dei Crociati accorsi al grido del papa e dell'imperatore Sigismondo, invase e devastò la Grecia e la Morea, bloccò strettamente Costantinopoli. La grande invasione dei Mongoli guidati da Timur (Tamerlano), che allora si abbatté sull'Asia Anteriore costrinse Bāyazīd a lasciare l'Europa. Egli fu sconfitto nella battaglia d'Angora (1402) e morì pochi giorni dopo, lasciando lo stato in grande disordine; ma i Greci e gli Slavi non seppero approfittare di questa favorevole occasione o non ebbero la forza di rilevarsi dalle passate sconfitte. Manuele II Paleologo (1391-1425), invece di assalire risolutamente i Turchi, si destreggiò fra i varî contendenti alla successione di Bāyazīd, sostenendo prima Solimano, che regnava in Europa, poi, dopo la morte di questo, Maometto I che contrastò il potere a Mūsà fratello di Solimano, e finalmente Mustafà che alla morte di Maometto I tentò di allontanare dal trono il figlio di lui Murād II. Era l'antica politica del divide et impera; ma, questa volta, fu nefasta ai basileis. Murād II, prevalso su Mustafà, si volse contro l'impero e venne ad assediare Costantinopoli. La città allora non fu presa, anche perché, contro Murād, insorse in Asia un suo fratello; ma la risottomissione della Balcania fu condotta con estrema energia. I giorni dell'impero ormai erano contati. La resistenza opposta dagli Albanesi, sotto la guida dell'eroico Castriota (Scanderbeg), e dagli Ungheresi e dai Transilvani sotto quella di Giovanni Hunyadi, "il bianco cavaliere dei Valacchi", che inflisse numerose sconfitte agli eserciti ottomani, assicurò alcuni anni di tregua ai Bizantini. Si trattò allora di un intervento in grande dell'Occidente in favore di Costantinopoli. Per ottenerlo, Bessarione, uno dei più eminenti personaggi greci, sostenne il programma dell'unione della chiesa ortodossa con la chiesa cattolica. In ciò, egli si trovò d'accordo con l'imperatore Giovanni VIII (1425-1448); e l'unione fu consacrata nel concilio di Firenze (1439). Ma il clero e il popolo di Costantinopoli si mostrarono avversi all'unione e disposti a sottoporsi piuttosto al dominio turco che alla supremazia religiosa di Roma; e la grande crociata non venne. Il papa Eugenio IV riuscì tuttavia a indurre Ladislao d'Ungheria e Hunyadi a intraprendere una nuova campagna. I Turchi furono battuti a Kunovica, presso Niš (1443); ma poco dopo un esercito crociato, accompagnato dal cardinal legato Giulio Cesarini, fu sconfitto a Varna (1444). Nel 1448, Giovanni Hunyadi, alla testa di un forte esercito, invase la Serbia: ma fu arrestato a Kosovo, dove per la seconda volta i Turchi riportarono una grande vittoria. Ormai, ogni speranza di salvezza per Costantinopoli era perduta. Maometto II, succeduto al padre nel 1451, volse tutte le sue forze all'espugnazione della città. Al formidabile esercito di circa 160.000 uomini, provvisto di armi micidiali e di un cannone d'assedio, che Maometto adunò sotto le mura di Bisanzio, l'imperatore Costantino XI non poté opporre se non poche migliaia di uomini in gran parte stranieri, specialmente genovesi. Nonostante ciò, per circa due mesi, ogni attacco fu respinto. Anima della difesa furono il genovese Giustiniani e l'imperatore stesso. Fu solo quando la notte fra il 28 e il 29 maggio il Giustiniani fu gravemente ferito e si allontanò dalle mura, che i Turchi poterono superare la resistenza. Costantino XI cadde combattendo da eroe, riscattando con la sua morte la debolezza e la miseria della sua casa e salvando l'onore dell'impero. Il giorno dopo, 30 maggio 1453, sul far del mattino, Maometto II fece il suo ingresso nella città conquistata. Attraversando l'Ippodromo (l'odierna piazza Atmeidan), entrò a cavallo nella chiesa di Santa Sofia, in quel momento risonante di lamenti, di grida disperate, d'imprecazioni, di canti di vittoria. Si fece un gran silenzio e il sultano ordinò ai muezzin di invitare i fedeli alla preghiera. Egli stesso pregò. In Santa Sofia, finiva il dominio della Croce e cominciava quello della Mezzaluna. L'impero bizantino, che da dieci secoli aveva sbarrato la via all'islamismo, cessava di esistere e sulle sue rovine s'innalzava l'Impero ottomano.
Diamo qui l'elenco degl'imperatori di Bisanzio dalla morte di Teodosio I (395):
Dinastia teodosiana: Arcadio (395-408); Teodosio II (408-450); Marciano (450-547)
Dinastia trace: Leone I il Grande (457-474); Leone II (474); Zenone (474-491), Anastasio I (491-518).
Dinastia giustinianea: Giustino I (518-527); Giustiniano I (527-565); Giustino II (565-578); Tiberio II (578-582); Maurizio (582-602).
Foca (602-610).
Dinastia eracliana: Eraclio (610-641); Costantino II ed Eracleona (641); Costantino III, comunemente detto Costante II (642-668); Costantino IV (Pogonato; 668-685); Giustiniano II (Rinotmeto; 685-711).
Leonzio, usurpatore (695-698); Tiberio III, usurpatore (698-705).
Filippico (711-713); Anastasio II (713-716); Teodosio III (716-717).
Dinastia isaurica: Leone III (717-740); Costantino V (Copronimo; 740-775); Leone IV (775-780); Costantino VI (780-797); Irene (797-802).
Niceforo I (802-811); Stauracio (811); Michele I (Rangabe; 811-813); Leone V (Armeno; 813-820).
Dinastia frigia: Michele II (820-829); Teofilo (829-842); Michele III (842-867).
Dinastia macedone (armena); Basilio I (Macedone; 867-886); Leone VI il Filosofo (886-912); Costantino VII (Porfirogenito; 912-959); [Alessandro, reggente (912-913) e Romano I (Lecapeno, correggente, 919-944)]; Romano II (959-963); Basilio II (Bulgaroctono; 963-1025); Costantino VIII (1025-1028); [Niceforo Foca (correggente, 963-969); Giovanni Zimisce (usurpatore, 969-976)]; Zoe (1028-1050; [associa successiamente al trono: Romano III Argyros, 1° marito (1028-1034); Michele IV, 2° marito (1034-1041); Michele V Calafate, figlio adottivo (1041-1042); Costantino IX Monomaco, 3° marito (1042-1054]); Teodora, sorella di Zoe (1054-1056); Michele VI, designato da Teodora (1056-1057).
Isacco I (Comneno; 1057-1059); Costantino X (Ducas; 1059-1067); Romano IV (Diogene; 1067-1071), Michele VII (1071-1078); Niceforo III (Botoniate; 1078-1081).
Dinastia dei Comneni: Alessio I (Angelo: 1081-1118); Giovanni II (1118-1143); Manuele I (1143-1180); Alessio II (1180-1183); Andronico I (1183-1185).
Dinastia degli Angeli: Isacco II (Angelo; 1185-1195); Alessio III (Angelo; 1195-1203); Isacco II (per la 2ª volta) e Alessio IV (1203-1204).
Alessio V Murzuflo, antimperatore (1204).
Imperatori latini di Costantinopoli: Baldovino conte di Fiandra (1204-1205); Enrico di Fiandra (1205-1216); Pietro di Courtenay e Iolanda di Fiandra (1216-1219); Roberto di Courtenay (1221-1228); Baldovino II (1228-1261; dal 1229 al 1237 con Giovanni di Brienne).
Imperatori di N1cea: Teodoro I (Lascaris; 1206-1222); Giovanni III (Vatatze; 1222-1254); Teodoro II (Lascaris; 1254-1258); Giovanni IV (Lascaris; 1258-1259).
Michele VIII (Paleologo; 1259-1261), usurpatore.
Dinastia dei Paleologi: Michele VIII (Paleologo: 1261-1282); Andronico II (1282-1328); Andronico III (1328-1341); Giovanni V (1341-1376) [Giovanni VI Cantacuzeno, correggente (1341-1355)]; Andronico IV (1376-1379); Giovanni V, per la 2ª volta (1379-1391); [Giovanni VII Paleologo, antimperatore (1390)]; Manuele II (1391-1425); Giovanni VIII (1425-1448); Costantino XI (1448-1453)
Per la storia in particolare della chiesa bizantina e dei suoi rapporti con l'occidentale, oltre agli articoli biografici sui principali personaggi (v. fozio, michele cerulario, ecc.) e quelli dedicati a particolari controversie o punti di dottrina (arianesimo, cristologia, iconoclastia, ecc.), si veda: Costantinopoli: Patriarcato, e ortodossa, chiesa.
Le fonti della storia bizantina.
Collezioni di storici e di documenti bizantini. - Degli storici e dei cronografi bizantini esistono tre grandi collezioni: 1. Scriptores historiae byz., a cura di F. Labbe e col concorso del Ducange, del Banduri, del Combefis ecc., voll. 38, Parigi 1645-1711 (con trad. lat., commentario e note ricchissime); nuova ediz. Venezia 1729-1733, voll. 23; 2. Corpus script. hist. byz., sotto la direzione di G. B. Niebuhr, voll. 48, Bonn 1828-1897; 3. Patrologia Graeca, a cura di Migne, voll. 161, Parigi 1857-1866 (scrittori sacri e profani). Nessuna di queste collezioni contiene tutte le fonti della storia bizantina e ognuna lascia più o meno a desiderare relativamente alla correttezza del testo. Edizioni critiche di singoli storici e cronografi si trovano nella Bibliotheca Teubneriana di B. G. Teubner di Lipsia. Citiamo fra queste: gli Historici graeci minores e l'Epitome storica di Zonara a cura di Dindorf; le opere di Procopio di Cesarea a cura di Haury, le storie di Niceforo patriarca, di Teofane, di Teofilatte Simocatta, di Giorgio Monaco a cura di C. de Boor, l'Alessiade di Anna Comnena a cura di Reifferscheid, ecc. Nel 1898 l'editore Methuen di Londra iniziò una collezione di testi greci e orientali pubblicando la storia ecclesiastica di Evagrio a cura di Bidez e Parmentier. In questo campo però resta molto da fare, poiché numerosi codici greci rimangono ancora inediti nelle principali biblioteche d'Europa, specialmente in quelle di Roma, di Firenze, di Venezia, di Parigi, ecc. Preziosi sono i cataloghi di questi codici. Fra questi segnaliamo quello dei codici vaticani (in corso di pubblicazione): Bybliothecae Apostolicae Vaticanae codices manuscripti recensiti iussu Pii XI Pont. Max. praeside Aidano Gasquet O. S. B. Codices graeci: recensuerunt Iohannes Mercati Bybl. Vat. praefectus et Pius Franchi dei Cavalieri scriptor, I (codd.1-329), Roma 1923. Per quanto si riferisce a documenti è da ricordare ehe già nel 1904 al Congresso internazionale delle Accademie, tenutosi in quell'anno a Londra, il Krumbacher presentò un piano per la pubblicazione d'un Corpus di documenti bizantini, essendosene già molti pubblicati in libri e riviste varie e senza carattere continuativo e molti venendone di continuo alla luce. La proposta del Krumbacher ha già avuto un inizio di attuazione con la pubblicazione del Corpus der griechischen Urkunden des Mittelalters und der neuen Zeit, a cura delle Accademie delle scienze di Monaco e Vienna, Reihe A, Abt. I, Regesten der Kaiserrurkunden des Oströmischen Reiches, a cura di F. Dölger, I: Regesten von 565-1025, Monaco e Berlino 1924.
Fra le raccolte di documenti segnaliamo qui le più importanti aventi carattere generale, riservandoci di notare le raccolte che si riferiscono a periodi particolari o a rapporti fra Bisanzio e singole città o regioni. Esse sono: Acta et diplomata graeca, editi da F. Miklosich e J. Mu̇ller, voll. 6, Vienna 1860-1890; K.N. Sathas, Μεσαιωνικὴ βιβλιοϑήκη, voll. 7, Venezia 1872-1894; id., Μνημεῖα ‛Ελληνικῆς ιστορίας. Documents inédits relatifs à l'histoire de la Grèce au moyen-âge, voll. 9, Parigi 1880-1890. Importante la raccolta di sigilli di G. Schlumberger, Sigillographie de l'Empire byzantin, Parigi 1884. Lo studio d'insieme più importante sugli storici e sui cronisti bizantini, come in generale sulla letteratura bizantina, rimane sempre l'opera, davvero monumentale, di K. Krumbacher, Geschichte der byz. Litteratur, von Justinian bis zum Ende des Oströmischen Reichs (527-1453), 2ª ed., Monaco 1897.
Fonti per il periodo da Costantino alla morte di Eraclio (330-641). - Fra gli storici latini il più importante è Ammiano Marcellino della cui storia ci restano i libri 14-31 che abbracciano i tempi dal 353 al 378 (ed. Mommsen, in Mon. Germ. Hist., Auct. antiq., XI). Alla cronistoria appartengono il Chronicon di Cassiodoro (ed. Mommsen, ibid.) e la compilazione di Giordane, Romana et Getica (ed. Mommsen, ibid., V). Più abbondante è, per questo periodo, la letteratura storica greca. Della fine del sec. V sono: la ‛Ιστορία νέα di Zosimo, che nella parte a noi pervenuta tratta gli avvenimenti dal 270 al 410; e la storia dei proprî tempi, e specialmente degli Unni e di Attila, di Prisco. Quest'opera è perduta; ma ci rimangono ampî e preziosi brani che riguardano gli anni dal 433 al 468 (in Müller, Fragmenta Hist. Graecorum, IV). Delle storie di Esichio di Mileto, vissuto verso la metà del sec. VI, non abbiamo che qualche frammento e un lungo brano del principio del VI libro che col titolo di Πάτρια Κωνσταντινουπόλεως narra la storia di Bisanzio fino a Costantino (in Müller, op. cit.). Intera ci è pervenuta l'opera di Procopio di Cesarea, che illustra in otto libri il regno di Giustiniano: di essi i primi due contengono la storia della guerra persiana, il 3° e il 4° quella vandalica, il 5°, 6°, 7° quella gotica, l'8° una sintesi delle vicende fino al 554. Negli ultimi anni della sua vita a questi otto libri Procopio ne aggiunse un nono, che, sconosciuto ai contemporanei e nominato per la prima volta da Suida (sec. X), è stato pubblicato nel sec. XVII dall'Alamanni col titolo di Anecdota. È anche conosciuto col nome di Historia arcana. Infine Procopio scrisse un'opera sulle costruzioni di Giustiniano (Περὶ κτισμάτων). La migliore edizione delle opere procopiane è quella curata dal Haury, Lipsia 1905-1913. Dei libri della guerra gotica e degli Anecdota c'è un'edizione critica con traduzione italiana e note a cura di Domenico Comparetti, in Fonti per la storia d'Italia dell'Istituto Storico Italiano, nn. 23-25 e 61. Degli ultimi anni del regno di Giustiniano tratta l'opera di Agatia, Περὶ τῆς 'Ιουστινιανοῦ βασιλείας. Gli avvenimenti da Giustiniano ad Eraclio sono narrati da Teofilatte Simocatta (Storia, ed. C. de Boor, Lipsia 1887), da Teofane di Bisanzio e Menandro, delle cui opere però restano solo dei frammenti (in Müller, Fragm. Histor. Graec., vol. IV e Dindorf, Historici Graeci Minores), da Giovanni Malala, che scrisse una storia universale portando la narrazione fino alla fine del sec. VI (ed. Dindorf, Bonn 1831), e nel Chronicon Paschale, la cui narrazione arriva fino al 630. Eraclio non ebbe uno storico come Giustiniano. Le sue imprese vennero cantate da un poeta contemporaneo, Giorgio di Pisidia (ed. Migne, Patr. Gr., XCII), i cui varî poemetti costituiscono una quasi compiuta narrazione delle sue imprese. Notizie più organiche si trovano in Teofane (Chronographia, ed. C. de Boor), che per questo periodo costituisce la fonte narrativa più completa. Tra le fonti orientali più importanti sono da segnalare: la Storia di Eraclio del vescovo armeno Sebeos (testo armeno e trad. russa di Patkanian, Pietroburgo 1879; trad. franc. di F. Macler, Parigi 1904) nella quale, oltre alla vita di questo imperatore, sono narrati avvenimenti storici dell'Oriente fino all'avvento del califfo Mu‛āwiyah (661); e la cronica universale del copto Giovanni di Nikiu, importante specialmente per le notizie che si riferiscono al sec. VII (ed. copta e trad. franc. di Zotenberg, in Notices et Extraits des Mss. de la Bibl. Nationale, Parigi 1883).
Fonti per il periodo da Eraclio alla morte di Basilio II (641-1025). - La tendenza generale della storiografia bizantina in questo periodo è la cronistoria. Si scrivono delle storie universali dalle origini del mondo fino ai proprî tempi. Giovanni Malala ne aveva dato l'esempio; ma il tipo più perfetto di simili compilazioni fu la cronografia di Sincello e di Teofane. Di scarso o nessun valore sono le notizie che si riferiscono ai tempi passati; ma venendo ai proprî tempi, il cronista dà informazioni di prima mano che spesso sono preziosissime. Teofane scrisse una Cronografia (ed. C. de Boor, voll. 2, Lipsia 1883-1885) in continuazione di quella cominciata da Sincello e interrotta all'anno 284, portandola fino all'813: per gli avvenimenti dal regno di Eraclio a Michele I Rangabe essa è la fonte principale (da Anastasio bibliotecario, fra l'873 e l'875, ne fu fatta una versione latina che ebbe larga diffusione in Occidente). Contemporaneo di Teofane è Niceforo patriarca - il quale ci lasciò una ‛Ιστορία σύντομος - nota anche col nome di Breviarium - dove sono trattati gli anni dal 602 al 769 (ed. C. de Boor, Lipsia 1880) e una magrissima cronografia che è portata fino all'anno 829 (ibid., cfr. F. Hirsch, Byz. Studien, Lipsia 1876, pp. 17-127). La cronografia di Teofane fu da altri continuata dall'anno 813 al 961 (va sotto il nome di Theophanes continuatus, Οἱ μετὰ Θεοϕάνην, ed. Bekker, Bonn 1838; cfr. Hirsch, op. cit., p. 175-302 e Krumbacher, Byz. Litt., p. 347 segg.). Al sec. IX appartiene Giorgio Monaco (Hamartolos) autore di una cronica in 4 libri da Adamo alla morte dell'imperatoreTeofilo, 842 (ed. C. de Boor, Lipsia 1904). Fra gli scrittori del sec. X sono da segnalare come precipue fonti storiche: l'imperatore Costantino VII (912-959), il quale, oltre ai trattati: De administrando imperio, De thematibus, De Ceremoniis aulae byzantinae, nei quali si trovano preziose notizie storiche, scrisse una Vita di Basilio I (le prime tre opere si trovano insieme nell'ed. di Bonn; l'ultima è nel vol. Theophanes continuatus, della stessa collezione); Giuseppe Genesio, il quale compose una storia degl'imperatori da Leone V a Basilio I (813-886) (a cura di C. Lachmann, Bonn 1834); Leone Diacono, che scrisse in dieci libri la storia del suo tempo dal 959 al 975 (a cura di C. B. Hase, Bonn 1828), e Simeone Magistro e Logoteta, del quale esiste una Cronografia da Adamo alla morte di Romano Lecapeno (948). Di quest'opera di Simeone non abbiamo un'edizione completa; ma l'ultima parte di essa si trova nella posteriore compilazione di Leone Grammatico, (a cura di I. Bekker, Bonn 1842; cfr. Krumbacher, Byz. Litt., pp. 358-362, e F. Hirsch, Byz. Studien, pp. 89-115, 303-355). Nel secolo seguente l'eruditissimo Michele Psello compose una storia dal 976 al 1077, che si può considerare idealmente come una continuazione di quella di Leone Diacono (M. Psello, Chronographie ou histoire d'un siècle de Byzance, 976-1077, texte établi et traduit par É. Renauld, Parigi 1928). Allo stesso termine arriva a un di presso la cronica di Giovanni Scilitze, scrittore vissuto, come Psello, nel sec. XI (Cronica dall'avvento di Michele Rangabe fino al regno di Niceforo Botoniate, 811-1079, voll. 2, Bonn 1838-9). Notizie sulla storia dell'impero in generale o di alcuni periodi di esso, o relative ad alcune sue provincie si trovano nei contemporanei scrittori occidentali e orientali di cui ricordiamo solo i principali. Fra i latini, oltre alla corrispondenza dei papi, preziosissima anche per l'impero bizantino: il Liber pontificalis (ed. Duchesne, voll. 2); Paolo Diacono, Hist. Langobardorum (ed. Waitz, in Mon. Germaniae Hist., Script. rerum Langob.); Fredegario, Cronicńe (ibid., ed. Krusch); Eginardo, Annali (ibid.); Liutprando di Cremona, Opere (ed. Dümmler, Hannover 1877; interessante la sua Legazione a Costantinopoli); Annales barenses (ed. Pertz, ibid., Scriptores, V); Leone Ostiense, Chronica monasterii casinensis (ed. Wattenbach, ibid., VII). Fra gli Orientali: Michele Siro, patriarca giacobita di Antiochia dal 1166 al 1199, autore di una Cronica che è stata di recente pubblicata nel testo siriaco con la traduzione francese da J. B. Chabot, voll. 3, Parigi 1899-1910; aṭ-Ṭabarī, Annales (ed. araba di De Goeje, voll. 15, Leida 1879-1901; alcuni brani riferentisi alla storia degli ultimi Sassanidi e alla prima espansione araba furono pubblicati da Th. Nöldeke, Geschichte der Perser u. Araber zur Zeit der Sassaniden aus der arab. Chronik des Tabari, Leida 1879); e gli armeni: Mosè di Corene (trad. franc. presso Langlois, Collection des historiens anciens et modernes de l'Arménie, voll. 2, 1869); Ghévond, che descrisse la conquista araba dell'Armenia nei secoli VII e VIII (trad. franc. di G. V. Chahnazarian, Hist. des guerres et des conquêtes des Arabes en Arménie, Parigi 1857); Tommaso Ardzouni (trad. franc. in Brosset, Collection d'historiens arméniens, vol. I, Pietroburgo 1874); Stefano Asolik ehe ci lasciò una storia universale fino al 1004 e Samuele d'Ani. Brani di questi scrittori e di altri si trovano tradotti in Dulaurier, Recherches sur la chronologie arménienne, Parigi 1859, e in Brosset, Rapports sur un voyage archéologique dans la Géorgie et dans l'Arménie, Pietroburgo 1849. Citiamo, infine, la cosiddetta Cronica di Nestorio (trad. franc. di Leger, in Publications de l'Ècole des langues orientales, 2ª serie, tom. 13, Parigi 1884), nella quale sono illustrati i primi rapporti fra Bisanzio e i Russi.
Fonti per il periodo da Basilio II alla fine dell'impero (1205-1453).
a) Storici greci. - Oltre a Psello e Scilitze che abbiamo ricordato: il cronografo Cedreno, il quale, tra la fine del sec. XI e il principio dell'XII scrisse un compendio storico, Σύνοψις ἱστοριῶν, dalla creazione del mondo fino al regno di Isacco Comneno, 1057 (voll. 2, Bonn 1838-1839); Michele Attaliate, autore di una storia dei suoi tempi dal 1034 al 1079 (ed. Bonn 1853); Costantino Manasse, che espose in versi una storia universale dalla creazione del mondo a Niceforo Botoniate (1081). La vita e il regno di Alessio Comneno aveva cominciato a narrare Niceforo Briennio; la morte gl'impedì di portare la narrazione oltre al 1079 (ed. Bonn 1836). L'opera fu ripresa e attuata su un piano più vasto dalla di lui moglie Anna Comnena, figlia dello stesso imperatore Alessio. Si compone di 15 libri e narra gli avvenimenti dal 1069 al 1118. L'opera porta il titolo di 'Αλεξιάς, e il titolo ne denota già il carattere encomiastico. Essa è pervasa di spirito ostile contro i Crociati e in generale contro i Latini (ed. Reifferscheid, voll. 2, Lipsia 1884; buona anche l'ed. di Bonn). Fino alla morte di Alessio (1118) arrivano le cronografie di Zonara (ed. Dindorf, voll. 6, Lipsia 1868-1875; trad. it. di Marco Emilio Fiorentino, Vinegia 1560) e di Michele Glica (ed. Migne, Patrol. Graeca, 158), due poligrafi vissuti nella seconda metà del sec. XII. Di essi Zonara presenta un grande interesse anche per i tempi anteriori per la ricchezza delle informazioni da lui attinte a fonti a noi non pervenute. Le vicende dalla morte di Alessio I alla IV Crociata sono narrate da Giovanni Cinnamo - storia dal 1118 al 1176 (ed. Bonn 1836) - e da Niceta Acominato - dal 1184 al 1206 (ed. Bonn 1835). Del periodo della dominazione latina trattano: Giorgio Acropolita, vissuto fra il 1217 e il 1282, nella sua Χρονικὴ συγγραϕή (ed. Bonn 1836); Efrem, nella sua storia degl'imperatori da Giulio Cesare alla riconquista greca di Costantinopoli, pesante manipolazione in 9564 versi (ed. Bonn 1840); la Σύνοψις χρονική, conosciuta col nome di Synopsis Sathas che si conserva nel codice 407 della Biblioteca Marc. di Venezia (ed. da Sathas, Μεσ. βιβλ., VII, p.1-556); il poemetto intorno alla caduta e alla riconquista di Costantinopoli del cod. 408 della stessa Biblioteca pubblicato da Buchon, Recherches hist. sur la principauté franç. de Morée, II (1845), pp. 335-367; e la cosiddetta Cronica di Morea, Χρονικὸν τῶν ἐν ‛Ρωμαίᾳ καὶ μάλιστα ἐν τῷ Μορέᾳ πολέμων τῶν Φράγκων, che arriva fino al 1292 (di questa esistono molte versioni in francese e latino; il testo greco in Buchon, op. ch., cfr. Krumbacher, Byz. Litt., p. 833). Per la storia dei Paleologi e della caduta dell'impero sono da vedere: Giorgio Pachimere, la cui opera storica in 13 libri abbraccia il periodo dal 1261 al 1308 (ed. Bonn 1835); Niceforo Gregora, che scrisse una Ρωμαικὴ ἱστορία in 37 libri, trattando i tempi del 1204 al 1359 (voll. 5, Bonn 1829-1855); Giovanni Cantacuzeno, che tenne la dignità imperiale dal 1351 al 1356, e che, ritiratosi dopo quell'anno in un ehiostro, scrisse De rebus ab Andronico Palaeologo iuniore necnon a se gestis libri IV (1320-1356), presentando i fatti sotto una luce a sé favorevole (voll. 3, Bonn 1828-1832; v. anche la vita di Cantacuzeno scritta da Giovanni Comneno e pubblicata da Papadopulos-Kerameus, in Δελτίον τῆς ἱστορ. καὶ ἐϑνολογ. ‛Εταιρείας τῆς ‛Ελλάδος, 1885); Laonico Calcocondila, che in 10 libri narrò la storia dal 1298 al 1462 (ed. Migne, Patr. Graeca, 159); Ducas, vissuto, come Calcocondila, verso la metà del sec. XV, e che scrisse una storia bizantina dal 1341 al 1462 (ed. Bonn 1834); Giorgio Frantze, la cui narrazione va dal 1258 al 1476 (ed. Bonn 1838) e Critobulo di Imbro, autore d'una storia del sultano Maometto II che abbraccia gli anni dal 1451 al 1467 (Müller, Fragm. Hist. Graec., V). Un'importante raccolta di fonti e documenti relativi alla storia degli ultimi Paleologi e ai despoti del Peloponneso ci ha dato di recente S. P. Lambros nella sua opera: Παλαιολόγεια καὶ Πελοποννησιακά (voll. 3, Atene I912-1926). Ai dominî latini in Oriente e agli ultimi tempi dell'impero si riferiscono le fonti raccolte da K. Hopf nell'opera, indispensabile per la conoscenza di questo periodo, Chroniques gréco-romanes inédites ou peu connues, Berlino 1873. Intorno alla caduta di Costantinopoli, oltre le citate storie: Leonardo di Chio, De Urbis C.polis iactura, (in Migne, Patrol. Graeca, 159, coll. 923-944); Hierax, gran logoteta, ΘρÀνος ᾒ διὰ τὴξ τῶν Τούρκων βασιλείαν (in Sathas, Μεσ. βιβλ., I); Georgillas di Rodi, "Αλωσις Κ.πόλεως, poema (in É. Legrand, Bibl. graeca-vulgaris, I, Parigi 1880); Matteo Camariotes, De C.poli capta... lamentatio (in Migne, Patr. Graeca, 160); An., "Αλωσις Κ.πόλεως (ed. Ellissen, in Analekta d. mittel-und neugr. Litter., II, Lipsia 1877); Isidori Thessalonicensis card., legati pontif. Lamentatio (in Migne, Patr. Graeca, 159, coll. 944-956). Per il regno di Trebisonda: Panaretos, Περὶ τῶν τῆς Τραπεζοῦντος βασιλέων τῶν μεγάλων Κομνηνῶν (ed. Tafel, Francoforte 1832); Gregorio Mamma, Πρὸς τὸν βασιλέα Τραπεζοῦντος (ed. Migne, Patrologia Graeca, 160, coll. 205-248).
b) Fonti occidentali. - Per i Comneni e le guerre normanne: Guglielmo di Puglia, Historicum poema epicum, libri V de rebus Normannorum in Sicilia, Apulia et Calabria gestis (ed. Pertz, in Mon. Germ. Hist., Script., IX); Lupo Protospatario, Croniche (ibid., V); Goffredo Malaterra, Historia Sicula (ed. Muratori, in Rerum Ital. Script., V); Pietro Diacono, continuazione della già citata Chronica di Leone Ostiense (ed. Wattenbach, in Mon. Germ. Hist., Script., VII); Ugo Falcando, Historia o Liber de regno Siciliae (ed. G. B. Siragusa, in Fonti per la storia d'Italia, n. 22); Annales Venetici breves (ed. Simonsfeld, in Mon. Germ. Hist., Script., XIV), Cronache veneziane antichissime (sec. X-XI), ed. Monticolo, in Fonti per la storia d'Italia, n. 9; Caffaro, Annali genovesi (ed. Pertz, in Mon. Gamaniae Hist., XVIII, con la continuazione di Osberto e di Ottobuono fino al 1196. V. l'ed. a cura di Belgrano e Imperiale, in Fonti per la storia d'Italia, pubblicati finora voll. 4, nn. 11-14); Marango, Annales Pisani (ed. Pertz, in Mon. Germ. Hist., XIX). Per le Crociate v. la collezione delle fonti pubblicata sotto gli auspici dell'Académie des Inscriptions et Belles Lettres di Parigi: Recueil des historiens des Croisades, Parigi 1841 segg., e inoltre: G. de Villehardouin, La conquête de Constantinople (ed. Bouchet, voll. 2, Parigi 1891); Devastatio Constantinopolitana (Annales Herbipolenses 1202-1204, in Mon. Germ. Hist., Script., XVI); Roberto di Clari, La prise de Constantinople (ed. Hopf, op. cit.); Exuviae sacrae Constantinopolitanae (ed. Riant, Ginevra I877-1878, voll. 2); Onorio III papa, Regesta (ed. Pressuti, voll. 2, Roma 1888-1895), Innocenzo III, Epistolae (in Migne, Patr. Lat., 214-217); Gesta Innocentii III Papae (ibid., 214). Intorno alla caduta di Costantinopoli sotto i Turchi: Niccolò Barbaro, Giornale dell'assedio di Costantinopoli (ed. Cornet, Vienna 1856); Pusculo Ubertino di Brescia, Constantinopoleos libri IV (ed. Ellissen, in Analekta d. mittel- und neugr. Litt., III, Lipsia 1857); A. Cambini, Della origine de' Turchi et imperio delli Ottomanni, Firenze 1529; Zorzi Delfin, Assedio e presa di Costantinopoli nell'anno 1453 (ed. Thomas, in Sitzungsberichte d. k. bayer. Ak. d. Wissensch., Monaco 1868); Rapporto del Superiore dei Francescani presente all'assedio e alla presa di Costantinopoli (ed. Muratori, in Rerum It. Script., XVIII); Montaldo, genovese, De Constantinopolitano excidio (ed. Desimoni, in Atti d. Soc. lig. di st. patria, X [1874]); A.G. Zaccaria, potestà di Pera, Epistola de excidio Constantinopolitano (ed. De Sacy, in Not. et extraits des Mss. de la Bibl. du roi, XI, Parigi 1827).
c) Fonti orientali. - Scrittori armeni: oltre quelli citati, v. Recueil des historiens des Croisades: documents arméniens, voll. 2, Parigi 1869-1906; Mosè Kalankatoani, Storia degli Aghovani (Albanesi della Caucasia), testo arm., Parigi e Mosca 1860; trad. franc. di E. Boré, con note di Vivien de Saint-Martin, in Nouv. Annales de vovages, Parigi 1848. Scrittori siriaco-arabi: oltre Michele Siro citato, v. Recueil des hist. des Croisades, historiens orientaux, voll. 5, Parigi 1872-1906; Barhebraeus (Abū l-Faraǵ), Chronicon syriacum, test. orig. con versione latina (ed. Bruns e Kirsch, voll. 2, Lipsia 1879); Beniamino di Tudela, Itinerario (ed. Adler, con vers. ingl., Londra 1907); Kamāl ad-Dīn, Storia di Aleppo, trad. franc. di Blochet, in Revue de l'Orient latin, III-VI (1895-1898). Per le fonti turche e persiane, la maggior parte delle quali sono o inedite o pressoché inaccessibili, v. le rassegne bibliografiche in Hammer-Purgstall, Gesch. d. Osmanischen Reichs, voll. 10, Pest 1827-1835 e in The Cambridge medieval history, IV, 1927, cap. xv, p. 993 segg. Ci limitiamo a citare: Sa‛d ad-dīn, Tāǵ at-tawārīkh, voll. 2, Costantinopoli 1279-1280, trad. it. di V. Bratutti, Cronica dell'origine e progressi della Casa Ottomana, composta da Saidino Turco, I, Vienna 1649, II, Madrid 1652.
Storia interna, relazioni di Bisanzio con la Chiesa romana e con altri stati. - Alle fonti narrative finora citate sono da aggiungere altre fonti che illustrano la vita bizantina o le sue istituzioni o lati particolari della sua storia. Stanno in prima linea gli atti dei santi e gli scritti teologici e polemici riferentisi ai concilî e alle controversie dogmatiche. Gli atti dei santi, in Acta Sanctorum Bollandiana, Bruxelles 1643-1770; Parigi e Roma 1866, 1887; Bruxelles 1894 segg.; e inoltre: Vita Iohannis Damasceni (in Migne, Patr. Gr., 94); Vita Nicephori patr., di Ignazio Diacono (in C. de Boor, Nicephori opusc. hist., Lipsia 1880); Vita Philareti (in Izvestija russk. archeol. Instituta v K.nopole, V. Sofia); Niceta di Paflagonia, Vita di Ignazio patr. (in Migne, Patr. Gr., 105); Vita della beata Teodora Augusta basilissa (ed. Regel, in Analecta byz. russica, Pietroburgo 1891). Per i concili e gli scritti religiosi v. Mansi, Sacrorum conciliorum collectio, voll. 31, Firenze e Venezia 1759-1798, ripresa e continuata da Martin e Petit, Parigi 1901 segg.; Hefele, Conciliengeschichte, voll. 9, Friburgo in B., 2ª ed., 1873 segg. (trad. franc. Delarc 1869, nuova ed. a cura di Leclercq, Parigi 1914 segg.: l'opera contiene numerosi brani di scritti originali). Interessanti sono particolarmente gli epistolarî e i discorsi d'imperatori, patriarchi, ecc. Citiamo fra i più importanti: le lettere di Fozio (ed. Migne, in Patrologia Graeca, 102, e PapadopulosKerameus, Pietroburgo 1896; cfr. Hergenröther, Monumenta Graeca ad Photium eiusque historiam pertinentia); di Teodoro Studita (ed. Cozza-Luzi, in Mai, Nova Patrum Bibl., VIII, Roma 1871); di Psello (ed. Sathas, Μεσ. βιβλ., V); di Massimo Planude (ed. Treue, Breslavia 1886-1888), di Teodoro Lascaris (ed. Festa, Firenze 1898); dell'imperatore Manuele II Paleologo (ed. Legrand, Parigi 1897); di Demetrio Chidone (ed. in parte da Boissonade, in Anecd. nova, Parigi 1844, p. 251-327); i discorsi di Niceforo Crisoberge (ed. Treue, Breslavia 1892); di Teodoro Pediasimo (Potsdam 1899); e gli scritti del card. Bessarione (edizione Migne, Patr. Graeca, 161).
Sulla costituzione interna, oltre alle leggi e alle opere di Costantino Porfirogenito, v. anche: Notitia dignitatum (sec. V), ed. Seeck 1877; Hierocles, Synecdemos (sec. VI), ed. Burckhardt, Lipsia 1893; Giorgio di Cipro, Descriptio orbis romani, ed. Gelzer, Lipsia 1890; Codinus, De officiis (Περὶ τῶν ὀϕϕικίων τοῦ παλατίου Κ.πόλεως καὶ τῶν ὀϕϕικίων τῆς μεγάλης ἐκκλησίας), ed. Bonn I839; Il libro del Prefetto (Λέοντος τοῦ Σοϕοῦ τὸ επαρχικὸν βιβλίον, ordinamento corporatizio di Costantinopoli nel sec. X), ed. e trad. in franc. da J. Nicole, Ginevra 1894
Numerosi e interessanti per l'ordinamento dell'esercito bizantino sono i trattati di tattica; citiamo lo Strategicon attribuito all'imperatore Maunzio, ed. Scheffer, Upsala 1664; Leone VI, Tactica, in Migne, Patr. Graeca, 107; Niceforo Foca, Περὶ παραδρομῆς πολέμου, ed. Bonn 1828; ed. Kulakovskij (Στρατηγικὴ ἔκϑεσις καὶ σύνταξις), nelle Memorie dell'Accademia di Pietroburgo, serie 8ª, III (1908).
Per i rapporti con la chiesa romana e la questione, prima, dello scisma e quindi della riunione della chiesa greca, oltre la collezione del Mansi e la storia del Hefele, sono importanti le lettere e gli atti dei sommi pontefici; v. Jaffé-Ewald, Regesta pontificum, voll. 2, Lipsia 1885-88; Pitra, Iuris ecclesiastici Graecorum hist. et monumenti, voll. 2, Roma 1864-1868; Potthast, Regesta Pontif. Rom. inde ab anno 1198 ad annum 1304, voll. 2, Berlino 1874-5; F. Miklosich e J. Müller, Acta et diplomata graeca, cit., I e II: Acta patriarchatus Constantinopolitani; Theiner e Miklosich, Monumenta spectantia ad unionem ecclesiarum, Vienna 1872.
Fra le più importanti collezioni di documenti relativi ai rapporti fra Bisanzio e altri stati ricordiamo: Tafel e Thomas, Urkunden zur älteren Handels- und Staatsgesch. der Republ. Venedig md besonderer Beziehung auf Byzanz und die Levante vom neunten bis zum Ausgang des fünfzehnten Jahrh., voll. 3, 1856-1857 (Fontes rerum Austriacarum); G. M. Thomas e R. Predelli, Diplomatarium Veneto-Levantinum 1300-1454, voll. 2, Venezia 1880-99; Müller, Documenti sulle relazioni delle città toscane coll'Oriente, Firenze 1879; Monumenta spectanctia historiam Slavorum Meridionalium, Zagabria 1868 segg.
Bibl.: 1. Opere generali; cronologia: pubblicazioni periodiche. - Fondamentali rimangono sempre, nonostante il progresso degli studî bizantini, le opere del Ducange e del Banduri nella collezione parigina degli Script. hist. byz.; Ducange (Charles Du Fresne), Hist. de l'Empire de Constantinople sous les Empereurs François; id., Historia byz. duplici comentario illustrata: a) Familiae Augustae byz. seu stemmata imperatorum Constantinopol.; b) Constantinopolis christiana, seu descriptio urbis Constantinopol. qualis extitit sub imperatoribus christianis; Banduri, Imperium orientale. - Ch. Lebeau, Hist. du Bas Empire, nuova ed. di Saint-Martin, Parigi 1824-1836, voll. 21 (ancora importante specialmente per gli estratti delle fonti orientali introdottivi dal Saint-Martin); C. Gibbon, The history of the Declin and Fall of the Roman Empire, 1776-81 (è la più organica e pensata storia dell'impero bizantino, ma tendenziosa in quanto parte da una concezione anticristiana e considera l'impero come una continua decadenza; importante per le note bibliografiche l'ed. curata da Bury, Londra 1909-1914, voll. 7); Finlay, Hist. of Greece B. C. 146 to A. D. 1864, a cura di Tozen, voll. 7, Oxford 1877; G. F. Hertzberg, Geschichte der Byzantiner und des osmanischen Reiches bis gegen Ende des 16. Jahr., Berlino 1888 (trad. ital., Milano 1894, Collezione Oncken); K. Hopf, Geschichte Griechenaldns von Beginn des Mittelalters bis auf unsere Zeit, Lipsia 1867-68 (voll. LXXXV-LXXXVI della Enc. di Ersch e Gruber); K. Paparrigopulos, ‛Ιστορία τοῦ Ελληνικοῦ ἔϑνους, 5ª ed. a cura di Karolides, Atene 1926; id., Histoire de la civilisation hellénique, Parigi 1878 (è un estratto dell'opera precedente); C. W. B. Oman, The Byz. Empire, Londra 1892; H. Gelzer, Abriss der byz. Kaisergeschichte, in Krumbacher, Byz. Litteratur, pp. 911-1067; S. P. Lambros, Ιστορια της Ελλαδος, I-VI, Atene 1886-1908; Hesseling, Essai sur la civilisation byz., trad. dall'olandese, Parigi 1907; N. Turchi, La civiltà bizantina, Torino 1915; K. Roth, Geschichte des byz. Reiches, 2ª ed., Lipsia 1919 (Collezione Göschen); Ch. Diehl, Byzance: grandeur et décadence, Parigi 1919; id., Histoire de l'empire byzantin, Parigi 1920; id., Figures byzantines, s. 1ª e 2ª, Parigi 1920-21; The Cambridge Medieval History, II e IV, Cambridge 1925-27; Baynes, The Byzantine Empire, Londra 1925; N. Jorga, The Byz. Empire, trad. ingl. di Powles, Londra 1907; A. A. Vasil'ev, Storia bizantina, in 4 monografie (in russo), Pietrogrado 1917-Leningrado 1925. Sintesi della storia bizantina si trovano naturalmente nelle storie universali fra le quali citiamo: L. von Ranke, Weltgeschichte, voll. 9, Lipsia 1881-88, e Lavisse e Rambaud, Histoire générale du IVe siècle à nos jours, Parigi, voll. 12 (la storia bizantina nei primi 3 volumi). Per la cronologia: H. F. Clinton, Fasti romani. The civil and literary chronology of Rome and C.ple, volumi 2, Oxford 1845-50 (arrivava fino al 641 d. C.); E. de Muralt, Essai de chronographie byzantine, 395-1057, Pietroburgo 1855; 1057-1453, Basilea e Ginevra 1871-73; F. Rühl, Chronologie des Mittelalters und der Neuzeit, Berlino 1907.
Fra le riviste di studî bizantini occupa il primo posto la Byzantinische Zeitschrift, edita dal Teubner e fondata nel 1892 da Carlo Krumbacher. Notiamo anche: Vizantijskij Vremennik, fondata a Pietroburgo nel 1894 e diretta da Vasil'evskij e Regel; Byzantinisch-neugriechische Jahrbücher, Weimar 1920 segg., e Studi bizantini dell'Istituto Orientale di Roma, 1924 segg.
2. Storia politica: opere speciali e monografie: a) per il periodo dal 330 al 641; J. B. Bury, History of the later Roman Empire from Arcadius to Irene (395-800), voll. 2, Londra 1889, nuova ed. fino a Giustiniano, voll. 2, Londra 1923; J. Kulakovskij, Istorija Vizantii (Storia di Bisanzio), voll. 3, Kiev 1910-1915 (arriva fino al 717; l'opera rimase interrotta per la morte dell'autore); L. Bréhier, La fondation de Constantinople, in Revue hist., 1915; Burckhardt, Das Zeitalter des Konstantin, 2ª ed., Lipsia 1880; A. Güldenpenning e Iffland, Der Kaiser Theodosius d. Grosse, Halle 1878; A. Güldenpenning, Geschichte des oström. Reiches unter den Kaisern Arkadius und Theodosius, II, Halle 1885; E. W. Brooks, The emperor Zenon and the Isaurians, in Engl. hist. Review, VIII (1893), pp. 209-238; Ch. Diehl, Justinien et la civilisation byzantine au VIe siècle, Parigi 1901; id., Théodora, imperatrice de Byzance, Parigi s. a.; E. Grupe, Kaiser Justinian, aus seinem Leben und aus seiner Zeit, Lipsia 1923; W. G. Holmes, The age of Justinian and Theodora, voll. 2, Londra 1905-07; K. Groh, Geschichte des oström. Kaisers Justin II., Lipsia 1889; E. Stein, Studien zur Geschichte d. byz. Reiches, vornemlich unter Justinus II. und Tiberius Constantinus, Stoccarda 1919; J. Kulakovskij, L'imperatore Foca (in russo, estratto dalle pubblicazioni dell'Università di Kiev, fasc. 1°); C. M. Patrono, Bisanzio e i Persiani alla fine del sec. VI (estr. dal Giorn. della Soc. asiat. italiana), Firenze 1907; A. Pernice, L'imperatore Eraclio, saggio di storia bizantina (pubblicazioni del R. ist. di studî suepriori), Firenze 1905.
b) Per il periodo dal 641 al 1025: Kulakovskij, Ist. Vizantii cit.; Bury, Hist. of the later Rom. Empire cit.; id., History of the Eastern Roman Empire from the fall of Irene to the accession of Basil I (802-867), Londra 1912; J. Kaestner, De imperio Costantini III (641-668), Lipsia 1907; E. W. Brooks, The Sicilian expedition of Constantine IV, in Byz. Zeitschr., 1908, pp. 455-60; J. Wellhausen, Die Kämpfe der Araber mit den Romäern in der Zeit der Umaijaden, in Nachr. der K. Gesellschaft d. Wissensch. zu Göttingen, Philol. hist. Klasse, 1901; Görres, Justinian II. und d. röm. Papstum, in Byz. Zeitschr., 1908; A. F. Gfrörer, Der Bildersturm, in Byz. Geschichten, II, Graz 1874; K. Schenk, Kaiser Leo III., Halle 1880; id., Kaiser Leons III. Walten im Innern, in Byz. Zeitsch., 1896, pagine 257-301; Schwartzlose, Der Bilderstreit, Gotha 1890; L. Bréhier, La querelle des images, Parigi 1904; A. Lombard, Constantin V, empereur des Romains, Parigi 1902; J. Pargoire, l'Église byz. de 527 à 847, Parigi 1905 (Bibl. de l'enseignement de l'hist. ecclésiastique); J. D. Foropulos, Ειρήνη ἡ 'Αϑηναία αὐτοκράτειρα ‛Ρωμαίων, Lipsia 1887 (dissert.); J. A. G. Hergenröther, Photius, Patriarch von Konstantinopel, voll. 3, Ratisbona 1867-69; A. Vogt, Basile I, Parigi 1908; G. Der Sahaghian, Un document arménien de la généalogie de Basile I, in Byz. Zeitschr., 1911, p. 165 segg.; A. A. Vasil'ev, Gli inizî dell'imperatore Basilio il Macedone, in Viz. Vremennik, 1905; M. Mitard, Études sur le règne de Léon VI, in Byz. Zeitschr., 1903, p. 551 segg.; N. Popov, L'imperatore Leone il Savio e il suo regno sotto l'aspetto ecclesiastico (in russo), Mosca 1892; F. Hirsch, Kaiser Konstantin VII. Porphyrogennetos, Berlino 1873 (Progr. d. Konigstädt, Realschule); A. Rambaud, L'Empire grec au Xe siècle, Constantin Porphyrogénète, Parigi 1870; S. Runciman, The emperor Romanus Lacapenus and his reign. A study of Tenth Century Byzantium, Cambridge 1929; G. L. Schlumberger, Un empereur byz. au Xe siècle, Nicéphore Phocas, Parigi 1890; id., L'épopée byzantine à la fin du Xe siècle, I: Jean Tzimiscès, Basile II (969-989); II: Basile II (989-1025), Parigi 1896 segg.
c) Per il periodo dal 1025 alla caduta dell'impero (1453); Schlumberger, L'épopée byzantine à la fin du Xe siècle, III: Les Porphyrogénètes Zoé et Théodora (1025-1057); Bréhier, Le Schisme Oriental du XIe siècle, Parigi 1899; J. B. Bury, Roman Emperors from Basil II to Isaak Komnenos, in Engl. Hist. Review, 1889, pp. 41-64, 251-285; C. Neumann, Die Weltstellung des byz. Reiches vor den Kreuzzügen, Lipsia 1894 (trad. franc. di Renauld e Kozlowski, Parigi 1905); F. Wilken, Rerum ab Alexio I, Johanne et Manuele Comnenis gestarum libri IV, Heidelberg 1811; F. Chalandon, Les Comnènes, Études sur l'Empire byzantin aux XIe et XIIe siècle, I: Essai sur le règne d'Aléxis (1081-1118); II: Jean Comnéne (1118-1143) et Manuel I Comnène (1143-1180), Parigi 1900, 1913; H. von Kap-Herr, Die abendländische Politik Kaiser Manuels, Strasburgo 1881; F. Cognasso, Partiti politici e lotte dinastiche in Bisanzio alla morte di Manuele Comneno, in Memorie della reale Accad. delle scienze di Torino, s. 4ª, LXII (1912); T. Uspenskij, Alessio II e Andronico Comneno (in russo), in Zurn. Min. Nar. Prosv., CCXII, pp. 95-130; Cognasso, Isacco Angelo, in Bessarione, 1915; A. Gruhn, Die byz. Politik zur Zeit der Kreuzzüge, Berlino 1904; W. Norden, Der vierte Kreuzzug im Rahmen der Beziehungen des Abendlandes zu Bysanz., Berlino 1898; E. Pears, The fall of Constantinople: the story of the Fourt Crusade, Londra 1885; L. Streit, Venedig u. die Wendung des viertes Kreuzzuges nach K. opel, Anklam 1877; J. Tessier, La quatrième croisade, Parigi 1884; A. Luchaire, Innocent III. La question d'Orient, Parigi 1907; Thil-Lorrain, Badouin de C.ple, fondateur de l'empire latin d'Orient, Bruxelles; E. Gerland, Geschichte des lateinischen Kaiserreiches von Konstantinopel, parte 1ª, Homburg v. d. Höhe 1905; W. Miller, The Latins in the Levant. A hist. of frankish Greece (1204-1456), Londra 1908; id., Essays on the Latin Orient, Cambridge 1921; W. B. Stevenson, The crusaders in the East, Cambridge 1907; Rennel Rod, The princes of Achaia and the Chronicles of Morea, Londra 1907, voll. 2; G. Schlumberger, Les Principautés franques du Levant, Parigi 1877; J. A. Buchon, Recherches historiques sur la Principauté franç. de Morée, voll. 2, Parigi 1845; V. M. Coronelli, Memorie istoriografiche de' regni della Morea, Negroponte e Littorali fin'a Salonichi, Venezia s. a.; Heyd-Müller, Le colonie commerciali degli Italiani in Oriente, voll. 2, Venezia e Torino 1866-1868; L. Sauli, Della colonia dei Genovesi in Galata, voll. 2, Torino 1831; C. Pagano, Delle imprese e del dominio dei Genovesi nella Grecia, Genova 1846; M. A. Belin, Histoire de la latinité de Costantinople, 2ª edizione, Parigi 1894; A. Gardner, The Laskaris of Nicaea, Londra 1912; J. B. Papadopulos, Theodore II Laskaris empereur de Nicée, Parigi 1908 (cfr. la recensione di N. Festa in Byz. Zeitschr., 1909, p. 213); A. Meliarakes, ‛Ιστορία τοῦ Βασιλείου τῆς Νικαίας καὶ τοῦ Δεσποτάτου τῆς 'Ηπείρου (1204-1261), Atene 1898; J. P. Fallmerayer, Gesch. des Kaiserthums von Trapezunt, Monaco 1827; W. Miller, Trebizont, the last Greek Empire, Londra 1926; Silberschmidt, Das orientalische Problem zur Zeit der Entstehung des Türkischen Reiches nach venetianischen Quellen. Ein Beitrag zur Geschichte d. Beziehungen Venedigs zu Sultan Bajezid I. zu Byzanz, Ungarn und Genua und zum Reiche von Kiptschak, (1381-1400), Lipsia 1923; V. Parisot, Cantacuzène, homme d'état et historien, Parigi 1845; Berger de Xivrey, Manuel II Paléologue, Parigi 1853; Ch. Diehl, L'Empire byzantin sous les Palélogues, in Études byzantines, pp. 217-240; E. Pears, The destruction of the Greek Empire, Londra 1903; Schlumberger, Le siège, la prise et le sac de C.ple par le Turcs en 1453, Parigi 1914; F. Getz, Eroberung von C.pel, Lipsia 1920; A. G. Paspates, Πολιορκία καὶ ἅλωσις τῆς Κ.πόλεως ὑπὸ των Οϑωμανῶν ἐν ἔτει 1453, Atene 1890; C. Mijatović, Constantin the last emperor of the Greeks. The conquest of C.ple A. D. 1453, Londra 1892.
3. Storia interna: istituzioni, legislazione, finanze, agricoltura, commercio. - P. Kock, Die byzantinischen Beamtentitel von 400 bis 700 (diss.), Jena 1903; F. W Bussell, The Roman Empire: essays on the constitutional history (81 A. D. to 1081 A.D.), voll. 2, Londra 1910; J. B. Bury, The constitution of the later Roman Empire, in Creigton memorial lecture, Cambridge 1910; L. Bréhier, La transformation de l'Empire byzantin sous les Héraclides, in Journal des Savants, XV (1917), p. 401 segg.; H. Gelzer, Die Genesis der byz. Themenverfassung, Lipsia 1899 (Abhand. d. phil.-hist. Kl. d. sächs. Gesellsch. der Wissenschaften, XVIII); Ch. Diehl, L'origine du régime des Thèmes dans l'Empire byz., in Études byz., Parigi 1905, pp. 276-292; E. W. Brooks, Arabic lists of the byz. themes, in Journal of Hell. Studies, 1901, Londra; Bury, The imperial administrative system in the ninth century, in Brit. Accad. Supplimental papers, I; id., The Ceremonal Book of Constantine Porphyrogennetos, in Engl. hist. Review., XXIII (1907); F. T. Brightman, Byz. imperial coronations, in Journ. of Theol. Studies, II, Londra 1901; W. Sickel, Das byz. Krönungsrecht bis zum X. Jahrh, in Byz. Zeitschr., 1898, p. 54 segg.; A. Pernice, Imperatrici bizantine, in Studi Bizantini, Roma 1924; A. Andreades, Le montant du budget de l'Empire byzantin, in Rev. des Études grecques, XXXIV; F. Dölger, Beiträge zur Geschichte d. byz. Finanzenverwaltung des X. und XI. Jahrh. (Byz. Archiv, fasc. 9), Lipsia 1927; G. Ostrogorowsky, Die ländliche Steuergemeinde d. byz. Reiches in X. Jahr., in Vierteljahrsschrift für soc. und Wirtschaftschaftgesch., XX, 1927 (cfr. recensione di Andreades, in Byz. Zeitschr., 1928, p. 287 segg.); J. Sokolov, Le leggi sulla proprietà nell'impero bizantino (in russo), Mosca 1896; L. Brentano, Die byz. Volkswirtschaft, in Jahrbuch f. Gesetzgebung di Schmoller, n. 41, Monaco 1917; K. E. Zachariae von Lingenthal, Zur Kenntnis d. röm. Steuerwesens in der Kaiserzeit, nelle Mem. dell'Accad. di Pietroburgo, 1863; Christo M. Macri, L'organisation de l'économie urbaine dans Byzance sous la dynastie de Macédonie (867-1057), Parigi 1925; J. Nicole, Le livre du préfet ou l'édit de l'empereur Léon le Sage sur les corporations de C.ple, Ginevra 1894; A. Schaube, Handelsgesch. der romanischen Völker des Mittelmeergebiets bis zum Ende der Kreuzzüge, Monaco e Berlino 1906 (trad. ital., Torino 1915); W. Heyd, Geschichte des Levant-handels im Mittelalter, Stoccarda 1879 (trad. ital., Torino 1913); P. Boissonade, Le travail dans l'Europe chrétienne au Moyen-Âge, Parigi 1921; G. Tessaud, Des rapports des puissants et des petits propriétaires ruraux dans l'empire byz. au Xe siècle, Bordeaux 1898; J. A. B. Mortreuil, Hist. d. droit byzantin, voll. 3, Parigi 1843-46; E. K. Zachariae von Lingenthal, Gesch. d. grechischrömischen Rechts, 3ª ed., Berlino 1892; L. Siciliano-Villanueva, Diritto bizantino (estr. dell'Enciclopedia giuridica italiana), Milano 1906; Gelzer, Byz. Kulturgeschichte, Tubinga 1909; F. Fuchs, Die höheren Schulen von K.pel im Mittelalter (Byz. Archiv, fasc. 8), Lipsia 1926; K. Roth, sozial- und Kulturgeschichte des byz. Reiches, Lipsia 1917.
4. 4. Storia ecclesiastica: rapporti fra Roma e Bisanzio. - L'opera fondamentale sulla chiesa greca rimane sempre quella di M. Le Quien, Oriens christianus, voll. 3, che fa parte della collezione Corpus hist. byz. di Parigi. Opere posteriori: M. J. Gedeon, Πατριαρχικοὶ πίνακες, Costantinopoli 1890; J. M. Neale, A history of the holy eastern church, voll. 2, Londra 1847-50; A. P. Stanley, Lectures on the history of the eastern church, 2ª ed., Londra 1862; Suvorov, Le pape byzantin. Relations entre l'Église et l'État à Byzance, Mosca 1902; A. Gasquet, De l'autorité imperiale en matière religieuse à Byzance, Parigi 1879; J. Pargoire, L'Église byzantine de 527 à 847, Parigi 1905; A. Lapôtre, L'Europe et le Saint-Siège à l'époque carolingienne, I, Parigi 1895; L. Bréhier, Normal relations between Rome and the Church of the East before the schism of eleventh century, in The Constructive Quarterly, New York 1917; id., Le schisme oriental du XIe siècle, Parigi 1899; N. A. Skabalonovič, L'impero bizantino e la Chiesa nel sec. XI (in russo), Pietroburgo 1884; J. Ruinaut, Le schisme de Photius, Parigi 1910; Ermini, Michele Cerulario e lo scisma di Oriente, in Riv. intern. di scienze soc., XV (1897); J. Dräseke, Psellos gegen Michael Keroularios, in Zeitschr. für wissenschaftl. Theologie, 1905, pp. 194-409; W. Holtzmann, Die Unionsverhandlungen zwischen Kaiser Alexis I und Papst Urban II im Jahre 1089, in Byz. Zeitsch. 1928, pp. 38-67; J. Leib, Rome, Kiev et Byzance à la fin du XIe siècle. Rapports religieux des Latins et des Gréco-Russes sous le pontificat d'Urbain II (1088-1099), Parigi 1924; W. Norden, Das Papsttum und Byzanz, Berlino 1903; A. Pernice, Il Papato e Bisanzio nelle loro relazioni religioso-politiche (estratto dall'Arch. stor. ital., s. 5ª, XLII), Firenze 1908; E. Marin, Les moines de C.ple, Parigi 1897; A. Ferradon, Les biens des monastères à Byzance, Parigi 1896; L. Oeconomos, La vie religieuse dans l'empire byzantin au temps des Commènes et des Anges, Parigi 1918; cfr. inoltre la ricca bibliografia raccolta su questo tema da Krumbacher, Byz. Litter., pp. 1087-1906.
5. Storie locali: J. v. Hammer-Purgstall, Constantinopolis und der Bosphoros, voll. 2, Pest 1822; E. A. Grosvenor, Constantinople, Londra 1900; W. Holden Hutton, Constantinople, The story of the old capital of the Empire, Londra 1921; Gregorovius, Geschichte der Stadt Athen im Mittelalter, voll. 2, Stoccarda 1889; Ph. Fallmerayer, Gesechichte der Halbinsel Morea, voll. 2, Stoccarda 1830-36; J. A. Buchon, La Grèce continentale et la Morée, Parigi 1843; A. Marmora, Historia di Corfù, Venezia 1672; A. Mustoxidi, Delle cose Corciresi, I (solo pubblicato), Corfù 1848; T. G. Jackson, Dalmatia, the Quarnero and Istria with Cettigne and Grado, voll. 3, Oxford 1887; C. Calisse, Il governo dei Bizantini in Italia, in Riv. storica italiana, XI (1885); Ch. Diehl, Études sur l'administration byzantine dans l'Exarchat de Ravenne, Parigi 1889; L. M. Hartmann, Untersuchungen zur Gesch. der byz. Verwaltung in Italien (540-750); J. Gay, L'Italie méridionale et l'empire byz. depuis l'avènement de Basile I jusqu'à la prise de Bari par les Normands (867-1071), in Bibl. de l'Écol. franç. d'Athènes et Rome, fasc. 90, Parigi 1904; B. Pace, I Barbari e i Bizantini in Sicilia, Studî sulla storia dell'isola dal sec. V al IX, Palermo 1911; M. Amari, Storia dei musulmani di Sicilia, voll. 4, Firenze 1854-1868; Gay, Notes sur l'ellénisme sicilien de l'occupation arabe à la conquête normande, Boll. dell'Accademia romena, classe st., XI (1924); Ch. Diehl, L'Afrique byzantine, histoire de la domination byzantine en Afrique (533-701), Parigi 1896; J. Maspero, Organisation militaire de l'Égypte byzantine, Parigi 1912; Rouillard, L'administration civile de l'Égypte byzantine, Parigi 1927; A. Couret, La Palestine sous les empereurs grecs (323-636), Grenoble 1869; H. Lemmens, La Syrie, voll. 2, Beirut 1921; W. Ramsay, The historical geography of Asia Minor, Londra 1890; id., The war of Moslem and Christian for the possession of Asia Minor, in Contemp. Review, 1906; J. Laurent, L'Arménie entre Byzance et l'Islam, Parigi 1919.
6. Rapporti fra l'impero e gli stati e i popoli vicini: a) Balcania e Russia: J. A. Ginzel, Geschichte der Slavenapostel Cyrill und Method, 2ª ed., Vienna 1861; D. Bartolini, Memorie storico-critiche archeologiche dei Ss. Cirillo e Metodio, Roma 1881; L. K. Goetz, Geschichte der Slavenapostel Konstantinus (Kyrillus) und Methodisu, quellenmässig untersucht und dargestellt, Gotha 1897; L. Leger, Cyrille et Méthode, Étude historique, Parigi 1868; E. E. Golubinskij, Storia delle chiese bulgara, serba e romena (in russo), Mosca 1871; id., Storia della chiesa russa, I, Mosca 1900; A. F. Hilferding, Geschichte der Serben und Bulgaren (trad. dal russo di Schmaler), Bautzen 1856-64, voll. 2; K. Jireček, Geschichte der Bulgaren, Praga 1876; id., Geschichte der Serben, I e II, Gotha 1911-1918; V. N. Zlatarski, Geschichte der Bulgaren, I (679-1396), Lipsia 1918; H. W. V. Temperley, History of Serbia, Londra 1917; L. v. Thalloczy, Studien zur Geschichte Bosniens und Serbiens im Mittelalter, Lipsia 1914; id., Illyrisch-Albanesische Forschungen, Lipsia 1916, voll. 2; A. D. Xenopol, Histoire des Roumains de la Dacie Trajane, voll. 2, Parigi 1896; N. Jorga, Geschichte des Rumänischen Volkes, Gotha 1905, voll. 2; A. Pernice, Origine ed evoluzione storica delle nazioni balcaniche, Milano 1915; F. Dvornik, Les Slaves, Byzance et Rome au IXe siècle, Parigi 1926; A. Rambaud, Histoire de Russie, 5ª ed., Parigi 1900; K. J. Grot, La Moravia e i Magiari dalla metà del sec. IX al principio del X (in russo), Pietroburgo 1880; F. G. Uspenskij, La Russia e Bisanzio nel sec. X (in russo), Odessa 1888; V. G. Vasil'evskij, Ricerche russo-bizantine (in russo), Pietroburgo 1893.
b) Italia, Francia, Germania: Gaudenzi, Sui rapporti tra l'Italia e l'impero d'Oriente dal 476 al 554, Bologna 1884; G. Romano, Le dominazioni barbariche in Italia (395-1024), Milano s. a.; L. M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter, I-IV, Gotha 1897-1915; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, voll. 10, Venezia 1853-1861; J. Armingaud, Venice et le Bas-Empire, Parigi 1867; E. Lentz, Das Verhältniss Venedigs zu Byzanz nach dem Fall des Exarchats bis zum Ausgang des 9. Jahrh., Berlino 1891; W. Lenel, Die Entstehung der Vorrherrschaft Venedigs an der Adria, Strasburgo 1897; C. Neumann, Zur Geschichte der byz.-venetianischen Beziehungen, in Byz. Zeitschr., I (1892); H. Kretschmayr, Gesch. von Venedig, I e II, Gotha 1905, 1920; C. Manfroni, Le relazioni fra Genova, l'impero bizantino e i Turchi, in Atti Soc. lig. di storia patria, XXVIII (1898); F. Chalandon, Hist. de la domination normande en Italie et en Sicilie, voll. 2, Parigi 1907; K. Schwartz, Die Feldzüge Robert Guiscards gegen das byz. Reich, Fulda 1854; C. Carabellese, Carlo D'Angiò nei rapporti politici e commerciali con Venezia e l'Oriente, Bari 1919; A. Gasquet, L'Empire Byz. et la monarchie franque, Parigi 1888; J. Moltmann, Theophano, die Gemahlin Ottos II., in ihrer Bedeutung für die Politik Ottos I. und Ottos II., Schwerin 1878.
c) Per i rapporti con gli Arabi e Turchi ci limitiamo solo a indicare le opere principali: L. Caetani, Annali dell'Islam, Milano 1905 segg.; W. Muir, The Caliphate, its rise decline and fall, ed. a cura di Weir, Edimburgo 1915; G. Weil, Geschichte der Chalifen, voll. 3, Mannheim 1846-1851; A. Müller, Der Islam im Morgen- und Abendland, voll. 2, Berlino 1885-87 (trad. ital. nella Collez. Oncken del Vallardi); M. Canard, Les expéditions des Arabes contre Constantinople dans l'histoire et la légende, in Journ. Asiatique, 1926, pp. 61-121; S. Lane-Poole, The Mohammadan Dynasties, Londra 1894; C. Defrémery, Hist. des Seljoukides, in Journ. Asiatique, 1848; J. v. Hammer-Purgstall, Geschichte des osmanischen Reiches, voll. 10, Pest 1827-35; N. Jorga, Gesch. des osman. Reiches, voll. 5, Gotha 1908-1913; A. G. Gibbons, The foundation of the Ottoman Empire, a hist. of Osmanlis up to the death of Bayezid I (1300-1403), Oxford 1916.
Diritto.
In senso lato il diritto bizantino è quel sistema giuridico che si sviluppò nelle parti orientali dell'Impero romano da Costantino il Grande in poi, dopoché la capitale fu trasferita da Roma a Bisanzio, e che, adeguandosi alle trasformazioni subite dalla compagine dello stato, in funzione dei grandi fatti politico-economici, ebbe vigore fino alla caduta di Costantinopoli in potere dei Turchi. In senso ristretto intendesi il diritto da Giustiniano in poi, le cui fonti sono in maggioranza redatte in lingua greca. Dicesi anche diritto greco-romano. Il territorio, nel quale s'applicava, varia a seconda degli avvenimenti storici.
Fra il 429 e il 438 Teodosio II aveva condotto a termine la prima codificazione ufficiale delle costituzioni imperiali (leges). A Giustiniano, fra gli anni 529-534, riuscì di condurre in porto la sua famosa codificazione che comprendeva, in modo amplissimo, anche gli scritti dottrinali dei giureconsulti (iura), che all'ombra del potere imperiale erano assurti a importanza di vere e proprie leggi. Era, dunque, riuscito in quel piano più ampio che invano s'era proposto Teodosio II, e del quale i re barbari d'Occidente, nelle loro compilazioni di diritto romano, ci offrono ben pallidi esempî, ristretti a un gruppo esiguo di fonti (G. Ferrari, Codificazione giustinianea e leggi romane dei Barbari, in Nuova Antologia, novembre 1926).
Nel Digesto sono raccolti i frammenti delle opere dei giureconsulti classici e nonostante le modificazioni subite nei secoli di trasmissione diplomatica e scolastica e quelle più recenti dovute ai compilatori giustinianei per adattarle ai tempi, se ne trae una pittura abbastanza fedele del mondo pagano. Nella legislazione giustinianea molti sono i detriti di epoche storiche precedenti, notevoli gli anacronismi, in confronto all'ambiente sociale del secolo VI (G. Ferrari, Ricerche sul diritto ereditario in Occidente nell'Alto Medioevo, Padova 1914, p. 14).
Quantunque, secondo Giustiniano, la sua codificazione dovesse costituire un'unità, un grande codice di cui i singoli articoli erano ridotti allo stesso denominatore (v. B. Brugi, Istituzioni di diritto romano [dir. privato giustinianeo], 3ª ed., 1926, § 6), tuttavia è pur sempre un aggregato di materiali di varia origine e di varie epoche. I frammenti delle Pandette e del Codice sono studiati dalla romanistica moderna in modo da sceverare la parte classica e genuina dalle soprastrutture e incrostazioni dovute ai Bizantini. La conoscenza del diritto nuovo si deduce dalle leggi schiettamente giustinianee e quindi soprattutto dalle Novelle (νεαραὶ διατάξεις). Di queste la maggioranza è scritta in greco e fu promulgata fra gli anni 535-540. Nella costituzione Cordi, § 4, era stata prevista l'eventualità d'una raccolta ufficiale, ma questa non fu mai compiuta. Ahbiamo, invece, delle raccolte private (di Giuliano, l'Epitome Novellarum, l'Autentico, la raccolta delle CLXVIII Novelle). È sintomatico il fatto che sono scritte in latino le Novelle che si riferiscono all'andamento degli uffici statali di Costantinopoli (cfr. Krüger, Geschichte der Quellen, 2ª ed., p. 400, n.1), e ciò per la posizione ufficiale che teneva il latino. Del resto, in un luogo (Nov., 66, c.1, §, 2 a. 538), è detto esplicitamente che la lingua greca viene adoperata per farsi intendere dalla maggioranza dei sudditi, mentre il latino ha maggiore dignità per la struttura stessa dello stato (ϕωνὴ... κυριωτάτη διὰ τὸ τῆς πολιτείας σχῆμα).
Il cristianesimo esercitò notevole influenza sulla legislazione giustinianea, specialmente sulle costituzioni dell'imperatore stesso, che sono la parte inequivocabilmente bizantina della sua codificazione. Molte norme giuridiche si uniformarono alla morale cristiana, e il diritto romano classico, che è un prodotto della civiltà pagana, doveva necessariamente subire l'influenza del nuovo ambiente sociale. Per quel che riguarda i diritti patrimoniali si deve notare che fonte precipua per la conoscenza della successione testamentaria, dei diritti reali, delle obbligazioni è il Digesto, mentre scarse disposizioni si trovano nel Codice e nelle Novelle, dimodoché le innovazioni non possono essere state introdotte che mediante interpolazioni. Dal che si può dedurre, già a priori, che, in complesso, il sistema romano classico non può essere stato mutato sostanzialmente. Così è dubbio che il nuovo ordinamento della successione ab intestato, basata sulla parentela naturale, sia dovuto al cristianesimo, come riteneva Troplong (De l'influence du Christianisme sur le droit civil des Romains, Louvain 1844), perché il dissolversi della famiglia agnatizia si riscontra già nell'età classica, e nelle riforme del diritto pretorio (A. Marchi, Dell'influenza del cristianesimo sulla codificazione giustinianea, in Studi Senesi, 38 [1924], p. 89 segg.). Ma, se è controversa l'influenza del cristianesimo nel campo dei diritti patrimoniali, vi sono, invece, altre zone giuridiche in cui la nuova religione determinò notevoli innovazioni. I primi tredici titoli del Codice Giustiniano e numerose novelle si riferiscono all'ius sacrum. Il basileus cura la purezza della fede ortodossa. L'idea della castità è esaltata, e si ripercuote anche sul diritto di famiglia, sebbene in questo non tutto sia dovuto al cristianesimo; la figura della matrona romana, moralmente elevatissima, era circondata di riverenza anche nella famiglia pagana.
Il sistema di amministrazione finanziaria dello stato, introdotto da Diocleziano e da Costantino il Grande, e che ancora perdurava al sec. V, come si può dedurre dalla testimonianza della Notitia Dignitatum, fu rimaneggiato da Giustiniano. La Nov. 154 (non datata) mostra la struttura dei dipartimenti finanziarî centrali identica a quella che si rileva dalla Nov. 1 di Giustino II, dell'a. 566 (Zachariae, Ius Gr.-Rom., III, coll.1; vedi anche la Nov. di Tiberio, 6, del 575). Nelle provincie l'amministrazione delle finanze e la riscossione delle imposte era compito dei governatori, che operavano mediante i curiali. Solo il governatore era in rapporto con le casse centrali dello stato. Il sistema dura ancora nel sec. VII (v. la Nov. di Giustino del 569, Ius Gr.-Rom., III, coll. I, Nov. 5). Un cambiamento si riscontra più tardi all'epoca dell'organizzazione militare dei temi, ma della riscossione delle imposte, che ancora nel sec. VI era la più importante incombenza dell'amministrazione cittadina, non si fa nemmeno allusione nelle Novelle di Leone il Filosofo (46 e 67) che soppressero ufficialmente il decurionato, talché se ne dedusse che, già prima, quell'incombenza più non spettasse alle città (v. Dölger, op. cit., pp. 67, 74 seg.).
Mediante la Pragmatica sanctio pro petitione Vigilii, trasmessaci solo in un sunto, e che si può forse riguardare come il testo unico delle disposizioni transitorie, promulgate in occasione dell'annessione, le compilazioni giustinianee (iura insuper vel leges codicibus nostris insertas [Sanct. pr., c. 11]) furono estese all'Italia riconquistata. La penisola diventò un territorio giuridico incorporato al resto dell'Impero, e in Italia il diritto giustinianeo venne in contatto con il diritto romano teodosiano, che gli Ostrogoti avevano rispettato. Questa situazione perdurò fino all'immigrazione dei Longobardi, che, ben presto, si affermarono nell'Italia settentrionale e in Toscana. L'unità della penisola è spezzata, all'Italia longobarda si contrappone l'Italia bizantina. E questo dualismo domina per secoli la storia nostra. Naturalmente i varî avvenimenti politici modificarono la struttura delle due porzioni di territorio, e l'influenza bizantina fu limitata in zone sempre più ristrette in relazione con le vicende politiche. Centro del governo bizantino in Italia era Ravenna, dove governavano gli esarchi, in nome del basileus. La chiesa ravennate, per privilegio imperiale del sec. VII, fu dichiarata autocefala (v. autocefalia), tentando gl'imperatori di farne un contraltare a Roma. Nel nord le isole veneziane, prima della costituzione del dogado, erano un angolo di territorio bizantino che faceva parte dell'antica provincia Venetia et Histria, posta sotto il comando di un magister militum, agli ordini dell'Exarchus Italiae, che aveva sua sede a Ravenna. Ciò è dimostrato dall'iscrizione di Torcello del sec. VII edita e illustrata da V. Lazzarini (Atti del Reale Istituto Veneto, LXXIII, parte 2ª, 1913-1914, pp. 387-397)
La Sardegna, che apparteneva all'Esarcato d'Africa (come le Baleari), sostenne felicemente l'urto longobardo (vedasi l'iscrizione greca di Porto Torres recentemente scoperta, dell'epoca forse di Costantino Pogonato, facsimile pubblicato da Taramelli, in Rivista Mediterranea, settembre 1927, cfr. anche G. De Sanctis, in Rivista dí filol. e istruz. classica, 1928 e G. Ermini, in Rivista di storia del dir. ital., 1928, p. 346 segg.).
Nella prima metà del sec. VIII, all'epoca di Leone Isaurico, Roma costituiva un territorio amministrativo indipendente dall'esarca. Anche Napoli pare si sciogliesse in questi anni dalla dipendenza dell'esarca.
Sotto Astolfo, con la conquista di Ravenna (751) da parte dei Longobardi, termina l'esarcato. Nel mezzo del sec. IX la Pentapoli viene in possesso papale, ma la vecchia organizzazione amministrativa bizantina vi sopravvive (Hartmann, op. cit., p. 65; cfr. E. Stein, Zur Gesch. v. Ravenna. in Klio, XVI, 1919, p. 40 segg.).
Nell'Italia meridionale, dove il dominio greco seppe mantenersi a lungo, dopo la perdita di Roma e Ravenna, si trova la stessa organizzazione. Alla fine del sec. VIII, sull'esempio di quanto avevano fatto in Oriente, i Greci organizzarono il tema di Sicilia che comprendeva anche la Calabria. Nel sec. IX fu creato il tema Λογγοβαρδίας. L'organizzazione ne fu prettamente militare. Lo stratego era il comandante in capo, e tutti i funzionarî (turmarchi, comites, tribuni) da lui dipendevano. Al sistema di difesa che s'imperniava sui themata, si riferiscono numerose costituzioni imperiali concernenti τὰ στρατιωτικὰ κτήματα (Hartmann, op. cit., p. 164). L'obbligo militare sorgeva come un onere reale dal possesso di dati immobili iscritti nelle liste militari (οἱ στρατιωτικοὶ κώδικες). Anche in Oriente l'amministrazione militare aveva preso il luogo di quella civile, e la gerarchia militare era la stessa che in Italia. Anche qui c'era la tendenza, da parte dei superiori e anche delle chiese, di porre sotto la propria dipendenza i contadini soldati per disporre delle loro terre. A Leone Isaurico i territorî di Roma, di Ravenna, di Sicilia dovevano apparire come qualsivoglia altro tema del suo impero. Notevoli nell'Italia meridionale sono le colonie greche di Puglia e di Calabria che si affermarono dopo il sec. IX, con soluzione di continuità, nonostante recentemente si sia tentato dimostrare il contrario, dallo scomparso ellenismo della Magna Grecia; anche dopo la conquista normanna e anche dopo la caduta di Bari, sede del catapano (1071), esse costituiscono altrettante oasi greche; l'organizzazione del κάστρον bizantino fu rispettata dal diritto feudale normanno. I negozî giuridici venivano redatti su modelli greci (cfr. B. Ferrari, I documenti greci medievali di diritto privato, in Byz. Archiv, IV, 1910; erroneamente Lenormant, in La Grande Grèce, II, p. 385, aveva affermato che i formularî dei diplomi pugliesi e calabresi greci dei secoli X e XI appartenevano al diritto longobardo).
Ai Greci dell'Italia meridionale era destinato il Prochiron Legum del cod. Vat. gr. 845, edito da F. Brandileone e Puntoni (Fonti dell'Istituto storico italiano, Roma 1895). Fu composto nelle contrade calabresi intorno a Cosenza, ed essendovi reminiscenze della Epitome legum non può essere anteriore al 920. La redazione primitiva pare si debba porre verso la fine del sec. X, quando dopo la sconfitta subita da Ottone II nel 982, la potenza bizantina s'era sollevata ad altezze mai più vedute dopo Giustiniano. Ma facendovisi spesso cenno al re del paese, un'ulteriore recensione non può essere anteriore al sorgere della monarchia normanna, e pare debba ascriversi alla metà del sec. XII, ai tempi di re Ruggiero, che dimostrò una grande attività legislativa in varî campi (Brandileone nella prefazione alla sua edizione; v. anche in Bullettino Ist. stor. ital., n. 16 e Studi e doc. di storia e diritto, 8).
Alla Magna Grecia o alla Sicilia deve fors'anche attribuirsi la Ecloga ad Prochiron mutata (o come Zachariae avrebbe anche voluto chiamarla ad epitomen mutata), dei secoli X-XII, edita da Zachariae von Lingenthal (Ius Gr.-Rom., IV, Lipsia 1865). Ha notevoli infiltrazioni barbariche (v. le citazioni in Zachariae, Ius Gr.-Rom. cit., p. 52); e mostra analogie, nel sistema delle pene, con quelle dell'Editto di Rotari nei frammenti di versione greca (pubblicati da Zachariae, Heidelberg 1835, dal cod. Paris. gr. 1384). Ma per le penalità del tit. XVIII, cc. 39, 40, ignote ai Germani e agli Slavi, Zachariae (nei prolegomeni alla sua ediz. del Prochiro, 1837, p. cl111) crede abbia subito l'influenza del diritto musulmano; e opina, inoltre, che il suo autore sia vissuto lontano da Costantinopoli, e sotto il regno di Leone il Filosofo, perché non cita mai le Novelle degl'imperatori a questo posteriori.
Le ripercussioni in Italia dell'Ecloga isaurica e, in genere, della legislazione bizantina, costituiscono un capitolo fondamentale della storia del diritto italiano (v. Besta, Legislazione e scienza giuridica, nell'opera sulla Storia del diritto italiano già diretta da Del Giudice, I, 1923, pp. 168, 284, 352 e letteratura ivi). Il diritto greco-romano, essendo stato in vigore in vastissime zone della penisola appenninica, costituisce uno dei sistemi giuridici che formano parte integrante della storia del diritto italiano. Speciali benemerenze, in questo campo di studio, si acquistarono in particolar modo N. Tamassia e F. Brandileone (v. le guide bibliografiche di A. Solmi su La storia del diritto italiano, Roma 1922 e di P. Egidi su La storia medioevale, 1922).
Per i rapporti fra Venezia e il Levante è interessante l'archivio del duca di Candia. Oltre il Capitulare Cretense degli anni 1298-99, è notevole la Pax Calergii del 1299, perché le condizioni della pace sono talmente specificate da gettar luce su ogni genere di rapporti giuridici, sia di diritto pubblico sia di diritto privato (v. E. Gerland, Das Archiv des Herzogs von Kandia in Kgl. Staatsarchiv zu Venedig, 1899, e l'ottima recensione di Zdekauer, in Rivista ital. per le scienze giuridiche, XXIX, 1900, p. 209 segg.).
Bisanzio esercitò anche in Egitto grande influenza, dato che apparteneva allo stesso ambiente culturale. Giustiniano, forse dalla promulgazione della pragmatica sanctio de reformanda Italia, prese incentivo alla riforma amministrativa dell'Egitto, cui diede opera con la legge relativa alla diocesi egiziana, che solo l'indice del codice Marciano delle Novelle annovera come 13° νόμος in aggiunta ai 12 editti giustinianei, e che Scrimgerus nell'a. 1558 pubblicò come" "Εδικτον, divenendo poi comune questa intitolazione. Zachariae, nella sua edizione (De dioecesi aegyptiaca, Lipsia 1891, p. 6), crede sia stata pubblicata nel 554, altri autori inclinano a credere nel 538 (cfr. M. Gelzer, Studien zur byz. Verwaltung Ägyptens, 1909, p. 22 seg. e Wilcken, Chrest. der Papyrusk., p. 75).
Mentre, fino allora, la diocesi egiziana, sotto la direzione dell'augustalis, era sottoposta, come unità amministrativa, al praefectus praetorio Orientis, fu ora divisa in nove provincie separate, delle quali ciascuna dipendeva, direttamente, dal praefectus praet. Orientis e che costituivano cinque circoscrizioni. Oltre i due Egitti, Augustamnica e Tebaide, vi era la Libia, che, con l'aggiunta delle città di Mareotes e Menelaites, tolte all'Egitto, diventò αὐτάρκης (c. 18). Il Libycus limes, negli affari civili e militari, era sottoposto al dux, di fronte al quale l'augustalis non aveva più competenza, come si torna a dire nel canone 19. Le nove provincie sono anche annoverate da Giorgio Kyprios (Descriptio orbis Romani, ed. H. Gelzer) nel suo elenco scritto intorno al 600. Presso di lui c'è però anche l''Επαρχία Τριπόλεως (su cui H. Gelzer, p. xliv). Questa organizzazione rimase fino al cessare della signoria bizantina. Giustiniano, come per tutte le altre diocesi, anche per l'Egitto trasformò il sistema dioclezianeo, che si basava sulla divisione dei poteri, riunendo nelle mani dei governatori anche la potestà militare. Non riuscì, tuttavia, a rompere l'onnipotenza dei signori feudali e dei grandi funzionarî, il potere dei quali era divenuto pericoloso già nel secolo precedente. Mentre l'autorità del governo imperiale decadeva, i latifondisti avevano assunto una posizione di predominio, finché il governo aveva dovuto riconoscere il sistema del patrocinio, tenendo responsabili i patroni per le imposte. In principio del sec. V i latifondisti erano riusciti ad aprire una breccia nell'organizzazione municipale romana vigente in tutto l'Impero, che era stata introdotta in Egitto al principio del sec. IV, allorquando le civitates, con le relative circoscrizioni e i proprî funzionarî (curator, defensor, exactor), avevano sostituito i vecchi νόμοι coi relativi strateghi greci. Al sec. V i contadini con le loro terre, cadendo nelle dipendenze del signore, divennero εναπόγραϕοι, e la riscossione delle imposte fu affidata ai latifondisti, in modo che la città cessò dall'essere la sola unità amministrativa (vedi M. Gelzer, Studien zur byz. Verwalt. Ägyptens, p. 79 segg.). Più tardi anche i villaggi liberi godettero di un proprio diritto di esazione delle imposte (αὐπόπρακτον σχῆμα). Un altro fenomeno notevole è l'esteso potere politico che assumono i patriarchi d'Alessandria nonché il maggiore sviluppo della giurisdizione ecclesiastica: il pap. Lips., 43 (Mitteis, Chrest., 98), del IV secolo, è l'esempio più antico d'una episcopalis audientia. In presenza di preti cristiani si concludevano negozî giuridici (vedi anche H. I. Bell, The episcopalis Audientia in Byzantin Egypt, in Byzantion, I, 1924, p. 139 segg.). Anche dai tribunali vescovili d'Egitto pare si applicasse il cosiddetto Libro di Diritto Siro-Romano, sorto probabilmente nella cancelleria patriarcale di Antiochia e che, in taluni luoghi, resistette, con successo, alla stessa codificazione giustinianea (vedi Kübler, Gesch. des röm. Rechts, 1925, pp. 398-99)
Scomparso nel sec. IV d. C. il documento greco scritto da un pubblico funzionario (ἀγοραννόμος), dominò, nell'epoca bizantina, il chirografo privato in forma di lettera, e, per la locazione-conduzione, in forma di ὑπόμξημα (che contiene la richiesta di concessione). I documenti erano scritti da notai privati (συμβολαιογράϕοι). L'epoca bizantina d'Egitto è finora poco studiata, il materiale numeroso concernente la storia giuridica si trova indicato nell'Archiv f. Papyrusforschung, ed. dal Wilcken, nella Zeitschrift der Savigny-Stiftung, Röm. Abt., e altrove. Di studî particolari oltre il citato di Gelzer si veda dello stesso autore: Altes u. Neues aus der byz. Verwaltungsmisere, in Arch. f. Papyrusforschung, V, p. 346; H. I. Bell, The byz. servile State in Egypt, in Arch., IV (1917), p. 86; J. Maspero, Organisation militaire de l'Égypte byzantine, Parigi 1912.
La compilazione giustinianea provocò in Oriente una pleiade di elaborazioni scolastiche, che in parte si connettono alla letteratura, che si trasmetteva, in via tralatizia, da un secolo all'altro. Giustiniano, a proposito della elaborazione dei Digesti (costituzione Deo auctore, § 12, c. Tanta [δέδωκεν], § 21), per evitare, in materia d'interpretazione, le controversie scolastiche, aveva proibito i commentarî critici, permettendo solamente quelle traduzioni letterali (κατὰ πόδα) che pare siano state diffuse dall'uso delle versioni ufficiali di rescritti (cfr. Peters, Die oström. Digestenkommentare, in Berichte der kgl. sächsischen Gesellschaft der Wiss., LXV, 1913,1, p. 42, n. 114) ma che sono anche note alla letteratura teologica (P. Krüger, Gesch. d. Quellen, 2ª ed., p. 406; Wölfflin, Archiv f. Lexikographie, IX, p. 82 segg.); e inoltre tollerando gli admonitoria per Indices, ossia la raccolta di estratti dai singoli passi, e i παράτιτλα, che secondo Heimbach (Bas., VI, p. 3) indicherebbero la stessa cosa, mentre Zachariae (Krit. Jahrbücher f. deutsche Rechtsw., 1844, p. 795) crede che gli Indices dovessero tenersi distinti dai παράτιτλα, intendendosi per questi ultimi sia semplici luoghi paralleli ai singoli estratti (παραπομπαί), sia e soprattutto supplementi agl'interi titoli, composti di disposizioni tolte da altri titoli o altri libri giuridici, e che si riferivano allo stesso argomento. La concezione di Zachariae è accolta da Krüger (Gesch. d. Quellen, p. 406, n. 3) il quale nota che la letteratura più recente distingue i παράτιτλα dagli Indices. Non è detto nelle fonti che queste disposizioni restrittive giustinianee si applicassero anche al Codice e alle Istituzioni, ma è certo che in pratica non furono osservate, essendo impossibile che l'attività delle scuole si potesse adattare a quelle angustie, ed essendo troppo stretti i rapporti fra la scuola e la pratica forense. Ben presto dilagarono commentarî esegetici d'ogni sorta (ἑρμηνεῖαι, πλάτοι, παραγραϕαί). Né mancano autori moderni che, da un lato, connettono simili elaborati all'attività delle scuole pregiustinianee e specialmente a quella di Berito (su cui v. Collinet, Histoire de l'école de droit de Beyrouth, 1925) e che ne seguono dall'altro l'influenza esercitata sulle scuole d'occidente (Pringsheim, Beryt u. Bologna, in Festschrift Lenel, 1921, p. 204 segg.; e già Tamassia, in Archivio giur., XL, 1888 e Odofredo, 1894, contro Landsberg, Zeitschr. Sav.- Stift., IX, 423 segg.). Il distinguere dei glossatori e della scolastica di Abelardo ha modelli classici (v. Dig., XXXXV,1, de verb. oblig., 56, 8; E. Genzmer, Quare glossatorum, in Gedächnisschrift f. E. Seckel, in Abhandl. Berlin. Jurist. Fakultät, 1927, p. 6).
La letteratura greco-romana del sec. VI ci è stata trasmessa in modo frammentario e quasi esclusivamente nel testo (κείμενον) e negli scolî dei Basilici.
Delle Istituzioni ci fu conservata la parafrasi di Teofilo, della cui paternità, senza sufficienti argomenti, dubitò il Ferrini (cfr. Zachariae, in Zeitschr. der Sav.-Stiftung, X, p. 257 ricredendosi) e della quale è sempre utilissima l'edizione Reitz (L'Aia 1751) anche dopo quella di Ferrini (Berlino 1884 segg.). Alcune notizie storiche Teofilo le attinge da Gaio (vedi Brokate, De Theophilinae quae fertur Iustiniani Instit. Graecae paraphraseos constitutione, Strasburgo 1886). Anteriormente alle Istituzioni, Teofilo aveva commentato il Digesto. Il suo commento, del quale abbiamo frammenti che si riferiscono alle prime tre parti dei Digesti (τὰ πρῶτα, de iudiciis et de rebus) sorse, come gli altri commentarî, dalla interpretazione ai Digesti che Teofilo teneva in scuola (Heimbach, Bas., VI, p. 32). Abbiamo poi, dei Digesti, il commentario (index) di Doroteo, antecessore a Berito e che pare sia stato da lui pubblicato poco dopo il 542 (Heimbach, p. 36, n. 3). Un altro commentario era quello di Taleleo. Più ampio e recente di tutti è il commentario di Stefano (ὁ ἴνδιξ) che utilizza commentarî più antichi e anche Teofilo. Matteo Blastares, parlando di tal commentario nella prefazione al Syntagma canonum, dice di Stefano: Digesta εἰς πλάτος edidisse. La parola ἔκδοσις è tecnica per queste elaborazioni scolastiche (v. Heimbach nella rec. alla Delineatio di Zachariae in Krit. Jahrb. f. deutsche Rechtswiss., III, 1839, p. 989). Un'analisi dell'ἴνδιξ di Stefano è fatta da C. G. Heimbach (Bas., VI, p. 49 segg.) che lo scompone nelle sue parti costitutive. Di Cirillo narra Matteo Blastares che commentò i Digesti κατ'ἐπιτομήν. Negli scolî al libro VIII dei Basilici il suo commento talvolta è chiamato ἑρμηνεία, ma quantunque Cirillo sia detto ἰνδικευτής come Stefano (Heimbaeh, VI, p. 57 nota 3), pure negli scolî Basilici non è mai usata la parola ἴνδιξ, ma bensì ἡ τοῦ Κυρίλλου ἔκδοσις.
Di commentarî al Codice abbiamo i frammenti del cod. LX della Capitolare di Verona pubblicati da Zachariae (Zeitsch. f. gesch. d. Rechtswiss., XV, p. 90 segg.): si riferiscono a costituzioni dei libri 4-8, 11. Nel cod. manoscritto gli scolî parte sono interlineari, parte marginali e sono simili al commentario di Taleleo al Codice, ultimato intorno all'anno 535. Taleleo fu il più celebre fra i commentatori del Codice ed è chiamato per antonomasia ὁ κωδικευτής. Il commento è detto Index e da tardi autori anche ἑρμηνεία o πλάτος. Quando le costituzioni erano in latino c'è il κατὰ πόδα e vi sono poi aggiunte le παραγραϕαί. È notevole per l'ampiezza e per i richiami al diritto del sec. V e alle controversie scolastiche, e al fatto che occasionò la costituzione. Frequente vi è l'uso di domande-risposte (ερωταποκρίσεις). Le Novelle non sono prese in considerazione. Il κατὰ πόδα sembra preesistesse alle altre parti del commentario tanto che si espresse l'opinione che originariamente questo fosse stato composto sulle tracce del vecchio Codex giustinianeo dell'anno 529 e che solamente in un secondo tempo fosse stato adattato al Codex repetitae praelectionis (Krüger, Gesch. der Quellen, p. 411). Per la restituzione del commentario di Taleleo giova il Manuale Basilicorum del Heimbach (cfr. Bas., VI, p. 76).
Un'altra ἔκδοσις del Codice è quella d'Isidoro, conservataci parzialmente negli scolî Basilici (lib. VIII, tit. 53-56). Abbiamo poi frammenti d'un commentario di Stefano (editi da Zachariae, Anecdota, p. 176 seg.; Mortreuil, Hist., I, p. 148 segg.) e che esistono anche nell'appendice dell'Ecloga Isaurica (cfr. Heimbach, VI, p. 78, 95, 2), e frammenti di un indice di Teodoro scolastico da Ermopoli (che si dice ὁ διατάζεων ἐξηηγητής) in cui si rimanda ai luoghi paralleli del Codice e delle Novelle (v. Zachariae, Anecdota nei Prolegomena al Breviario delle Novelle di Teodoro, e in Krit. Jahrb. f. d. Rechtswiss., 1844, p. 816, cui segue Heimbach, VI, p. 80, § 6).
Delle Novelle è conservato il Breviario di Teodoro Scolastico da Ermopoli in Egitto, che prende a fondamento la collectio delle CLXVIII Novelle, seguendone l'ordine. Fu pubblicato da un codice del monastero di Laura al monte Athos da Zachariae nel 1843 (Anecdota). L'estratto fu composto probabilmente all'età di Maurizio (582-602) ed è analogo al lavoro che si riferisce al Codice. Un'altra epitome greca delle Novelle, in XXII titoli secondo un sistema per materie, si deve ad Atanasio Scolastico da Emesa in Siria. Si fecero due recensioni di tal lavoro. La seconda ci pervenne nel cod. manoscritto dell'Athos succitato e nel cod. Paris. gr. 1381. Fu fatta regnando Giustino II (565-578). L'epitome fu molto usata nei libri, sia di diritto canonico sia di diritto civile, fra i quali nell'Ecloga isaurica (Heimbach, Bas., VI, p. 87, n. 2). L'opera fu, la prima volta, pubblicata da Heimbach iun. (Anecdota, I, 1838). Si ignora su quale raccolta di Novelle si basasse. Esistono anche insignificanti frammenti di altri commentarî sulle Novelle giustinianee (Heimbach, Bas., VI, p. 87 e 89 segg.).
Dell'epoca giustinianea è la raccolta di 21 costituzioni greche del I libro del Codice 1-4, la quale costituiva l'appendice a una collezione di canoni che andò smarrita. È conosciuta col nome moderno di Collectio XXV capitulorum, perché vi si comprendono quattro Novelle che si trovano aggiunte nei manoscritti più recenti. Essa fu pubblicata da G. E. Heimbach, in Anecdota, II, Lipsia 1840, p. 145 segg. (varianti presso Pitra, Iuris eccles. Graecorum historia et monumenta, II, 1868, p. 407). Di questa raccolta si valse il Krüger nella sua edizione del Codice, 1877 (cfr. prefazione, p. X).
Altra simile appendice, nota col nome di Collectio LXXXVII capitulorum, consistente in varie Novelle e indici di Novelle fu aggiunta da Giovanni Scolastico Antiocheno (morto nel 578) alla sua raccolta di canoni (edita da G. E. Heimbach, Anecdota, II, 1840, p. 202-34 e da Pitra, Iuris eccl. Graec. hist. et mon., II, 1868, p. 385 segg.; cfr. Zachariae, in Zeitschr. Sav.-St., VIII, p. 236 segg.).
C'è poi la Collectio constitutionum ecclesiasticarum tripartita (stampata in Voellus, II, p. 1223 segg., qualche variante in Pitra II, p. 410 segg.) che consiste in una compilazione di disposizioni ecclesiastiche contenute nei libri e nelle Novelle giustinianee, aggiunta come appendice a un repertorio di canoni in 14 titoli, nonché quattro Novelle di Eraclio (cfr. Mortreuil, Hist., I, p. 343 segg.).
Più tardi queste due ultime collezioni furono trasformate in Nomocanoni, mediante fusione delle fonti ecclesiastiche (κανόνες) con le fonti laiche (νόμοι), e ciò andò di pari passo con lo sviluppo del cesareopapismo per cui il basileus fondava la propria sovranità sul principio teocratico e s'ingeriva in materie ecclesiastiche (v. Gelzer, Das Verhältniss von Staat u. Kirche in Byzanz, in Hist. Zeitschr., 1901, p. 195 segg.). Anche Giustiniano prese sempre parte nelle controversie dogmatiche, e parificò esplicitamente i canoni alle leggi (Cod.1, 3, 45; Nov. 6 c. 1 § 8; Nov. 131 c.1.; Biener, Geschichte der Novellen, 1824, pp. 157-58).
Dall'opera di Giovanni nacque il Nomocanon L titulorum (Voellus, II, p. 603 s., aggiunte in Pitra, II, p. 416 seg.). L'altra collezione fu trasformata da Enantiophanes in Nomocanon XIV titulorum, aggiungendovi alcunché dalle fonti (Zachariae, Über den Verfasser u. die Quellen des Pseudo-Photianischen Nomocanon, nei Mémoires dell'Accademia di Pietroburgo, XXXII, 1885, n. 16).
Questo nomocanone in epoche successive subì varie modificazioni. Ve n'è una dell'anno 883, falsamente attribuita al patriarca Fozio; un'altra recensione fu fatta da Teodoro Bestes intorno all'anno 1090 (sono insieme stampate da Pitra, II, p. 445 segg.). Utili anche per la critica delle fonti giustinianee (v. Krüger, in Zeitschr. f. Rechtsgesch., II, 1870, p. 185 segg. e Gesch. der Quellen, 2ª ed., p. 415). In fine va notata la compilazione di Teodoro Balsamone (stampata da Voellus, II, p. 781 segg. e nel Σύνταγμα di Rallis e Potlis, I-IV, 1852) del sec. XII fino ad oggi usata nella chiesa greca (v. in genere Zachariae, Die griechischen Nomokanones, nei Mémoires dell'Accademia di Pietroburgo, XXIII [1877], n. 7, e dello stesso: Die Handbücher des geistlichen Rechts aus den Zeiten des untergehenden byz. Reiches u: der tu̇rkischen Herrschaft, Mémoires cit., tomo XXVIII, 1881, n. 7).
Di altre opere giuridiche si fa menzione negli scolî dei Basilici. Così del μονόβιβλος περὶ ἐξαξτιοϕαξειῶν. Il suo autore, secondo l'ordine e la serie dei libri dei Digesti, cerca di conciliare le contraddizioni che vi appaiono. Il suo autore è chiamato dai Greci o ὁ ἐναντιοϕανής. In altri scolî basilici (ed. Heimbach, I, p. 572, sch. ὁ δέ) si cita: ὁ τοῦ Κωμβιδίου ποινάλιος, del quale esistono anche frammenti nell'appendice dell'Ecloga isaurica.
Del sec. VII abbiamo poi quello scritto, attribuito ad Eustazio antecessore costantinopolitano, de varia temporum in iure civili observatione (περὶ Χρόνων καὶ προϑεσμιῶν) che Zachariae pubblicò nel 1836 col nome di αἱ ῥοπαί, dal cod. bibl. Senat. Lips. I, 66, mentre precedentemente si conosceva in altre edizioni.
Nell'epoca postgiustinianea l'ius scriptum è dato dai libri giustinianei usati con l'aiuto delle diverse ἐκδόσεις greche, nonché dalle costituzioni dei successori di Giustiniano (pubblicate da Zachariae nella parte III del suo Ius Graeco-Romanum, 1852, nella Collatio I). Di tutti i documenti imperiali noti dà il regesto F. Dölger nei suoi Regesten (I, 1924).
Nei secoli VIII-IX le opere e la letteratura dottrinale dei secoli VI e VII fu rielaborata, in forma di estratti, in codici legislativi e in altre raccolte. La legislazione giustinianea, nelle parti scritte in greco, fu utilizzata direttamente.
In contrapposizione ai manuali privati vi è un gruppo di manuali ufficiali, promulgati dagli stessi imperatori, e che furono paragonati alle Istituzioni imperiali, perché miravano a facilitare l'uso delle leggi e perché la loro validità coesisteva con quella del sistema giuridico giustinianeo, in misura non bene accertata. Essi sono: l'Ecloga isaurica, il Prochiro di Basilio e l'Epanagoge.
L'Ecloga fu promulgata da Leone Isaurico e Costantino Copronimo. Ciò fu visto per primo da Biener (Revision des Just. Codex, p. 224 segg. Cfr. Zachariae, Delineatio, § 10 e 27). La data di promulgazione è il marzo 740. Quanto sostiene Ginis (Byz. Z., XXIV, 1924, p. 346 segg.) a favore di un precedente disegno legislativo da attribuirsi al 726 non pare convincente (Dölger, Regest., I, 304).
Gl'imperatori, come si rileva dalla Novella introduttiva, che non è trasmessa in forma di documento separato, ordinarono la redazione del manualetto per i bisogni della pratica giudiziaria, perché servisse di traccia ai giudici nel decidere le cause che si dibattevano più di frequente nei tribunali. A Zachariae (ὁ προχ., p. xlvi, n. 117) sembra che, anziché con le Istituzioni imperiali, abbia una certa analogia con l'Editto di Teodorico Ostrogoto, in quanto al metodo di compilazione. Ma riesce difficile indicarne le fonti; molte disposizioni sono nuove e d'origine consuetudinaria. Il manualetto s'intitola: Ecloga ἀπὸ τῶν 'Ινστιτούτων τῶν Διγέστων τÎν Διγέστων τοῦ Κώδικος τῶν Νεαρῶν di Giustiniano, ma vi si aggiunge: καὶ ἐπιδιόρϑωσις εἰς τὸ ϕιλανϑρωπότερον. Come gl'imperatori dicono nel proemio, per il fatto che in molti libri si trovavano sparse le leggi dei predecessori (ἐ πολλαῖς βίβλοις τὰ ὑπὸ τῶν προβεβασιλευκότων νενομοϑρτημένα), difficili ad aversi, specie per chi abitasse lontano da Costantinopoli, ordinarono a una commissione, composta del questore, di consoli e patrizî (dei quali taluni mss. ci conservarono i nomi di Niceta, Marino, e Nonno), di comporre, traendolo sia dai libri giustinianei, sia dalle proprie Novelle recenti, un nuovo libro da applicarsi nel giudicare le ordinarie cause civili e nella punizione dei delitti (διά τε τῶν ἐν ταῖς αὐταῖς βίβλοις ... διά τε τῶν παρ‛ ἡμῶν νεαρῶς ϑεσπισϑέντων, ἐπι συχναζόντων πραγμάτων καὶ συναλλαγμάτων τὰς κρίσεις, καὶ τὰς καταλλήλους τῶν ἐγκλημάτων ποινάς). Il codice è destinato ai giudici (κοιαίστωρ, ἀντιγραϕεῖς e altri), e, come è detto in fine al proemio, la giustizia doveva amministrarsi gratuitamente.
I giudici dovevano essere stipendiati dal σακέλλιον imperiale (ἐκ τοῦ εὐσεβοῦς ἡμῶν συκελλίου) e non avrebbero dovuto ricevere né ξένια né δῶρα dalle parti contendenti (πρὸς τὸ ἐξ οἱουδήποτε προσώπου παρ' αὐτοῖς κρινομένου μηδὲν αὐτοὺς λαμβάνειν τὸ σύνολον). Però l'effettiva portata pratica di tali disposizioni non riesce del tutto chiara, tanto più che nei Basilici si trovano ripetute quasi integralmente le disposizioni giustinianee sugli ἐκβιβαστικά e altre spese giudiziarie (v. Zachariae, Gesch., 2a ed., § 86 e n. 1268).
Dell'Ecloga ha dato un'ottima edizione lo Zachariae, in Collectio librorum iur. graeco-rom. ineditorum, 1852; una del Monferratos da un codice ateniese (Atene 1889); non è genuino il testo presso Leunclavius, Ius graeco-rom., II, p. 133. Una ristampa dell'ed. Zachariae con versione francese diede C. A. Spulber (L'Èclogue des Isauriens, Cernăuli 1929).
All'Ecloga titolo II sembra si riferisca, in modo esplicito (con le parole: τὰ οὖν προειρημένα ἐν τῷ β' τίπλῳ) una Novella di Irene (già stampata da Zachariae, Delineatio, p. 115, e poi in Ius Gr.-Rom., III, coll.1, 28), che proibisce le terze nozze, la quale funzionerebbe come i capitularia ad leges barbarorum adiecta. Anche una Novella di Leone Cazaro e Costantino, del 766, cita, come diritto pratico, la successione ab intestato dell'Ecloga, e altre di Irene vi si riferiscono in varie materie, fra l'altro di redazione scritta di contratti (Siciliano, Diritto biz., pp. 48-49)
Della stessa epoca (740) sono:1) il νόμος γεωργικός, che figura spesso in appendice all'Ecloga, codificazione di consuetudini giuridiche di villaggi di contadini liberi e specialmente disposizioni di polizia (ediz. di Ashburner, Journ. of Hellen. St., XXX, 1910, p. 85 segg. e XXXII, 1912, p. 77; Dölger, Reg., 305 e Byz. Arch., IX, p. 66), 2) il νόμος στρατιωτικός, contenente punizioni pet i militari, Lompreso nella Tacnca Leonis che Zachariae (Byz. Z., II, 1893, p. 608) ascrive a Leone III. Fu pubblicato da Zachariae (Byz. Z., III, 1894, p. 437 segg.). L'ultima edizione delle Tactica è di R. Vári, Sylloge tacticorum Graecorum, III (Budapest 1917).
Il Νόμος ναυτικός (‛Ρόδιος), è una raccolta di disposizioni concernenti il diritto marittimo. Ne abbiamo parecchie edizioni. Zachariae la pubblicò come titolo 40° dell'Ecloga ad Prochiron mutata (Ius Gr.-Rom., IV, pp. 162-170) ma il testo è molto alterato e l'edizione su un tardo e cattivo ms. (Paris. gr., 1720). Più recente è l'edizione di W. Ashburner (The Rhodian Sea Law, Oxford 1909), preceduta da un dottissimo studio, dove sono trattati i mss. usati, le edizioni esistenti, le origini, i rapporti sia con la giurisprudenza romana e bizantina, sia con i monumenti del diritto marittimo concernenti il bacino mediterraneo nel Medioevo, e si studia poi la legge stessa nei suoi elementi costitutivi (Parte 1ª, Prologo, Parte 2ª, 19 capitolì, Parte 3ª, 47 capitoli). L'origine della legge è controversa: secondo Zachariae (Gesch., p. 316 segg.) apparterrebbe agl'Iconoclasti; per Ashburner (conclusioni a p. cxii segg.) sarebbe stata probabilmente compilata da un privato fra gli anni 600-800, con materiali di epoca e di carattere differenti. La massa deve derivare da consuetudini locali, e ci sarebbero anche tracce, per alcuni capitoli, di origine dall'Italia meridionale. Non ci sarebbe ragione di attribuire le origini comuni alle altre due leggi (agraria e militare) con le quali si incontra nei mss. (Sulla legge Rodia scrisse G.L. Perugi, in Roma e l'Oriente, IV, 1914, passim).
Alla fine del sec. IX l'ius scriptum era sempre rappresentato dall'Ecloga isaurica e dai libri giustinianei, nelle loro ἐκδόσεις greche, ma la legislazione di Giustiniano andava sempre più perdendo il contatto con le mutate condizioni, e d'altro canto, per ragioni politiche, la legislazione degl'Iconoclasti era malvista dalla dinastia macedone (v. proemio del Prochiro, § 2, e della Epanagoge, p. 62, ed. Zach.) e ad ogni modo, per la posizione assunta dagl'Iconoclasti, non riuscì ad affermarsi (cfr. anche Bruns-Lenel, Gesch. u. Quellen des röm. Rechts, in Enzyklopädie der Rechtswiss. di Holtzendorff, 1, 1918, p. 388).
La restaurazione dello stato, iniziata dalla dinastia isaurica, fu condotta a termine da Basilio I fondatore della dinastia macedone, la quale per due secoli (867-1025) condusse una politica di predominio all'esterno, mentre all'interno riusciva a tenere in briglia i grandi proprietarî terrieri (Nov. di Basilio II, del 996, Dölger, Reg. 783). Anche nel campo legislativo, già ab initio, si ripercuote questa effervescenza di vita. Dal Prochiro di Basilio I (edito da Zachariae dall'antico cod. Coisliniano, 209), che godette sempre una grande autorità in tutto l'Oriente, incomincia un nuovo periodo nella storia del diritto greco-romano. Fu promulgato circa l'879 quando Basilio aveva come συμβασιλεῖς Costantino e Leone ed è citato dai Greci con diversi nomi (διάταξις Βασιλείου o ρῶν τριῶν βασιλέων, τὸ τεσσαρακοντάτιτλον, più spesso: ἐγχειρίδιον o ἐγχειρίδιος νόμος). Comunemente si diceva πρόχειρον dall'intitolazione: ὁ πρόχειρος νόμος più frequente nei mss. e dalla autorità di Armenopulo (nella προϑεωρία al suo manuale).
Consta di un proemio e di 40 titoli dei quali gli ultimi 19 sono compilati meno diligentemente dei primi. Molti passi furono presi dalle Istituzioni e dalle Novelle di Giustiniano, pochissimi dal Digesto e dal Codice, ed inizia la repurgatio del diritto civile voluta dai βασιλεῖς. Quanto fu poi pubblicato da Basilio, per emendare la condizione del diritto civile, ha strettissima attinenza col Prochiro, né si può intendere se non si pone con questo in relazione. La grande autorità del Prochiro presso i Greci appare anche dal cospicuo numero di mss. ancora oggi superstiti. Gli ecclesiastici, che avevano bisogno, oltreché delle fonti giuridiche canoniche, anche di quelle del diritto civile, si servivano, a questo scopo, del Prochiro (cfr. Biener, De collect. canonum eccles. graecae, p. 26 segg.; Zachariae, Προχ p. ccviii). Il Prochiro fu tradotto anche in varie lingue slave, e, ai tempi nostri, Edwin Hanson Freshfield ne fece una traduzione inglese premettendovi un'ottima introduzione (A Manual of eastern Roman Law, ecc., Cambridge 1928).
Costantino Armenopulo come base per il suo manuale del secolo XIV, utilizzò il Prochiro, in maniera che questo trapassò in quello. Witte (Rhein. Museum f. Jurisprud., III, p. 59 segg.) pubblicò degli specchi per dimostrare in quale ordine ciò avvenne. Lo stesso Armenopulo (nella προϑεωρία) dice di essersi servito del Prochiro in modo da aggiungere altri 40 titoli ai titoli originali che lo componevano. I passi antichi furono, in margine al ms., da lui contrassegnati signo saturnio (τὸ κρονικόν), i passi nuovamente aggiunti signo solari (τὸ ἡλιακὸν σημεῖον).
L'Epanagoge ('Επαναγωγὴ τοῦ νόμου) è una nuova edizione (repetita praelectio) del Prochiro, emendata e aumentata. Zachariae (προχ., p. lxxx11, nota 99) fa anche l'ipotesi che voglia dire institutio. Fu composta e promulgata regnando gl'imperatori Basilio, Leone e Alessandro (fra gli anni 879-886). Nel proemio si dicono molte cose sull'origine e la natura della legge che pare si connettano a dispute contro l'eresia dei Manichei. Confrontando quanto scrisse Fozio, in quel tempo vescovo di Costantinopoli, contro quella eresia (in varî trattati) vi si scorge una tale affinità da ritenere che gl'imperatori si siano serviti di Fozio per comporre quel Proemio (vedi Zachariae, προχ., p. lxxxiv, nota 105 e sua ediz. dell'Epanag., p. 56), e anche nel contesto ci sono dei passi che paiono d'origine chiesastica. I manoscritti dell'Epanagoge contengono tutti degli scolî scritti durante il regno di Basilio e assai notevoli (vedi Zachariae nei prolegomena alla sua ediz., pp. 56-37). Il loro autore pensava che il diritto giustinianeo dovesse avere la prevalenza e fa notare dove l'Epanagoge se ne scosta.
Ai manuali ufficiali (Ecloga, Prochiro, Epanagoge) si contrappongono i manuali privati, composti di propria iniziativa da giuristi per servire soprattutto all'uso personale di un singolo avvocato praticante (esempî citati da Zachariae, προχ., p: xv, nota 8).
Alla loro volta questi si sogliono suddistinguere in due categorie: a) quelli che non hanno nulla di comune con gli enchiridia ufficiali, come la Sinossi dei Basilici del sec. X in ordine alfabetico (Synopsis maior, Ius Gr.-Rom., VI), l'opuscolo de iure di Michele Attaliata dell'anno 1072 (ed. Sgouta nella Θέμις, VIII, p. 47 e in Leunclavio), la Sinossi in versus memoriales di Psello (ultima ediz. di Sathas, Μεσαιωνικὴ βιβλ., IV), la Synopsis minor (edita da Zachariae, Ius Gr.-Rom., II) del sec. XIII, forse d'origine nicena all'epoca di Giovanni Duca Vatatzes; b) quelli che si basavano, modificandoli in parte, sui manuali ufficiali: l'Ecloga privata aucta del sec. IX (ed. Zachariae, Ius Gr.-Rom., IV, 1865, tradotta in inglese da E.H. Freshfield, Cambridge 1927) composta su di un enchiridio che esponeva elementi di diritto giustinianeo con le modificazioni apportate dalle Novelle, l'Epanagoge aucta (ed. Zachariae, Ius Gr.-Rom., IV, 1865) composta dopo Leone il Filosofo di cui si citano le Novelle e prima del sec. XII; l'Ecloga ad Prochiron mutata (ed. Zachariae, Ius Gr.-Rom., IV, 1865); il Prochiron auctum fine del sec. XIII inizî del XIV (ed. Zachariae, Ius Gr.-Rom., VI [1870]).
L'Epitome legum dell'anno 929 in 50 titoli sta in mezzo fra i due gruppi (ed. Zachariae Ius Gr.-Rom., VII, 1884; nel Ius Gr.-Rom., parte II [1856] aveva pubblicati i titoli I-XXIII soltanto) e fu molto usata dai tardi giuristi bizantini.
Mentre i manuali ufficiali contengono molto diritto nuovo e giovano, perciò, alla ricostruzione del diritto bizantino e poco alla critica e restituzione delle fonti giustinianee, il contrario può dirsi dei manuali privati. L'elenco dei codici manoscritti dei compendî legali e dei manuali privati su quelli elaborati, dato da Zachariae (προχ., p. CLXXXVI-CCV) fu rettificato e completato, in base a nuovi studî, dallo stesso Zachariae (in Krit. Jahrb.,fd. Rechtswiss., XI, 1847, p. 615-626). Un posto a sé occupa la cosiddetta Πεῖρα che contiene residui di giurisprudenza forense del sec. XI. Il suo autore dà una raccolta di casi decisi da un unico giudice, che è Eustazio Romano (cfr. Zachariae nella sua ed. Ius Gr.-Rom., I, 1856, cambiando l'opinione espressa nel Kr. Jahrb., cit., p. 596 segg.).
All'imperatore Leone si deve la promulgazione dei Basilici nella forma che ci venne trasmessa parzialmente. L'opera s'intitola: Raccolta dell'intera legislazione in 60 libri (Παράλληλος συναγωχὴ καὶ σύνταξις ἐν ὅλοις βιβλίοις ἑξήκοντα πάσης νομοϑεσίας). Nel proemio, che abbiamo in sunto, è detto che la παράλληλος σύνταξις fatta da Giustiniano delle leggi (ϑεσπίσματα) dei vecchi imperatori, per facilitare lo studio ai giuristi, non riuscì perfetta, né bene ordinata, né ebbe la necessaria emendazione (διόρϑωσις), dimodoché si decise di riunire in 6 volumi (ἓξ τεύχεσις) tutti e tre i libri giustinianei e le Novelle (πάσας τὰς πραγματείας τῶν νόμων), escludendo il superfluo (ὃ μὴ ἀναγκαῖον ἀλλὰ περιττόν), riunendo negli stessi titoli le materie riguardanti il medesimo istituto giuridico (p. es. de nuptiis, de legatis, de tutoribus) e distribuendoli in 60 libri (ἐν ἑξήκοντα ὅλοις βοβλίοις) per agevolarne la consultazione a decidere una determinata questione. Né si doveva tralasciare alcuna legge che forse giusta (e ciò con coperta allusione all'Ecloga), promulgata dai tempi antichi fino ai giorni di Leone (μηδενὸς νομοϑετήματος ὀρϑὴν ϕέροντος τὴν ψήϕον παραλειϕϑέντοςμ ἐκ τῆς ἄνω τοῦ χρόνου ϕορᾶς καὶ μέχρι τῆς ἡμῶν βασιλείας τεϑεσπισμένων).
La compilazione è concepita come una διόρϑωσις di quella di Giustiniano. Il termine equivalente a emendatio o emendata recensio s'incontra spesso, così ad es. nel titolo dell'Ecloga isaurica. Talora si parla di ἀνακάϑαρσις (repurgatio).
Nel proemio del Prochiro (non bene reso da Dolger, Reg., 499), Basilio, Costantino e Leone dicono di non essersi limitati a epitomare le leggi giustinianee nel loro manuale di 40 titoli e rimandano al corpus delle leggi da essi emendato (ἐν τῷ παρ ἡμῶν ἀρτίως ἀνακεκαϑαρμε0νῳ τοῦ νόμου πλάτει). E nel § 3, con esplicito riferimento a questo passo, fanno sapere di aver riunito in un volume (ἐν ἑνὶ τεύχει) tutte le leggi abrogate (τὰ ἀνῃρημένα πάντα), perché a tutti ne fosse palese l'inutilità. Laddove le leggi conservate in vigore (τὰ μέντοιγε συνεστῶτα τῶν παλαιῶν νόμον ἐν τῷ οἰκείῳ σχήματι μενόντων) furono aggiunte (o raccolte) in altri 60 libri (ἐν ἑτέραις ἐξήκοντα βίβλοις καϑυπετάξαμεν). Su questo passo, v. G. E. Heimbach, Anecdota, I, 1838, p. xl, contro Zachariae, Delineatio, p. 42, nota 6, cui ribatte Heimbach, Krit. Jahrb. f. d. Rechtswiss., 1839, p. 987; ma in Bas., VI, 1870, p. 99, n. 7, C.G. Heimbach accede all'opinione di Zachariae).
Nella prefazione all'Epanagoge, § 1, Basilio, Leone e Alessandro dicono di aver emendato tutti i testi delle vecchie leggi (τὰ ἐν πλάτει τῶν παλαιῶν νο0μων κείμενα ἅπαντα) e di averli distribuiti in 40 libri (ἐν τεσσαράκοντα βίβλοις) sulla cui falsariga, a guisa d'introduzione, fu poi compilata l'Epanagoge.
Anche la raccolta (ἐκλογή) delle proprie Novelle pubblicata da Leone il Filosofo s'intitola: Αἱ τῶν νόμων ἐπανορϑωτικαὶ ἀνακαϑάρσεις, ma non sembra possibile identificare questa raccolta col τεῦχος τῶν ἀνῃρημένων, nel senso che ogni Novella leonina rappresenti l'abrogazione di una legge precedente. Zachariae (‛Ροπαί, p. 101, n. 65) arriva perfino a sollevare dei dubbî sulla ἀνακάϑαρσις in 60 libri, cui accenna il passo surriferito del Prochiro, e sembra non credere ch'essa sia un riferimento ai Basilici.
Dalla discrepanza nel numero dei libri indicati nella prefazione al Prochiro e nella prefazione all'Epanagoge se ne dedusse che della repurgatio delle leggi giustinianee fossero state fatte più edizioni, e che quella pubblicata da Basilio in 40 libri fosse stata poi emendata dal figlio Leone e ripubblicata in 60 libri, com'era stato il primitivo progetto di Basilio, del quale si parla nella prefazione al Prochiro. Ma questo punto è tuttora oscuro. E qualche oscurità permane anche in merito all'effettiva applicazione pratica dei Basilici, in rapporto, sia con le altre fonti giuridiche greco-romane, sia col territorio nel quale sarebbero stati in vigore. Su quest'ultimo punto vi è chi ritiene che si applicassero senz'altro nell'Italia bizantina (cfr. Pertile, Storia del dir. italiano, II, 11, p. 56, n. 31; Mortreuil, Hist., I, pp. 424-25), mentre pare che in Egitto non penetrassero (interrogazione 4ª di Marco, patriarca d'Alessandria, a Teodoro Balsamone, in Leunclavius, Ius Gr.-Rom., I, pp. 363-64; Σύνταγμα di Rallis e Potlis, IV, 1894, p. 451; cfr. Mortreuil, Hist., II, p. 186).
I Basilici non li abbiamo completi nemmeno nell'edizione del Heimbach (voll. 6, 1833-70) con relativi supplementi (di Zachariae ai libri 15-19, deì 1846, di Ferrini e Mercati ai libri 19, 35, 44, 53, 58, del 1897, e data la mole dell'opera si comprende che i codici manoscritti delle precedenti repurgationes continuassero a venire usati da chi li possedeva, tanto più che dovevano solo facilitare l'intelligenza dei testi giustinianei, dimodoché non è sempre facile determinare a quale repurgatio o recensione un dato manoscritto appartenga. La versione greca delle fonti giustinianee, utilizzata per i Basilici è quella dei lavori scolastici (ἴνδικες) del sec. VI. E precisamente per le Pandette i compilatori dei Basilici avevano a disposizione: il πλάτος di Stefano, designato più tardi col nome di τὸ πλάτος per antonomasia, la ἔκδοσις di Cirillo e quella senza nome d'autore citata negli scolî col nome di 'Ανωνίμου.
Di elaborati del Codice si usò quello di Teodoro e il κατὰ πόδα di Taleleo; e anche una ἔκδοσις 'Ισιδώρου (Bas., VI, p. 356). Da queste fonti i compilatori desunsero il testo delle costituzioni. Per le Istituzioni usarono la Parafrasi di Teofilo.
Per le Novelle avevano a disposizione non soltanto il testo genuino della collezione delle 168 Novelle, ma anche le summae greche di Teodoro, Atanasio e Philoxeno. Di regola, nel testo dei Basilici posero le parole testuali prese dalla collezione delle 168.
Il tutto fu diviso in 60 libri, suddivisi in titoli, muniti di rubriche, e questi in capitula (κεϕάλαια). In ciascun capitolo i passi accolti, dei codici e delle Novelle, si susseguono nell'ordine antico, ma senza inscriptio e subscriptio, spesso designati con le parole ϑέματα e contrassegnati da un numero (cfr. Heimbach, Gr.-röm. R., pp. 317 e 239). Il sistema è in complesso quello del Codice, e, in mancanza di un manoscritto completo che ce lo abbia tramandato, il piano generale dell'opera è noto dal cod. Coislin. 151 della Biblioteca Nazionale di Parigi e dal Repertorio detto Tipucito (Τιπούκειτος, da τί που κεῖται), del quale ultimo fu pubblicato un volume nel 1914, comprendente il sommario dei libri I-XII, da Ferrini e Mercati, e un secondo, da Dölger, nel 1929.
I ϑέματα dei Basilici sono muniti di un apparato di scolî, i quali non sono opera originaria dei compilatori dei Basilici, ma bensì, in parte, frammenti di commentarî più antichi ai libri giustinianei. Questi frammenti nei manoscritti sono mescolati con altri tolti da scrittori dei secoli X-XII che commentarono invece i Basilici, e tutto ciò è trasmesso come una glossa continua; nel sec. XII questi scolî, sia dei secolì VI-VII, sia dei secoli X-XII, si riguardavano come un commentario unico. Costituiscono, pertanto, una raccolta di passi paralleli composta di estratti di testi preesistenti. La glossa medievale e gli scolî filologici greci hanno, invece, altro carattere, mentre analoga forma s'incontra nelle cosiddette catene, proprie della letteratura teologica bizantina (Peters, Die ostr. Digestenkom. cit., p. 8).
In quanto all'epoca in cui sorsero le catene basiliche, Mortreuil (Histoire du droit byz., II, 1844, p. 123 segg.) ritenne che i Basilici fossero una specie di legislazione scientifica e gli scolî fossero stati pubblicati, nello stesso tempo del testo, con efficacia legislativa. Si avrebbe lo stesso fenomeno del Breviario Alariciano e relativa Interpretatio visigotica (su questa v. Ferrari, Osservaz. sulla trasmiss. diplom. del C. Theod. e sulla interpr. visig., Padova 1915). Quest'opinione già espressa anche da Heimbach iun., in Krit. Jahrb. f. d. Rechtswiss., III, 1839, p. 989 segg.; cfr. C. G. E. Heimbach, Gr.-röm. R., 1868, p. 328), fu combattuta da Zachariae (in Krit. Jahrb. f. d. Rechtswiss., di Richter e Schneider, VIII, I844, p. 1083 seg., XI, 1847, p. 592 segg. Vedi anche: Beiträge zur Kritik u. Restitution der Basiliken, nei Mémoires dell'Accademia di Pietroburgo, XXIII, n. 6, 1877), che osservò, fra l'altro, come quella opinione non si possa accogliere ove si pensi: che i termini tecnici latini si trovano voltati in greco (ἐξελληνισμοί) solo nel testo e non già negli scolî antichi che conservarono la forma antica originaria e non si capirebbe questa differenza di trattamento se testo e scolî fossero della stessa epoca; che le controversie scolastiche si fecero sparire dal testo, ma permangono negli scolî; che gli scolî antichi hanno sempre riguardo ai libri giustinianei e non ai Basilici; e che i nomi pagani sono sostituiti da nomi cristiani solo nel testo, ma permangono negli scolî. Inoltre il cod. Coislin. 151 e Paris. 1357, hanno il puro testo dei Basilici senza scolî, il che non sarebbe se gli scolî antichi avessero fatto parte integrante del testo. Per tutti questi motivi Zachariae, seguito poi (1870) da C. G. Heimbach (Bas. VI, p. 121 segg. e già in Gr.-röm. R., 1868, p. 328 segg.), propugnò quella, che è poi divenuta la communis opinio, che cioè il commentario ufficiale dei Basilici tolto dagli scritti (παραγραϕαί, παράτιτλα, ἴνδικες) dei giuristi dell'età giustinianea (secoli VI-VII) e posto in margine ai manoscritti con l'indicazione del suo autore, sia stato fatto e aggiunto nel sec. X, ossia poco dopo la compilazione dei Basilici e probabilmente per ordine di Costantino Porfirongenito, figlio di Leone. Con ciò si spiegherebbe anche come Balsamone abbia potuto attribuire a Costantino Porfirogenito un'ultima repurgatio delle antiche leggi. Questo commentario ufficiale è noto col nome di παραγραϕαὶ τῶν παλαιῶν o σχόλια παλαιά, e si contrappone alle νέαι παραγραϕαί ossia a quelle note aggiunte da più tardi giuristi (come Garidas, Giovanni Nomofilace, Calogero Sesto, Patzes, Agioteodorita, Costantino Niceno, Gregorio Doxapatris) che, all'inizio del sec. XIII, furono elaborate in una specie di glossa ordinaria da un giureconsulto di nome ignoto, ma che si dice scolaro di Michele Agioteodorita, che fu Logotheta Dromi verso il 1166 (Heimbach, Bas., VI, p. 212 e 215, seguendo anche qui l'opinione di Zachariae, Delin. § 38 p. 63 e Krit. Jahrb., 1847, p. 596, contro Mortreuil, Hist., III, p. 245-52).
Nell'edizione del Heimbach i varî scolî, i quali nei manoscritti sono bensì copiati l'uno dopo l'altro ma in modo da tenerli distinti, si trovano stampati di seguito in maniera che il nome posto in testa al primo scolio viene riferito anche ai susseguenti. Questa confusione fra scolî antichi e recenti e molto criticata da Zachariae (Krit. Jahrb. f. d. Rechtswiss., 1842, p. 499) cui Heimbach (Bas., VI, 1870, p. 188 segg.) tentò rispondere. Gli scolî più recenti sono, in parte, dovuti all'attività della scuola giuridica di Costantinopoli fondata da Costantino Monomaco (vedi in fine nella bibliografia) e alla quale si deve un ultimo rifiorire degli studî giuridici nei secoli XI e XII (cfr. Zachariae, Gesch., 3ª ed., pp. 29-30 e Fis-her, Studien zur byz. Gesch. des XI Jahrh., Plauen 1883).
Delle costituzioni imperiali abbiamo il nucleo cospicuo di Leone il Filosofo che costituisce parte integrante del corpus delle leggi repurgatum da Leone (vedi Zachariae, Delineatio, § 31, 2 γ e citazione ivi), dimodoché i luoghi del diritto giustinianeo, che si riferiscono a istituti giuridici abrogati, non vennero accolti nella redazione leonina dei Basilici. Così la Novella di Leone 146, che abrogò il sistema curiale e i decurioni, provocò l'omissione nei Basilici dei luoghi giustinianei che si riferivano ai decurioni, il quale fatto è anche rilevato dalle fonti bizantine (cfr. Heimbach, Bas., VI, p. 142, nota 11). Ma le Novelle di Leone non furono poste, dai compilatori, nei Basilici. Le Novelle furono promulgate da Leone a seconda che ne sorgeva la necessità, alcune prima dei Basilici, altre dopo.
Una raccolta di CXIII costituzioni leonine ci è trasmessa anche nel codice Marciano 179. Le Novelle furono pubblicate fra gli anni 887-891 e la raccolta fu fatta ufficialmente verso l'894, dallo stesso legislatore che vi premise una prefazione (τὸ ποικίλον). In tale occasione le costituzioni, che conservano ancora l'indirizzo al maestro degli offici Stiliano e al patriarca Stefano, furono abbreviate. L'opinione di Zepernick (in Beck, De novellis Leonis, Halle 1779, p. 294) che tali Novelle non siano mai state promulgate singolarmente è ingiustificata, ed è contraddetta dall'ordine di pubblicazione, impartito a Stiliano, che è ancora conservato in fondo alla Novella 40 (ἡ δὲ σὴ μεγαλοπρέπεια τὸ ϑέσπισμα τοῖς ὑπὸ χεῖρα ἐγνωσνένον καταστησάτω κτλ.). Leone pubblicò numerose altre costituzioni. Nel Prochiron auctum, tit. XL, cap. 232, si allude a una Novella 201 di Leone che proibiva il carcere privato. Estravaganti alla collectio delle CXIII sono edite da Zachariae, Ius Gr.-Rom., III, col. II, p. 220 segg. (cfr. anche Dölger, Reg., 557 e passim). Un'ecloga in LVI capitoli delle Novelle di Leone, compilata dall'autore della Synopsis Basilicorum dell'a. 969 e aggiunta a quest'opera, contiene estratti della collezione delle CXIII Novelle. La prima edizione fatta dai dotti occidentali è quella di Scrimger del 1558, un'altra con la traduzione latina di Agyleo è del 1571 (Lione).
Le Novelle di Leone toccano moltissimi punti, sia di diritto pubblico sia di diritto privato. Nel campo penale Leone mitiga il sistema giustinianeo (v. G. Ferrari, Il dir. penale nelle novelle di Leone il Fil., in Rivista Penale, LXVII, 1908), nel diritto di famiglia è accolto in pieno il sistema canonico di celebrazione del matrimonio (Ferrari, Diritto matrimoniale secondo le novelle di Leone il Filos., Byz. Zeitschr., XVIII) e anche il sistema dei lucri nuziali in caso di scioglimento del matrimonio subisce non indifferenti modificazioni (G. Ferrari, Formulari, in Boll. Ist. storico italiano, n. XXXIII, 1912, § 18 segg.). La potestas sui figli, riconosciuta alla madre dall'Ecl. isaurica, II, 5 e XVI, 5, le è sottratta perché non può esercitarsi che dall'uomo (Nov. 25); la μητρικὴ ἐξουσία può solo esistere se vi è sottomissione volontaria del figlio (Nov. 27, v. Monnier, Les novelles de le Sage, Bordeaux 1923, p. 94).
Per la Nov. L. 72 la convenzione scritta è valida, anche se priva di adiectio poenae, se munita del crocesegno e dell'invocazione trinitaria. La Novella figura negli scolî ai nuovi Basilici, I, p. 564 in f. ed è riprodotta da Armenopulo (1, 9, 7, cfr. p. 122 scolio). Nonostante che negli scritti dottrinali si discuta sempre intorno al vecchio sistema contrattuale romano (cfr. p. es. la meditatio de nudis pactis edita, ultimamente, da Monnier e Platon, in N. Revue hist. de droit, I 913-14 passim, e anche i titoli 45, 68, 69 della Peira) ciò avviene, più che altro, per forza d'inerzia, essendo in atto una profonda trasformazione, che si connette alla degenerazione del concetto della stipulatio romana (G. Ferrari, Atti Reale Ist. Veneto, LXIX, II, 1909-10, pp. 743-796) e all'importanza della carta chirografaria dopo Giustiniano (G. Ferrari, L'obbligazione letterale delle Ist. Imper., in Atti cit., pp. 1195-1212, e in Byz. Z., XX, 1911, pp. 532-544; cfr. Collinet, Études historiques sur le droit de Justinien I. 1912, Le caractère oriental de l'œuvre lḫgislative; e in genere, sul documento privato dell'alto Medioevo, H. Steinacker, Die antiken Grundlagen der frühmittelalt. Privaturkunde, 1927).
L'organizzazione dell'industria e del commercio, già all'epoca di Giustiniano, era un monopolio di stato, e l'intervento statale si fa sentire in moltissimi atti della vita industriale e commerciale anche in età più tarda. In connessione col nuovo principio della proprietà privata delle acque litoranee (ϑαλάττιον χωρίπν) in date circostanze può essere una comunione, a scopi di pesca, imposta dalla legge (Nov. L., 56, 57, 102-4; Ferrari, Leggi biz. riguardanti la pesca, in Rendiconti R. Istituto Lombardo di scienze e lett., XLII, 1909, pp. 588-96). Ma il vero campo dove lo stato esercita la più minuziosa sorveglianza è quello della produzione e dello scambio, come si rileva dalle disposizioni del Libro Eparchico pubblicato dal Nicole nel 1893 da un manoscritto di Ginevra che fu già in mano di Gotofredo (Ginevra I893, Estr. dai Mémoires de l'Institut National Genevois, XVIII; cfr. Zachariae, Byz. Z., II, 1893, p. 132 segg. La sola traduzione francese con note fu pubblicata a parte da Nicole, Ginevra 1894; cfr. Hartmann, Zur. Gesch. der Zünfte, in Zeitschrift f. Sozial.- u. Wirtschaftsgesch., III, 1894, p. 109 segg.).
Le corporazioni costantinopolitane delle varie arti e mestieri erano sottoposte al controllo più rigido del prefetto. Tutto veniva regolato: mercedi, acquisti, contratti. La corporazione sceglieva e acquistava la materia prima, dove e quando voleva. Il prefetto o il suo legatarius fissava i prezzi e i guadagni del rivenditore, e il quantitativo che poteva lanciarsi sul mercato. La città era divisa in zone fra i varî commercianti. Il funzionamento della produzione e dello scambio era regolato come in un moderno cartello (L. Brentano, Die byz. Volkswirtschaft, in Schmollers Jahrbuch, XLI, 1917, fasc. 2, p. 23 [estr.]). L. Hartmann (Zur Wirtschaftsgesch. Italiens, 1904, p. 22; cfr. A. Stöckle, Spätrömische u. byz. Zünfte, in Klio. IX, suppl., 1911), trova analogie con le scolae medievali italiane, mentre da altri fu negato. Molte delle disposizioni dell''Επαρχικόν βιβλίον derivano da Novelle precedenti opportunamente elaborate (vedi Dölger, Reg., 557). Nel campo dell'economia nazionale è notevole la Nov. L. 83 che permette di ricavare un determinato interesse dal capitale mutuato e ciò in opposizione all'abolizione dell'usura statuita da Basilio I (Proch., XVI, 4) con conseguenze deleterie (V. Monnier, op. cit., p. 61 e 147-48). In materia di diritto agrario il contratto di enfiteusi della Nov. 13 mostra analogie col contratto libellario, come già notò il Cuiacio (Recitationes solemnes ad cod., in Opere, IX, 1781, p. 386. Cfr. la Nov. 118 che concerne enfiteusi concesse super tribus personis e Monnier, op. cit., p. 125-27).
La Novella 114 permette l'alienazione degl'immobili quando le imposte siano state pagate, ma ai vicini è riconosciuto un diritto di prelazione (προτίμησις). L'argomento si connette a questioni che hanno stretta attinenza con l'ἐπιβολή (adiectio) e in genere col sistema finanziario del basso Impero. Uno sguardo d'insieme si trae dal Taktikon della metà del sec. IX, pubblicato da Uspenskij (in Izvestija dell'Istituto archeologico russo di Costantinopoli, III, 1898, pp. 110-129), e specialmente dal Kleterologion di Filoteo dell'anno 899 compreso nel Libro de cerimoniis (p. 702 segg. dell'ed. di Bonn) e del quale il Bury (The imperial administrative System in the Ninth Century, Londra 1911) diede una nuova edizione (p. 131 segg.). Per l'evoluzione nei secoli tardi, fino alla caduta dell'Impero, e soprattutto per lumeggiare le condizioni dei secoli X e XI è di grande sussidio il trattato del codice Marciano gr. 173, che senza aver carattere di istruzione ufficiale contiene una guida ai funzionarî per il servizio e l'assegnazione dell'imposta fondiaria, nonché un'istruzione elementare sull'agrimensura a servizio dell'amministrazione delle imposte. Come già opinò G. Morelli (nell'opera: Bibliothecae divi Marci Venetiarum manuscripta graeca et latina, I, Bassano 1802, p. 101) il suo autore dovette essere un giurista. In due luoghi (Tratt., 117, 4 e 20 dell'ed. Dölger), come osservò Morelli, si parla dell'imperatore Leone il Filosofo come premorto. Come termine ante quem, Dölger (p. 8) pone l'anno 1139. Questo trattato fu pubblicato nel 1915 da W. Ashburner (in Journal of Hellenic Studies, XXXV, pp. 76-84). F. Dölger ne diede una nuova edizione con un commento eccellente, che è una vera dissertazione storica sull'amministrazione finanziaria bizantina dei secoli X e XI (in Byz. Archiv, IX, 1927). Non meno eccellente è il contemporaneo studio di G. Ostrogorsky, Die ländliche Steuergemeinde des byz. Reiches im X. frahrh., in Vierteljahrschrift f. Sozial. Wirtschaftsgesch., XX (1927) pp. 1-108.
Oltre le Novelle di Leone il Filosofo, pubblicate nella parte 3ª del suo Ius Gr.-Rom. (1857) come Collatio II, Zachariae pubblicò quivi, in ordine cronologico, le altre costituzioni imperiali bizantine, le Novelle di Giustino e dei suoi successori fino a Basilio il Macedone (566-866). La III le Novelle di Costantino Porfirogenito e successori fino a Costantino Monomaco (911-1057), la IV le Novelle da Isacco Comneno alla presa di Costantinopoli da parte dei Latini (1057-1204), delle quali molte si riferiscono alla storia di Venezia. La V contiene le costituzioni fra gli anni 1204-1453, comprendendo anche quelle che erano state promulgate dagl'imperatori che regnarono a Nicea.
Un'esposizione, a carattere descrittivo, del diritto privato nelle Novelle greco-romane si deve a G. Maridakis (Atene 1922) con la tendenza a provare, esagerando una tesi già lanciata dalla scuola del Mitteis, che nell'età postgiustinianea, e precisamente all'epoca della dinastia isaurica e della macedone, si afferma in Oriente il diritto greco che era stato prima soffocato dal diritto romano. Ma tutto ciò è ben lungi dall'essere dimostrato (cfr. G. Ferrari, in Byz. Zeitschrift, 1926, p. 151, e Archivio storico ital., 1927, p. 293, nonché F. Brandileone, in Rivista ital. per le scienze giuridiche, 1926). E, in generale, questa presunta reviviscenza o reincarnazione del diritto ellenico nel basso Impero e nell'alto Medioevo, è solo asserita per errore d'ottica o per avere mal posto il problema. Dopo Salvio Giuliano il diritto pretorio è assorbito dal diritto civile, e tutto il diritto romano diventa diritto civile. Nelle parti orientali dell'Impero si orientalizza certamente, ma quei sovrani legiferano in quanto imperatori romani. Gli elementi culturali greci sono assorbiti e trasformati in una nuova entità, ma non è certo il caso di parlare di una palingenesi dell'antico diritto greco.
L'applicazione pratica del sistema giuridico bizantino, specialmente nel campo dei negozî privati, è rivelata dai documenti e dai formularî sia d'Oriente sia dell'Italia meridionale. Per quelli la raccolta più comprensiva è tuttora quella di Miklosich e Müller (1860-1890), per questi le edizioni di Trinchera, Cusa e Spata. Sono, però, in corso i lavori per un Corpus dei documenti greci medievali e moderni (vedi Marc, Plan eines Corpus der griech. Urkunden des M. A. u. der neueren Zeit, Monaco 1903, e poi le varie comunicazioni sull'argomento in Byz. Zeitschr., passim). Per l'Egitto i documenti bizantini sono pubblicati nelle varie raccolte insieme a documenti di altre età; di soli papiri bizantini abbiamo il Catalogue des pap. grecs d'époque byz. du Musée du Caire di Maspero, e i Pap. Monacensi, ed. da Wenger e Heisenberg.
Il diritto greco-romano presso gli Slavi all'inizio del sec. XIII si trae dalle risposte di Demetrio Comatiano arcivescovo di Bulgaria intorno a varî casi giuridici (ed. da Pitra dal cod. Monac. 62).
Bibl.: Raccolte di fonti giuridiche: Iuris Orientalis libri III ab Enim. Bonefidio digesti, Parigi 1573; Iuris graeco-romani tam canonici quam civilis tomi duo. Johannis Leunclavii... studio eruti latineque redditi nunc primum editi cura Marquardi Freheri, Francoforte 1596; Bibliotheca iuris canonici veteris in duos tomos distributa... opera et studio Guilielmi Voelli et Henrici Justelli, Parigi 1661; Συνοδικὸν sive Pandectae canonum... Totum opus in duos tomos divisum Guilielmus Beveregius... recensuit, Oxford 1672; G. Meerman, Novus Thesaurus iuris civilis et canonici, L'Aia 1751-53, voll. 7, e Supplementum post patris obitum ed. Io. L. B. Meerman, L'Aia 1780; Basilici edid. Fabrot, voll. 7, in-folio, Parigi 1647; Basilicorum libri LX, post Hannibalis Fabroti curas ope Codd. mss. a Gustavo Ernesto Heimbachio aliisque collatorum integriores cum scholiis edidit... D. Carolus Guilielmus Ernestus Heimbach antecessor Jenensis, Lipsia 1833, segg. (rec. di Zachariae, in Krit. Jahrb. f. d. Rechtswiss., VI, 1842, pp. 481-509); 'Ανέκδοτα tomus I, instruxit Gustavus Ernestus Heimbach Lipsiensis, Lipsia 1838; 'Ανέκδοτα tomus II, instruxit Gustavus Ernestus Heimbach antecessor Lipsiensis, accedunt Novellae constitutiones imperatorum Byzantinorum a Carolo Witte editae, Lipsia 1840; 'Ανέκδοτα edid. Carolus Eduard Zachariae, Lipsia 1843; Supplementum editionis Basilicorum Heimbachianae, lib. XV-XVIII Bas,... nec non lib. XIX Bas. edidit Carolus Eduardus Zachariae a Lingenthal, Lipsia 1846; Editionis Basilicorum Heimbachiane supplementum alterum. Ed. Ferrini et Mercati, Lipsia 1897; M. Κριτοῦ τοῦ Πατζῆ Τιπούκειτος sive Librorum LX Bas. Summarium libros I-XII graece et lat. ediderunt C. Ferrini et I. Mercati, Roma 1914, libros XIII-XXIII edidit Franciscus Doelger, Roma 1929; Θεοϕίλου 'Αντικήνσωρος τὰ εὑρισκόμενα. Theophili Antecessoris Paraphrasis graeca Institutionum Caesarearum... ed. Guil. Otto Reitz, L'Aia 1751; Institutionum graeca Paraphrasis Theophilo Antecessori vulgo tributa, ed. E. C. Ferrini, Berlino 1884-97; Corpus Iuris Civilis Volumen tertium. Ed. stereotypa IV. Novellae, recognovit Rudolphus Schoell, opus absolvit G. Kroll, Berlino 1912; Imp. Iustiniani PP. A. Novellae quae vocantur sive constitutiones quae extra Codicem supersunt ordine chronologico digestae, ed. C. E. Zachariae a Lingenthal, Lipsia 1881 segg.; Codex Iustinianus, recensuit Paulus Krueger, Berlino 1877; Iustiniani institutiones recensuit Paulus Krueger, 4ª ed., Berlino 1921; Theodosiani libri XVI cum constitutionibus Sirmondianis et Leges Novellae ad Theodosianum pertinentes, ed. Th. Mommsen et Paulus M. Meyer, Berlino 1905; Codex Theodosianus recognovit P. 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Edidit Carolus Eduardus Zachariae a Lingenthal, Lipsia 1852; Ecloga Leonis et Constantini cum Appendice, edidit Antonius G. Monferratus, Atene 1889; Ius Graeco-Romanum, ed. C. E. Zachariae a Lingenthal: Parte I: Πεῖρα i. e. Practica Eustathii Romani, Lipsia 1856; Parte II: Synopsis minor et Epitome, tit. I-XXIII, 1856; Parte III: Novellae constitutiones Imperatorum post Iustinianum quae supersunt, 1857; Parte IV: Ecloga privata aucta. Ecloga ad Prochiron mutata. Epanagoge aucta, 1865; Parte V: Synopsis Basilicorum, 1869; Parte VI: Prochiron auctum, 1870; Parte VII: Epitome Legum, 1884; Prochiron Legum, pubblicato secondo il codice Vaticano gr. 845 a cura di F. Brandileone e V. Puntoni, Roma 1895; Const. Harmenopoli Manuale Legum sive Hexabiblos cum Appendicibus et legibus agrariis illustravit Gustavus Ernestus Heimbach antecessor Lipsiensis, Lipsia 1851; Iuris ecclesiastici Graecorum historia et monumenta, ed. Pitra, I, Parigi 1864; II, Parigi 1868; III-V, a saeculo X ad XIV. 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Storia interna: Zachariae von Lingenthal, Geschichte des griechischen-römischen Rechts, 3ª ed., 1892.
Periodici: Byzantinische Zeitschrift, a cura di K. Krumbacher, poi di A. Heisenberg, Lipsia, voll. 29 al 1929 (organo centrale e indispensabile); Byzantinisches Archiv als Ergänzung der Byzantinischen Zeitschrift, 9 fascicoli al 1927; Vizantijskij Vremennik (Βυζαντινὰ Χρονικά), fondatore Vasil'evskij, 1894-1928, voll. 25 (Pietroburgo); Izvestija dell'Istituto Archeologico russo di Costantinopoli, 1895-1914, voll. 16; Byzantinisch-Neugriechische Jahrbücher, direttore Bees, V (Atene 1926); Byzantion, revue intern. des études byz., direttori Graindor e Grégoire, 4 voll. al 1928 (Parigi-Liegi); 'Επετηρὶς ‛Εταιρείας Βυζαντινῶν Σπουδῶν (Atene, 5 annate al 1928); Orientalia christiana (organo dell'Istituto Orientale Pontificio), voll. 17 al 1930; Studi bizantini (Pubbl. dell'Istituto per l'Europa Orientale in Roma), voll. 2 al 1927.
Letteratura.
Nome e limiti. - Si suol chiamare bizantino quel periodo della letteratura greca che si estende dall'ascesa al trono di Giustiniano (527 d. C.) alla caduta di Costantinopoli in mano dei Turchi Osmanli (1453). Questa denominazione è molto più adeguata al suo oggetto che non sia p. es. il nome di alessandrina, con il quale alcuni continuano ancora a designare la letteratura ellenistica. Mentre durante il periodo ellenistico riescono a mantenersi in vita e a esercitare forte influsso centri di cultura indipendenti da Alessandria (Atene, la Macedonia, Pergamo, Rodi, da un certo punto in poi anche e principalmente Roma), durante l'era bizantina la letteratura, la cultura, la vita gravitano sempre più verso Costantinopoli e verso la corte imperiale; altri centri, rigogliosi durante i primi secoli di questo periodo, specie l'Egitto e la Siria, vanno man mano perduti alla grecità culturale, all'impero bizantino, anzi persino al cristianesimo. Da un certo punto in poi tutto quello che aspira a essere letteratura, è prodotto in Bisanzio o almeno per Bisanzio: nelle provincie non fiorisce altro che letteratura popolare nella lingua volgare, per sé di valore inestimabile, ma tenuta a vile dai contemporanei colti, che giudicando applicavano tutt'un'altra tavola di valori.
Più convenzionali sono, come sempre, i termini estremi cronologici. Ma neanche essi paiono scelti male. Il limite inferiore non sembra presenti occasione a controversie: la caduta di Costantinopoli segna la fine di una cultura e di una letteratura che in Costantinopoli si era sempre più andata accentrando. E quel che di notevole è composto negli anni e nei secoli immediatamente seguenti alla caduta, sorge principalmente o nella cerchia dei dotti emigrati in Italia, ed è letteratura umanistica che si risolve rapidamente nell'umanesimo occidentale, italiano, o in Creta, nell'isola che era ancora veneziana, ed è letteratura popolare, ma, almeno in grande parte, di materia e spirito derivati dal Medioevo occidentale, particolarmente italiano. Più dubbio è il limite superiore. E infatti quello che nel sec. XIX fu il migliore conoscitore della letteratura bizantina, K. Krumbacher, dopo essersi tenuto, pur con riluttanza, ai limiti tradizionali nel suo manuale, che è ancora l'unico, in una sua trattazione più breve e più popolare, ma meglio penetrata di spirito storico, fece principiare la letteratura greca del Medioevo dal regno di Costantino il Grande (324-337), pur concedendo che il tempo tra Costantino e Giustiniano è periodo di passaggio che esige una duplice trattazione, dal punto di vista antico e da quello medievale. Queste parole contengono la concessione che questo periodo di transizione è ancora almeno altrettanto (e qualcuno potrebbe, andando un passo oltre, dire: molto più) antico che medievale, mentre la letteratura bizantina, come la dottrina moderna la concepisce, è appunto la letteratura greca del Medioevo orientale. E certo teoricamente legittimo far cominciare il periodo bizantino da colui che, fondando in Bisanzio una nuova capitale, trasportò il centro dell'impero dall'Occidente all'Oriente, preparando così senza saperlo il distacco dell'impero dalla tradizione romana e italica, e per converso il distacco delle provincie di lingua latina e di tradizione puramente romana da quell'impero, divenuto ormai bizantino. È tanto più legittimo apparrà a chi consideri che Costantino è il primo imperatore cristiano e insieme quello che, mentre riconosce il cristianesimo quale religione dello stato, fa della chiesa una funzione dello stato, considera sé troppo evidentemente capo della chiesa, i vescovi, compresi i metropoliti di Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, proprî funzionarî. Sono appunto caratteristica precipua della civiltà bizantina, di fronte all'antichità, il cristianesimo; di fronte alla cultura occidentale, una forma speciale di cristianesimo, nella quale la religione è funzione di stato, l'imperatore, laico, è, in ultima analisi, il capo della vita religiosa, il supremo arbitro persino dell'ortodossia dei dogmi teologici. Eppure non può essere effetto del caso che almeno tutto il sec. IV sia, in pratica, dominio indiscusso della filologia classica, la quale anzi a questo periodo si è volta da qualche decennio con speciale amore. Nel sec. IV gli spiriti classici sono ancora rigogliosi: la poesia è per es. ancora costruita su modello ritmico antico, rigorosamente quantitativa; tutta la letteratura è congiunta con quella del passato, anche del passato pagano, da una continuità non interrotta. Al tempo di Costantino buona parte dei letterati era ancora pagana; né è detto che i cristiani fossero nell'impero maggioranza assoluta. Al tempo di Costantino lo stato è ancora puramente romano, la lingua dello stato è la latina. Giustiniano chiude (529) le scuole ateniesi dei filosofi, stabilisce cioè non soltanto che la sola scienza riconosciuta o protetta dallo stato è quella cristiana, ma anche che la scienza non cristiana non può essere tollerata. Quest'avvenimento segna per davvero un rivolgimento di tempi, ed è quindi singolarmente atto a essere considerato come un confine tra due età. Giustiniano accoglie in un corpo e codifica tutto il diritto romano precedente ai suoi tempi; ma quest'opera grandiosa chiude un periodo: già di molte delle costituzioni emanate da Giustiniano stesso dopo la chiusura del Corpus, le Novelle, si conosce solo un testo greco, e in greco sono le leggi di tutti gl'imperatori seguenti. Fino all'illirico romanizzato Giu̇stiniano gl'imperatori erano stati sempre romani, o almeno soldati barbari delle provincie di confine fortemente romanizzati: il successore di Giustiniano, Giustino II, è un suo nipote, ma dopo la morte di questo ascende il trono un greco, Tiberio II, e da lui in poi tutti gl'imperatori sono greci oppure, che è lo stesso, orientali grecizzati. Anche per un altro rispetto il regno di Giustiniano si rivela particolarmente adatto a segnare la fine di un periodo: egli è l'ultimo imperatore che, almeno in certi momenti del suo lungo governo, domina, si può dire, su tutto il bacino del Mediterraneo, dalla Siria alla Spagna meridionale. Dopo Giustiniano il dominio imperiale si restringe sempre più all'Oriente.
Caratteristiche e valore della civiltà e letteratura bizantina. - La civiltà bizantina è la civiltà medievale dell'impero romano divenuto cristiano di religione e greco di nazione. La vita dell'impero romano è stata in Oriente troncata dalle invasioni germaniche; qui da noi dal 476 all'800 non ci sono imperatori, e la restaurazione carolingia dell'impero ha carattere meramente esterno: la continuità dell'impero di Carlo Magno con l'impero di Romolo Augustolo non è maggiore che quella tra l'Impero franco e l'Impero francese di Napoleone I. In Oriente manca ogni soluzione di continuità: lo stato bizantino prosegue fino al 1453 lo stato teodosiano, costantiniano; se si vuole, persino dioclezianeo. Fin da Costantino l'imperatore è insieme il capo della chiesa, l'arbitro dell'ortodossia; fin da Diocleziano era già il sovrano assoluto, non più princeps ma basileus (βασιλεύς); fin da Diocleziano gl'impiegati, separati dal popolo, formavano una casta a sé, esente da molti obblighi che gravavano sul resto della popolazione e superba di sé stessa; la gerarchia bizantina, che è insieme gerarchia di funzioni statali e di cariche di corte, è già nei lineamenti fondamentali costantiniana, anzi dioclezianea. Solo, man mano che la civiltà bizantina si svolge, il popolo, anche nelle classi più elevate, è sempre più rigorosamente escluso da ogni partecipazione alla vita statale, ridotto sempre più alla mercé degl'impiegati, i quali sono essi stessi alla mercé dei superiori, cioè della corte. Se fino a tardi non è vietato a persona di condizione bassa salire in alto sia attraverso l'esercito, sia attraverso la carriera ecclesiastica, le cerchie di corte, quelle che corrisponderebbero in certo modo alla nobilitas della repubblica romana dell'ultimo secolo, tendono sempre più a escludere qualsiasi estraneo. Nelle provincie, che del resto scemano ben presto di estensione e d'importanza, non v'è nulla che possa far da contrappeso a questa potenza e prepotenza degli ambienti cortigiani, perché anche il grande possesso terriero viene sempre più a concentrarsi nelle mani della nobiltà degl'impieghi.
Questo dominio assoluto di un unico e questo potere preponderante di coloro che stanno più vicino a quest'unico, ricorda gli antichi imperi orientali e appartiene difatti ai segni dell'orientalizzazione della cultura bizantina. Ma lo stato, come si è detto, ha sino a molto tardi coscienza di proseguire lo stato costantiniano. Non è privo di significato che il solo nome della nazione greca davvero popolare per tutto il Medioevo e sino all'età moderna è quello di Romani, ‛Ρωμαῖοι; la "nuova Roma", ἡ ξεωτέρα ‛Ρώμη, è il nome ufficiale di Costantinopoli nella corrispondenza dei patriarchi; l'Oriente ha appreso dal contatto con Bisanzio a chiamare Roma tutto l'Occidente.
A capo di questo impero romano sono esclusivamente Greci, cioè persone che, qualunque sia la loro razza, si sentono greche e hanno il greco quale lingua di cultura, e per lo più quale unica lingua d'uso. Greco non è per lo storico di questo periodo denominazione di una razza, e tale del resto non era più, insomma, sin dall'ellenismo. Orientali e Greci si erano, forse già dal sec. II a. C., fusi in un crogiuolo unico; se l'unica lingua di cultura e per lo più d'uso rimase per molti secoli la greca, orientale è la prevalenza di una civiltà e di una corte su tutto l'Impero, orientale il cerimoniale, orientale la ristrettezza numerica della classe, che ha veramente nelle mani il potere. Di orientale sanno le frequenti rivoluzioni di palazzo, che sono il prodotto necessario di tali condizioni. Già prima di Giustiniano concezioni cosiddette greche si insinuano a poco a poco in quello che pareva il dominio privilegiato della romanità, il diritto, se pure sono ancora controversi non gl'influssi in sé medesimi, ma la loro misura. E l'elemento cosiddetto greco cresce con rapidità di valanga nella legislazione posteriore a Giustiniano, specie in quella di Leone III Isaurico (717-741); i cosiddetti Basilici (v. sopra), rappresentano in certo modo una reazione, un tentativo di ritorno a Giustiniano, ma, in quanto traducono il testo latino, documentano l'ellenizzazione profonda dello stato romano d'Oriente. E già nel periodo giustinianeo, grecizzazione significa o almeno può significare orientalizzazione: nella composita civiltà del tardo ellenismo i popoli dell'Asia Minore avranno lasciato traccia di sé anche nelle consuetudini giuridiche, se pure è compito difficile stabilire la misura nella quale i singoli elementi prendono parte a tali innovazioni. Se il colonato, la servitù della gleba è fenomeno generale del Medioevo, che ha molteplici radici, diverse secondo le varie parti dell'antico impem romano, pare probabile che esso almeno in Egitto e in Siria prosegua istituzioni orientali assorbite dall'ellenismo (v. colonato).
Mentre in Occidente il cristianesimo si va, durante il Medioevo, sempre più allontanando dalle sue origini orientali, mentre esso elabora i suoi dogmi sempre più in vista dell'azione nella vita terrena, nella Chiesa orientale le controversie dogmatiche, fin quando durano, si polarizzano sempre più intorno ai problemi cristologici, che sono in Occidente già superati con Agostino. Il problema della grazia, che per la religiosità occidentale è centrale da S. Agostino sino, può dirsi, ai giansenisti e che è problema etico fondamentale, è, si può dire, ignoto alla Chiesa greca; qui si discute per secoli e secoli sui rapporti tra la natura umana e divina in Gesù e sulla processione dello Spirito Santo. E lo sviluppo dogmatico, dopo essersi impantanato per secoli in controversie che in Occidente erano state superate e avevano quindi perduto d'interesse, si arresta per sempre nel sec. VIII. La Chiesa greca chiama sé stessa "ortodossa"; ma questo nome di cui essa va superba, non è, chi ben guardi, se non un testimonium paupertatis: ché ortodossia significa per la chiesa bizantina l'esegesi tradizionale degli scritti sacri quale avevano svolto alcuni teologi riconosciuti come tali (santi padri), integrata dalle decisioni dei concilî. Dal sec. VIII in poi i teologi non possono, in massima, se non ripetersi. Anche in questo campo alla mobilità greca, cioè occidentale, si sostituisce gradualmente la rigidità orientale.
Nel nono secolo la separazione dottrinale da Roma, attuata dal patriarca Fozio (867), sbarra la via per sempre a influssi occidentali non soltanto nella dogmatica e forse neanche soltanto nella religione. La devozione greca rimane rivolta verso il di là, rimane meramente contemplativa; mentre già i benedettini, i soli monaci dell'Occidente, operano per l'agricoltura e per la cultura; mentre i nuovi ordini non più di monaci ma di frati, i domenicani e i francescani, si rimescolano al popolo da cui sono usciti, operando e beneficando, il monachesimo greco cerca di guadagnarsi la vita eterna con l'ascesi e la preghiera, alle quali viene attribuito un potere quasi magico. I monaci bizantini sono stati spesso fior d'intriganti; ma, in quanto monaci, hanno soltanto pensato a sviluppare sempre più la liturgia e a umiliarsi dinanzi alla divinità. Misticismo individuale non manca, se pure il suo rappresentante maggiore, Simeone "il nuovo teologo" fiorisce solo nel sec. XI; manca qualsiasi tentativo di volgere al bene sociale la devozione individuale. La sola controversia teologica che testimonî in qualche modo di una certa vitalità religiosa, quella sulla legittimità delle immagini (la cosiddetta questione degl'iconoclasti), la sola, insieme, che metta per qualche momento a contrasto con lo stato una parte almeno della chiesa, i monaci (sec. VIII), si accende dapprima in Asia Minore e si estende ai Greci ch'erano ormai sotto il dominio islamico: e non è escluso che l'impulso a essa venga dal di fuori, venga dall'Islam, il quale, come è noto, condanna severamente qualunque immagine divina.
Come la religione, così, sebbene non senza eccezioni e riserve, si può dire che sia volta indietro, almeno da un certo punto in poi, tutta la civiltà bizantina, nella quale la religione ha parte così preponderante. Di qui si spiega come la vita universitaria bizantina sia interrotta per secoli, e, quando v'è, non dia frutti gustosi: la scienza non poteva essere qui che scolastica, ben più scolastica di quella che è chiamata con questo nome in Occidente.
Merita ora questa civiltà rigida e arcaistica, questa civiltà, diciamo pure, inferiore, che uno si affatichi a studiarla? Innanzi tutto, si può osservare che la civiltà bizantina ha pure, per quanto non siano chiare le ragioni di questo mutamento, trasceso il bizantinismo, ha per lo meno mutato fronte: dal sec. XI in poi si nota un cambiamento, ch'è progresso. Sotto i Comneni, da Alessio I (salito al trono nel 1081) in poi, l'arte e la letteratura si avviano per strade che taluno chiama umanistiche; la speculazione individuale si libera in qualche modo dell'ortodossia; la libertà degli spiriti si palesa modestamente in satire poetiche e in dialoghi lucianei. Perfino la lingua del popolo (di ciò meglio più sotto) si fa qua e là strada nella letteratura. Ma la conquista franco-veneta di Costantinopoli nel 1204, quali si siano stati i suoi risultati nella storia della potenza di Venezia e in genere della cultura occidentale, soffoca quei germogli. Il cosiddetto umanesimo del periodo dei Paleologi (dal 1261 in poi) è poco più che classicismo grammaticale e stilistico, nulla insomma di nuovo: ancora una volta un movimento verso il passato, se pure verso un altro passato. Del resto la cultura mal poteva prosperare in uno staterello stretto e soffocato da Franchi, Bulgari, Arabi e Turchi (Selgiuchidi e Osmanli). Né per un secolo di certa riconquistata freschezza intellettuale varrebbe forse la pena di spendere tanta fatica.
Ma v'è ben di più: come la tarda civiltà latina ha generato da sé tutta, si può dire, la civiltà del medioevo occidentale moderno, non solo la romanza, ma anche la germanica e la civiltà inglese, così singolarmente contemperata di elementi romanzi e germanici; così la civiltà bizantina è la madre di tutte le civiltà dell'Europa orientale. Per l'Occidente Bisanzio è stato, durante il Medioevo, il veicolo di qualche elemento di cultura orientale, o la fonte di qualche raffinamento nella civiltà materiale e nell'economia (p. es. industria della seta), certo anche di qualche influsso nelle arti figurative (v. sotto: Arte). Maggiore sarà stato, naturalmente, l'influsso sulla cultura dell'Italia Meridionale e della Sicilia. E solo l'immigrazione dei Greci in Italia già prima e in più larga misura subito dopo la caduta di Costantinopoli ha, se non prodotto, e forse neppur accelerato, almeno venato leggermente di colori greci l'umanesimo, in origine tutto latino, degl'Italiani, che era allora già a buon punto; e ha specialmente, trasportandoli tra noi, salvato dalla distruzione i testi dei classici greci, rendendo così possibile il nuovo umanesimo, questo, sì, veramente greco, che incomincia col principio del sec. XIX e dà alla cultura di questo secolo la sua impronta. Ma per l'Oriente Bisanzio ha avuto una funzione forse più importante, certo più strettamente connaturata con il carattere dell'età bizantina. Essa ha trasmesso la letteratura greca e, attraverso la letteratura, spiriti greci, cioè occidentali, ai Siri, ai Persiani, agli Armeni, e, che più importa, agli Arabi. Influssi greci sono giunti durante il Medioevo in quella nazione ch'era il centro della civiltà europea, la Francia, attraverso gli Arabi, cioè attraverso Bisanzio. Questo è ancora il meno: più significa che le civiltà slave dei Balcani e di Russia si erigono su base bizantina. E questa differenza originaria di fondamento culturale spiega in parte l'abisso tra la Russia e l'Occidente, che il bolscevismo ha in questi ultimi anni scavato forse ancor più profondo. Monaci greci, Cirillo e Metodio, incominciarono nel sec. IX l'evangelizzazione dei popoli slavi, e portarono loro, insieme con il battesimo, l'alfabeto, un alfabeto greco onciale adattato ai suoni che in greco mancavano. L'evangelizzazione cominciò dagli Slavi del Sud, i Bulgari e i Serbi, ma si estese subito ai Russi; Kiev divien presto un centro di ecclesiastici ortodossi. Traduzioni di padri della chiesa e di storici bizantini formano la prima letteratura slava. Le letterature popolari slave, non meno delle altre la russa, riflettono spesso leggende bizantine. Questa funzione storica rende Bisanzio interessante, ancor più che per il filologo classico (che in essa vede specialmente la conservatrice, la trasmettitrice dei testi antichi), per lo storico della cultura medievale e per lo slavista.
Valore e caratteristiche della letteratura bizantina: la lingua. - Vi sono due maniere di studiare una letteratura: o come complesso di valori estetici, o come espressione, documento di una cultura. Che di applicȧre il primo modo alla letteratura bizantina non valga la pena, si può, nonostante le proteste isolate di qualche bizantinista più appassionato che giudizioso, asserire con perfetta sicurezza, anche senza rifiutare la meritata simpatia alla letteratura popolare e a certa parte di quella dotta (cioè scritta nella lingua dotta), specie alla lirica liturgica (melodi) e ad alcune pagine di storici. Che il secondo modo, invece, di considerare la letteratura bizantina sia perfettamente adeguato all'oggetto, è implicitamente dimostrato dalle considerazioni or ora esposte.
Queste medesime considerazioni spiegano anche per buona parte certe caratteristiche della letteratura bizantina, che diminuiscono ai nostri occhi moderni il suo valore artistico. Gli autori bizantini, anche quelli che si sono innalzati dal popolo per la carriera degl'impieghi o più spesso del chiericato, sono dal popolo ancor più straniati che, poniamo, i letterati greci del tempo della seconda sofistica. Essi sentono l'orgoglio di possedere la sapienza, e ritengono inferiore chi non la possiede: il male è che questa sapienza è pura dottrina teologica, grammatica, rettorica, non vivificata dal soffio della personalità. I letterati bizantini hanno tutti su per giù la stessa cultura, le stesse letture, e, ch'è peggio, lo stesso modo di sentire le stesse letture. Arte è per noi liricità, cioè personalità. Questa letteratura, in complesso, difetta di elementi personali. Essa, come tutta la cultura, è prevalentemente rivolta verso il passato: ciò ch'è puramente moderno, è per lo più nella letteratura bizantina qualcosa di penetrato contro le intenzioni dell'autore, un felice errore.
Tipica è già la distribuzione tra i varî generi letterarî di ciò che si produce. Nella letteratura bizantina di lingua dotta c'è molto più di prosa che di poesia, e nella prosa la maggioranza assoluta appartiene alla teologia. Qualcosa di simile a speculazione filosofica, se si eccettuano i commenti ad Aristotele, tra i quali tuttavia hanno una preponderanza schiacciante quelli all'Organo, e all'Isagoge di Porfirio, vale a dire trattati meramente scolastici di logica, appare soltanto nel sec. XI con Michele Psello; e questa rimane una meteora isolata. Abbonda la storia, in certi tempi cronache grossolane, in altri anche opere di livello più alto o di più ampio respiro; ma a ben poco si riduce la geografia: il dotto bizantino abbandona al volgo curiosità non libresche. Fortemente rappresentata è la rettorica, appunto perché rettorica è tutta l'educazione; così anche la grammatica pratica, normativa, perché chi scrive una lingua artificiale, ha bisogno di norme imposte dal di fuori; la produzione filologica, per noi preziosissima, perché ci ha conservato, direttamente o indirettamente, la letteratura e la lingua greca antica, apparirà meno meritoria a chi pensi che essa consiste in grande parte in compendî o rifacimenti di opere antiche, con che non si nega il valore relativamente alto di alcuni filologi bizantini, per es. di Fozio ed Areta, ma anche dei fratelli Tzetze. Nella poesia stessa prevale la lirica liturgica: dei generi profani, l'epigramma imita per lo più senz'intenzione o consapevolezza di novità modelli ellenistici o imperiali: la novità è, se mai, inconscia, e consiste in stucchevole prolissità; ma eccezioni non mancano. Né c'è dramma: la miserabile compilazione del Christus patiens (sec. XI o XII) è destinata alla lettura. Maggior forza ha in certi periodi la poesia satirica e specie la didattica, quest'ultima, così com'è trattata, poesia senza poesia.
Alla lingua abbiamo già dovuto accennare parecchie volte: sua qualità precipua è l'artificialità. Qui per vero il giorno fatale è anteriore di molti secoli all'età bizantina e cade sotto l'impero di Augusto, quando i Greci (v. atticismo), ripudiata la κοινή, la lingua di ogni giorno, si volsero a imitare anche nella lingua modelli attici dei secoli V e IV a. C. Da quel giorno, poiché la lingua letteraria si sforzò di rimanere immobile e persino di rifare la strada all'indietro, mentre la lingua popolare continuava il suo cammino, si preparò nel mondo greco quello stato di duplicità linguistica che nel Medioevo bizantino è già un bel pezzo innanzi o forse del tutto compiuto. Si può persino sostenere che il greco volgare si sviluppò più presto e più liberamente, man mano che divenivano più tenui i suoi contatti con la lingua letteraria, che suole altrimenti raffrenare e regolare il corso della volgare. I Bizantini imparano a scuola la lingua che scriveranno, come imparano la teologia o la rettorica. È naturale che in una lingua convenzionale, artificiale, sentita anche dai più virtuosi non immediatamente, la personalità stilistica, cioè artistica, non si possa spiegare se non in misura molto ristretta: di Giovanni Pascoli non ve n'è stato che uno, e il suo latino è infinitamente meno puristico che il greco dei Bizantini. Ed è probabile che alcuno di questi abbia dovuto imparare non solo quel greco, ma il greco, e che ve ne fossero alcuni che avevano parlato da bambini un'altra lingua, come Luciano. Tracce di lingua indigena non si trovano per vero nell'Asia Minore che scarsissime e solo in regioni lontane dai grandi centri: esse paiono scomparire del tutto dal sec. VI in poi, proprio cioè dall'inizio dell'età bizantina. Ma l'arabo, il siro, il copto strappano di nuovo, man mano che chiese nazionali si staccano dalla chiesa bizantina o man mano che progredisce l'Islām, alla lingua greca dominî che ad essa parevano definitivamente acquisiti; e del resto il processo di contrazione dell'ellenismo comincia già nel sec. II a. C. Negli ultimi secoli dell'età imperiale, nei primi, che sono i più produttivi, dell'età bizantina, i più e i migliori tra gli scrittori vengono appunto dall'Egitto, dalla Palestina, dalla Siria. Ma tutto ciò importa insomma meno che l'artificialità di tutta la lingua letteraria.
Anche questa non è, com'è naturale, costante per quasi novecent'anni e in tutti gli scrittori; ma oscilla secondo materia, pubblico, anche cultura dello scrittore, il quale talvolta, pur volendo usare il linguaggio alto, non vi riesce, ma ricade nel popolare. Nel sec. VI il cronista Giovanni Malala, nel VII il biografo Leonzio di Napoli, nel IX il cronista Teofane, nel X persino un imperatore, Costantino Porfirogenito, fanno concessioni alla lingua volgare. Ma la fine del sec. IX segna un innalzamento della cultura, un rifiorire della filologia e insieme un ritorno all'antico. Da allora in poi la lingua letteraria diviene sempre più dotta, lontana dalla vita, puristica. Tutto ciò dimostra che quelle concessioni erano, come si è già accennato, in buona parte involontarie, frutto d'incapacità; ma rivela anche quanto più alti siano stati gli spiriti del nostro umanesimo; se a questo non rimasero davvero ignoti gerghi pedanteschi, essi non poterono mai prevalere nelle nostre letterature. Il fatto che il cosiddetto umanesimo greco del periodo di Fozio sbocchi in un gergo pedantesco, significa ch'esso fu tutt'altro che umano.
Dal sec. XII in poi conosciamo una vera letteratura popolare, specie poetica, che corrisponde in qualche modo alle nostre letterature romanze e germaniche del Medioevo. Ma, a differenza che in Occidente, i volgari di Grecia non riescono a conquistarsi né la stima né la tolleranza della classe dirigente, ristretta di numero e di mente: non ci fu, non ci poté essere un Dante bizantino che scrivesse un De vulgari eloquentia greco. La letteratura volgare bizantina fiorisce, e anche questo è caratteristico, lontano da Costantinopoli, ai confini di quello che era allora il mondo greco.
Caduto in Costantinopoli il centro unico della letteratura che sola contava agli occhi della classe alta, dispersi i dotti Bizantini per l'Occidente, la letteratura volgare, rimasta, si può dire, l'unica, prese vigore. A Creta, nei secoli XVI e XVII, nelle isole Ionie nel XVIII fiorisce una letteratura volgare non esente, naturalmente, da forti influssi occidentali, filtrati attraverso Venezia. Ma la Grecia unificata dispregia di nuovo la lingua popolare. Nulla caratterizza meglio i Greci se non questo fatto, che ogni innalzamento della coscienza nazionale coincide in loro con un irrigidimento classicistico. Il disprezzo per i dialetti, la conservazione artificiale di forme linguistiche morte da secoli è carattere orientale: esso ha analogia nelle moderne letterature araba, sira, turca, armena, cinese.
Una lingua artificiale, anzi già una lingua arcaizzante è sempre, da Omero in poi, un compromesso: ognuno scrive come può e non come vuole. Per giunta nella letteratura bizantina, sia prosaica sia poetica, si nota una tensione, un contrasto altamente istruttivo tra l'antichità puristica, almeno intenzionale, della lingua e l'ubbidienza a canoni formali, ritmici, che contravvengono allo spirito delle lingue antiche, e, in quanto si possono confrontare con fatti analoghi del Medioevo occidentale (v. cursus), si possono a buon diritto chiamar medievali; contrasto evidente a chiunque venga agli studi bizantini dall'antichità classica, eppure sfuggito, sembra, ai bizantinologi. La prosa d'arte antica è caratterizzata da clausole quantitative, vale a dire dal ricorrere in fin di periodo o di colon (v. colometria) solo di certe determinate serie di lunghe o di brevi. Già nell'età ellenistica l'accento greco diviene di prevalentemente musicale prevalentemente espiratorio: per effetto di questo mutamento le quantità, dopo aver lottato ancora per secoli, vanno man mano eguagliandosi, cioè annullandosi. Le clausole ritmiche sono sostituite già nella prima metà del sec. IV da clausole accentuative: se è accentata la terzultima sillaba del periodo o del colon, essa è per lo più preceduta da due sillabe atone (ma anche da una o più); quasi mai da un'altra accentata; se è accentata la penultima, dinanzi a essa stanno necessariamente due sillabe atone (regola di Bouvy-Wilamowitz). Da Sinesio (sec. IV-V) in poi, i Greci seguono una legge più severa: l'ultima sillaba accentata del colon o del periodo dev'esser preceduta da almeno due sillabe atone (regola di Wilhelm Meyer aus Speier). Alcuni Bizantini più rigorosi, ammettono per es. innanzi all'ultima sillaba accentata intervalli di sillabe atone solo in numero pari (2, 4, 6 e così via, non 1, 3, 5; regola di P. Maas), o finiscono ogni colon con un doppio dattilo (non quantitativo, s'intende, ma accentuativo: ἐξέτασις γίνεται). Vi è anche per vero, chi a tali regole si ribella; almeno uno scrittore, Procopio di Cesarea, ne segue tutt'altre. Ad ogni modo, queste regole, analoghe al cursus latino, ci mostrano che la prosa, che voleva essere classica, dei Bizantini era da essi sentita in modo non classico, ma dinamico, medievale, moderno.
Fatti analoghi s'incontrano anche nella poesia. Il verso più diffuso nella letteratura bizantina è un dodecasillabo, esternamente analogo al trimetro classico: la quantità delle sillabe è rispettata sino a Giorgio Piside (principio del sec. VII); dal sec. VIII fino alla metà del IX non v'è scrittore che non cerchi di evitare errori, ma che, per quanto badi, non ne commetta. Il classicismo dei secoli IX-X escogita un compromesso: è lecito usare come ancipiti in qualunque parola (non solo in categorie privilegiate, titoli, vocaboli stranieri) solo le vocali α, ι, υ, quelle cioè in cui l'antica quantità, ormai scomparsa da secoli, non era ricordata dall'ortografia. Questo mostra che i Bizantini, almeno da un certo tempo in poi, leggevano i trimetri antichi con l'occhio, non li sentivano con l'orecchio. Ma v'è di più: la quantità è per i Bizantini solo una cornice, una condizione esterna, non l'elemento essenziale del verso; questo è costituito invece: 1. dal numero delle sillabe; 2. da una pausa o dopo la quinta o dopo la settima sillaba. Nella sua forma originaria questo verso non è obbligato ad accenti determinati. La regolazione dell'accento appartiene a una fase successiva del suo sviluppo. L'origine orientale, sira, di questo verso, come in genere della poesia ritmica greca e latina, non è ancor certa (o solo, come vedremo, per un caso particolare). La forma più antica del dodecasillabo è identica con un trimetro classico privo di soluzioni, letto secondo gli accenti grammaticali; è dunque un verso "barbaro" nel senso carducciano, medievale (il che non esclude ancora incroci con metrica sira). Allo stesso principio, non antico, corrisponde l'altro metro più usato dai Bizantini (dal 1000 in poi), il "verso politico" (cioè borghese, comune), di 15 sillabe, divise in due cola di 8 e 7. Dunque contrasto tra lingua antica e ritmica nuova.
Periodi della letteratura bizantina. - Si suole dividere la letteratura bizantina in quattro periodi: 1. il primo fiore da Giustiniano ad Eraclio (527-641); 2. il tempo della peggiore decadenza (641-850); 3. il primo risorgere della cultura da Fozio in poi (850-XI sec.); 4. il classicismo dell'età dei Comneni e dei Paleologi (sec. XII-XV). Fuori del quadro rimane, per la ragione spiegata, la letteratura in lingua volgare, la quale, tuttavia, appare vigorosa solo dal principio del IV periodo in poi. Fuori del quadro rimangono anche tutte le opere pertinenti alla letteratura scientifica, per le quali si vedano le voci relative alle singole scienze; in particolare, v. medicina: Storia.
Questa partizione appare ragionevole: la fine del primo periodo è contrassegnata da fatti politici della maggiore importanza: tutto ciò che non era profondamente grecizzato, vale a dire tutto tranne la penisola balcanica e l'Asia Minore, va perduto all'impero. La Siria e l'Egitto cadono per sempre nelle mani dell'Islām; la Spagna è di qui in poi completamente gotica; gli Slavi ricoprono tutto il territorio a nord dell'Emo; essi penetrano progressivamente anche nella penisola greca sino al Peloponneso, ma qui, soggiacendo man mano alla superiorità culturale della popolazione ancora relativamente fitta e prettamente greca, vengono assimilati. A ogni modo la letteratura di qui in poi non è più "ellenistica", gli scrittori non sono più Orientali ellenizzati di recente: l'ellenizzazione dell'Asia Minore era ormai completa e già antica.
Il secondo periodo è per la letteratura il più infecondo, un'era di desolazione: tutte le forze dell'impero si concentrano nella lotta contro gli Arabi. Se già il primo imperatore della dinastia cosiddetta isaurica, Leone III (717-741), segna il principio di un risollevamento politico, la letteratura non rinasce se non nel sec. IX. La fine della contesa delle immagini (843) è anteriore di pochi anni all'ascesa di Fozio al trono patriarcale di Costantinopoli: Fozio è insieme colui che separò dottrinalmente la chiesa greca dalla romana e colui che restaurò gli studî dei classici.
Il principio dell'ultimo periodo coincide di nuovo con un rifiorire dello stato bizantino, sotto i Comneni. Quei quattro periodi non sono, dunque, divisioni puramente convenzionali, quella partizione è in qualche modo storicamente giustificata.
Il primo periodo. - Esso è ancora, come si è già accennato, veramente ellenistico: prevalgono tra gli scrittori per numero e per valore quelli che per razza, fors'anche per la lingua parlata da bambini, si possono con pieno diritto chiamare orientali. Il primo periodo della letteratura bizantina è insieme il più alto e quello di più rapido progresso nell'orientalizzazione; tipica per ambedue queste caratteristiche è la figura di Romano, nato in Siria, da genitori giudei, diacono a Beirut, passato a Costantinopoli già sotto Anastasio I (491-518). È il maggior poeta, forse l'unico vero poeta dell'età bizantina, ha scritto i migliori inni della chiesa bizantina, contacia, κοντάκια o κονδάκια (i più certo sotto Giustiniano; parecchi alludono a fatti avvenuti tra il 531 e il 537). Questi inni trattano gli stessi argomenti delle omilie, tranne che sono verseggiati; sono prediche in versi. La forma metrica, accentuativa, consiste di un numero rilevante di strofe (οἶκοι, da 18 a 24), di rigorosa responsione nel numero delle sillabe, accenti e divisione sintattica: precede una strofa d'altro metro (κουκούλιον). Si nota anche nell'interno di ogni strofa una certa responsione di cola e periodi. Acrostico e ritornello sono obbligatorî: il ritornello è ripetuto in coro dalla comunità; tutto il resto cantato dal sacerdote. È certo che questa forma (probabilmente non coniata, ma perfezionata da Romano, perché alcuni contacia anonimi pubblicati di recente paiono, a giudicare dalla semplicità della struttura non solo metrica, più antichi) è sorta non senza forti influssi siriaci. Certo, Metodio (morto nel 312) ha già composto (nel suo partenio) una specie di contacio ancora quantitativo, privo di κουκούλιον, non di acrostico; simile per trattazione ed estensione, simile nella distribuzione del canto tra la corega (la strofa) e le vergini (il ritornello). Ma la letteratura siriaca ha tre forme, memrā, madhrāshā, soghīthā, che per una parte o per l'altra, nelle caratteristiche fondamentali, sono simili al contacio (il memrā predica epica, come spesso i contacia appunto di Romano; la madhrāshā ha ritornello obbligatorio, acrostico frequente, strofe complicate; la soghīthā è un canto alterno con acrostici obbligatorî: la materia biblica è trattata dialogicamente, come per lo più in Romano). Quel che la comunanza del principio del numero fisso delle sillabe non basterebbe ancora a dimostrare, è provato da queste coincidenze. Influssi siri hanno avuto per lo meno parte importante nello sviluppo di questa forma poetica, la più originale di tutta la letteratura bizantina. La possibilità di contatti è evidente: le poesie di Efrem (morto nel 373) furono tradotte in greco, vivo ancora lui, in serie che avevano tutte, come nell'originale, lo stesso numero di sillabe. Questo fatto induce a non scartare del tutto l'ipotesi, non provata, dell'origine sira di altre forme metriche bizantine (v. sopra); forse vi fu un fenomeno di convergenza. I Greci hanno aggiunto di proprio gli accenti in sede fissa: già Gregorio di Nazianzo aveva scritto versi secondo un principio accentuativo.
A questo primo periodo (forse alla prima metà del sec. VII) appartiene anche il pio romanzo di Barlaam e Joasaf, che ha avuto influsso sulla maggiore letteratura dell'occidente, la francese, ma anche su letterature orientali, dalla slava all'armena e alla georgiana: fonte prima è, com'è noto, la leggenda del Buddha. Il libro greco è scritto in una lingua ancora non troppo lontana da quella del popolo. Questo periodo (del sec. VI e del VII) segna anche il maggior fiore dell'agiografia: notevole per pienezza di vita e semplicità, quasi popolaresca, di lingua la vita di S. Giovanni il Misericordioso di Alessandria, opera di Leonzio di Napoli nell'isola di Cipro (metà del sec. VII).
La vera teologia è invece in questo periodo in piena decadenza: la produzione dogmatica è poco originale, e quasi soltanto ristretta alla trattazione delle controversie cristologiche: cominciano già a farsi largo, anche in questo campo, antologie. I commenti biblici sono sostituiti da catene, cioè antologie da commenti precedenti. La storia della Chiesa dopo una prima produzione assai abbondante (Socrate, Sozomeno, Teodoreto), cessa nel sec. VI con Evagrio: solo nel sec. XIV si ha un compilatore: Niceforo Callisto Xantopulo.
Se si passa alla letteratura profana, la storiografia è il genere che meno sembra aver risentito del mutamento dei tempi: essa non pare aver avvertito neppure il cristianesimo. È continuato perfino l'antico costume (da Senofonte in poi!) di proseguire l'opera di un predecessore. Lo storico maggiore di questo periodo è il palestinese Procopio di Cesarea, uomo maligno e forse malvagio, ma narratore bene informato e dotato di spirito di osservazione. Anch'egli appartiene all'età di Giustiniano, per la quale è nostra fonte precipua. Più profondamente cristianizzate appaiono le cronache che schizzano la storia universale dal principio del mondo fino al presente, allargandosi man mano che si avvicinano ai tempi moderni. Lo schema, che ha dato nome a questo genere, è una trasposizione meccanica della cronologia universale. Queste opere continuano modelli ellenistici (Apollodoro di Atene, la Cronaca di Paro, anche Diodoro Siculo), ma la trattazione è atta a simboleggiare la distanza tra le due culture. Il pubblico "colto" al quale esse si rivolgono, è quello dei monaci: il sentimento che ispira l'opera, che pure ha aspirazioni cosmiche, è spesso il più ristretto patriottismo locale; spirito critico e cultura vera mancano del tutto: la successione di fatti e personalità è per i periodi più antichi stranamente spostata. Il lettore italiano deve ripensare alle peggiori tra le cronache monastiche del nostro Medioevo per farsi un'idea di questi prodotti bizantini. Il più celebre scrittore di cronache, ma anche uno dei più incolti è Giovanni Malala di Antiochia (sec. VI). La lingua di questi scrittori è tuttavia interessante perché relativamente poco classicistica. Queste cronache bizantine sono proseguite nella più antica letteratura degli Slavi del sud e dei Russi.
La poesia profana prosegue dapprima l'attività dei poeti del sec. V, il maggiore dei quali per esuberanza di fantasia, mirabile facilità di comporre versi, pur rispettando rigorosissime osservanze, potenza di creazione linguistica, è l'egizio Nonno (v.). Epigrammi su antichi modelli sono stati composti in Bisanzio, si può dire in ogni tempo. Ma nella prima metà del sec. VII Giorgio Piside tenta uno stile nuovo: egli canta sia avvenimenti storici, sia controversie teologiche, sia argomenti morali-satirici, sia la creazione del mondo (la sua opera maggiore), nel verso nuovo (dodecasillabo bizantino) di cui abbiamo parlato sopra.
Il secondo periodo. - I secoli bui sono come dominati da un'unica figura di teologo poeta, Giovanni Damasceno (prima metà del sec. VIII). È notevole che il solo scrittore di quest'età non sia né Greco né suddito dell'imperatore di Bisanzio, ma un Siro suddito del califfo arabo. È altrettanto caratteristico per la cultura bizantina che quello che la chiesa greca considera quale il maggiore dei dogmatici, sia per lo più, anche nella maggiore delle sue opere teologiche, la Fonte di conoscenza, un compilatore, che non riesce originale se non colà dove combatte contro le eresie nuove. Egli incarna in sé ancora una volta il tipo del sapiente orientale, volto verso il passato, e questa volta con perfetta consapevolezza, se disse di sé: "Io non dirò nulla che sia mio"; egli simboleggia bene in questa sua qualità la chiesa ortodossa. Giovanni Damasceno fu anche poeta liturgico; egli e il suo contemporaneo Cosma di Gerusalemme sostituiscono alla poesia liturgica di Romano, forme (canoni, κανόνες) molto più complicate, che si rivolgono all'intelligenza più che all'orecchio. La lingua è anche molto più classicistica che quella dei suoi predecessori: la poesia del Damasceno dovette presto, per essere intesa, venir commentata.
Il terzo periodo. - Che il principio del terzo periodo coincide con un certo rifiorire politico dello stato bizantino, che in quegli anni la chiesa nazionale, superata la controversia delle immagini, diviene più una in sé, mentre si prepara a staccarsi definitivamente da Roma, è già stato accennato di sopra. È il tempo in cui l'attitudine del cattolicismo bizantino rispetto sia alla scienza, sia all'antichità pagana muta profondamente. Il pregiudizio ortodosso contro l'antichità classica è finalmente in questa età superato. Il ministro Barda rifonda in Costantinopoli (863) una università per filosofia, scienze naturali e filologia; il patriarca Fozio è classicista con tutta l'anima. La maggior parte dei buoni manoscritti di classici greci appartiene a questo secolo o a quello immediatamente seguente. La cerchia, di cui Fozio è il centro, ricerca codici antichi e cura che le opere che ormai stavano per perdersi, siano trascritte nella scrittura e nell'ortografia nuova (minuscola); ancora uno scolaro di Fozio, Areta di Cesarea (v.), copia, fa copiare e commenta testi classici. Fozio stesso ci trasmette nella sua Biblioteca compendî di circa 300 opere dell'antichità (specie storiche e persino geografiche, che lo interessavano per il loro contenuto). Nel secolo seguente l'imperatore Costantino Porfirogenito (912-959) fa compilare e in parte compila egli stesso da tutta l'antica letteratura storica greca una raccolta di estratti che, disposti per materia, doveva formare una specie di enciclopedia storica: solo una parte ci è conservata, ma questa parte ci ha trasmesso il più di quel che possediamo della storiografia ellenistica e postellenistica. A questi due secoli noi dobbiamo l'Antologia palatina di Costantino Cefala, la raccolta delle Vite di santi di Simeone Metafraste, il Lessico di Suida, cioè i fondamenti della nostra conoscenza dell'antico epigramma, dell'agiografia greca, d'infinite forme greche dialettali e rare. Ma il filologo classico non si deve lasciar trascinare dalla gratitudine a chiamare umanistico, a valutare alla pari del nostro Rinascimento un periodo che è solo classicistico, e quindi infecondo.
Il sec. XI passa a qualcosa che si può forse chiamare produzione originale. Michele Psello (1018-1078?), avvocato, poi professore di filosofia, poi monaco, poi ministro, è scrittore, per varietà di materia, quasi universale. È suo merito il rifiorire in Costantinopoli, fino allora aristotelica, cioè scolastica, d'un interesse vivo per Platone e il suo sistema. La sua opera storica, sul periodo dal 976 al 1077, pur tendenziosa, è fonte importante. Su tutta la propria poligrafia egli riversa però una salsa retorica che vorrebbe essere platonica.
Il quarto periodo. - Sotto i Comneni raggiunge un alto livello la storiografia: trattate con particolare amore sono le sorti dell'impero bizantino al tempo delle crociate. Gli storici appartengono in parte alla stessa famiglia imperiale: le gesta di Alessio Comneno sono narrate prima dal genero Niceforo Briennio e, dopo la morte di questo, dalla figlia Anna Comnena. Quest'Alessiade di una donna rappresenta il più esclusivo purismo che si possa immaginare: il greco fu da lei studiato come una lingua straniera. L'arcivescovo Eustazio di Tessalonica (morto circa il 1192) è noto generalmente per i suoi prolissi commenti ai poemi omerici e ad altri poeti dell'antichità, che riescono utili specie dove il capriccio della tradizione ci è stato avaro di esegesi più antica. Ma egli ha scritto anche molto su argomenti d'interesse allora attuale: sulla riforma della vita monastica, sul nome volgare papas dei preti, persino sul modo di rifornire Costantinopoli di acqua potabile. Fu uomo onesto e franco, punto bizantino di carattere, d'anima singolarmente fresca. Del suo amico e scolaro Michele Acominato, arcivescovo di Atene (circa 1140-1220), sono famosi i giambi sulla decadenza della sua città, che ci ricordano i lamenti dei più antichi umanisti nostri su Roma. Sotto i Comneni si ricominciano a scrivere romanzi; si producono con abbondanza satire poetiche e dialoghi lucianei; ma tutta questa non è, insomma, che mediocrissima letteratura d'imitazione.
Degli effetti perniciosi della conquista franca abbiamo detto più sopra. Ma la vita intellettuale si risolleva ancora una volta sotto gli ultimi Paleologi. In quest'età la filologia, che ancora al principio del sec. XII aveva avuto nei fratelli Tzetze rappresentanti dotti ma privi di critica e di gusto, ascende a più alte vette: Massimo Planude e Manuele Moscopulo sono filologi almeno rispettabili, Demetrio Triclinio non ha avuto per molti secoli anche in Occidente alcuno pari per la conoscenza della lingua di autori anche difficili, come Eschilo, e per produttività critica. Le contese pro o contro l'unione con la chiesa latina appaiono, nel momento in cui la vita stessa dell'impero appariva minacciata, davvero bizantine. Ma insomma si desta l'interesse per molteplici campi dello scibile, e la stessa persona congiunge spesso curiosità svariatissime, come anche da noi prima della "specializzazione" positivistica. La figura più complessa di quest'età è forse Niceforo Gregora (morto verso il 1360), teologo nemico degli Esicasti (v.), agiografo, ma anche autore di un'opera storica sul tempo tra il 1204 e il 1359, scrittore di grammatica e retorica, astronomo. Un piano di riforma del calendario mostra che il suo spirito non era solo volto verso il passato. Tra i Bizantini egli par quasi un occidentale. La storiografia continua a essere coltivata sino alla caduta di Costantinopoli da Duca, Giorgio Franze, Laonico Calcondila.
Qui sotto i Paleologi, specie nella persona di Niceforo Gregora, il classicismo sembra quasi trascenda sé stesso, stia per divenire umanesimo. Né si può negare che i dotti bizantini rifugiati in Occidente vi abbiano portato qualche germe vitale, se pure è certo che l'Italia era già prima della caduta di Costantinopoli un paese di cultura umanistica, se pure non greca.
La letteratura popolare. - La perla della letteratura popolare bizantina è il ciclo di canti che prende nome da Digeni Acrita. Suo fondamento storico sono le lotte di confine (ἀκρίτας, da ἄκρα, "confinario") combattute nei secoli X e XI in Cappadocia e Mesopotamia, contro nemici musulmani, specie saraceni e Turchi Selgiuchidi. Digeni stesso è figlio di un emiro musulmano e di una cristiana (il nome significa Renato). La leggenda vive ancora in canti neogreci di Trebisonda, Cappadocia, Cipro, e perfino in canti slavi delle steppe della Russia meridionale. Le redazioni letterarie (in versi politici) che ne abbiamo, appartengono ai secoli XV-XVII; e la loro forma linguistica è relativamente moderna. Ma le leggende stesse devono essere più antiche, forse del sec. XIII o del XII. La tendenza è moralisteggiante. Le leggende stesse assomigliano a quelle del Medioevo occidentale, specie al ciclo spagnolo del Cid. Manca ancora un'analisi adeguata.
Altri cicli di canti storici si accentrano intorno alla caduta di Costantinopoli e alla morte dell'ultimo imperatore greco, alla conquista di Trebisonda, alla magica costruzione del ponte di Arta (in Epiro): tutti paiono più recenti.
All'epica popolare, sempre in versi politici, appartengono componimenti romantici di materia troiana o che hanno per soggetto la leggenda di Alessandro, inoltre narrazioni romantiche di argomenti derivati dal Medioevo francese, come il poema di Florio e Biancofiore (fonte immediata pare un cantare italiano) e l'altro di Pietro di Provenza e la bella Maghelona, poi una redazione poetica del Fisiologo (v.), un componimento sui quadrupedi e uno sugli uccelli (ambedue satirici), varie imitazioni della storia di Reineke Fuchs. È singolare che, mentre la letteratura bizantina dotta, puristica anche in questo, si mantiene esente da influssi occidentali, storie romantiche e favole di animali, passate o tornate dall'Occidente in Oriente, occupano la fantasia dei volghi bizantini. Di qui si scorge chiaro che l'esclusività della cultura bizantina è, almeno nei suoi ultimi secoli, puramente intenzionale e, si direbbe quasi, non sincera.
Destinate ai volghi ma non scritte in lingua veramente volgare, sono, oltre alla storia di Barlaam e Ioasaf, le redazioni greche di altri due libri orientali, il Sintipa, che è trapassato dall'India per diversi canali in tutte le letterature europee, e la storia di Calila e Diana (in greco Στεϕανίτης καὶ 'Ιχνηλάτης), buddistica in origine come quella di Barlaam e Ioasaf. Il Sintipa fu tradotto da Michele Andreopulo alla fine del sec. XI dal siriaco in greco (la relazione tra le varie redazioni non è ancora definitivamente stabilita); la più antica versione di Calila e Dimna risale al 1080.
In lingua veramente popolare sono invece composti due libri che satireggiano la corte bizantina e i suoi titoli; il libro delle frutta e il libro dei pesci (Πωρικολόγος e Ψαρολόγος); inoltre alcune cronache, raccolte di ricette e raccolte di processi. Ma riconoscimento ufficiale il greco volgare ha avuto solo dai re francesi di Cipro, che fecero tradurre in quella lingua le loro leggi, assises (sec. XIV?): essi erano, appunto, occidentali.
Bibl.: Gli studî bizantini, dopo essere stati trattati insieme con quelli greci antichi e ancora senza idea chiara della profonda differenza delle due età dai grandi Francesi del sec. XVII, furono trascurati nel XVIII e per quasi tutto il XIX, tranne per quel che poteva essere utile alla filologia classica e tranne la storia politica e le fonti di essa (raccolta di testi storici bizantini, Corpus Bonnense, uscito per volontà di B. G. Niebuhr, in Bonn 1828-78; poca critica, per la parte maggiore ristampa di edizioni francesi precedenti, Corpus Parisiense, 1648-1819). Ma subito alla loro ripresa nell'ultimo decennio del XIX essi furono organizzati mirabilmente da K. Krumbacher (v.). Egli scrisse il primo manuale, ottimo come raccolta di materiale, Geschichte der byzantinischen Literatur (2ª edizione, Monaco 1897; la letteratura teologica, ch'è di gran lunga la parte maggiore della bizantina, v'è trattata da A. Erhard; vi è aggiunto un breve compendio, molto soggettivo, di storia politica, opera di H. Gelzer; un rifacimento è in corso di stampa, per opera di A. Heisenberg, il successore del Krumbacher sulla cattedra di Monaco), e fondò il periodico centrale (Byzantinische Zeitschrift, Lipsia 1892 segg.; supplemento il Byznatinisches Archiv, ivi 1898 segg.). Gli studiosi russi, per i quali la cultura bizantina ha importanza speciale, hanno presto (1894), in feconda emulazione con i tedeschi, fondato una loro rivista (Vizantijskij Vremenik, Pietroburgo). Da alcuni anni escono anche un Byzantinisch-Neugriechisches Archiv (diretto da N. Beis, Berlino, poi Atene), dal 1925 una rivista italiana, Studi bizantini, Roma I (1925), II (1927), e dal 1924 una belga, Byzantion (Parigi-Liegi). Grazie specialmente alla Byzantinische Zeitschrift, l'informazione bibliografica è più facile a raggiungersi in questo campo che in qualsiasi altro degli studî storici.
K. Krumbacher ha trattato di nuovo la letteratura greca del Medioevo, in Hinnebergs Kultur der Gegenwart, I, 8; 3ª ed., Lipsia-Berlino 1924, più brevemente e popolarmente, ma mettendo meglio in luce le concezioni storiche che nell'opera maggiore. G. Montelatici, Storia della letteratura bizantina, Milano 1916, può servire per una prima orientazione; K. Dieterich, Geschichte der byzantinischen und neugriechischen Literatur, Lipsia 1902, è importante per la letteratura popolare.
Sulla storia della cultura orienta bene A. Heisenberg, Staat und Gesellschaft des byzantinischen Reiches, in Hinnebergs Kultur der Gegenwart, II, 4, i; 2ª ed., Lipsia-Berlino 1923; v. anche: K. Roth, Sozial- und Kulturgeschichte des byzantinischen Reiches, Berlino 1919; N. Turchi, La civiltà bizantina, Torino 1915; Ch. Diehl, Byzance, grandeur et décadence, Parigi 1919. In buon senso popolari: Ch. Diehl, Figures byzantines, Parigi 1906-08; K. Dieterich, Byzantinische Charakterköpfe, Lipsia 1919. Per il periodo di maggiore altezza culturale, Ch. Diehl, Justinien et la civilisation byzantine au XIe siècle, Parigi 1901.
Per la storia politica, merita di essere citato anche qui Ch. Diehl, Histoire de l'empire byzantin, Parigi 1919.
Su Simeone e in genere sul misticismo bizantino: K. Holl, Enthusiasmus und Bussgewalt beim griechischen Mönchtum, Lipsia 1898.
Sulle scuole: Fr. Fuchs, Die höheren Schulen in Konstantinopel im Mittelalter, Lipsia 1926 (Byz. Arch., VIII). Su tracce di lingue non greche in Asia Minore: K. Holl, in Hermes, XLIII (1908), p. 240.
Sulla lingua: Hatzidakis, Einleitung in die neugriechische Grammatik, Lipsia 1892; K. Dieterich, Untersuchungen zur Geschichte der griechischen Sprache von der hellenistischen Zeit bis zum 10. Jahrh. n. Chr., Lipsia 1898 (Byz. Arch., I); una storia sintetica della questione fino ai tempi moderni: K. Krumbacher, Das Problem der neugriechischen Schriftsprache, Monaco 1902; A. Heisenberg, Dialekte und Umgangsprache im Neugriechischen, Monaco 1928.
Sulle clausole della prosa d'arte: E. Bouvy, Poètes et mélodes, Nîmes 1886, p. 195 segg.; U. Wilamowitz, in Hermes, XXXII (1899), p. 214; Serruys, in Mélanges Havet, Parigi 1909, p. 475; W. Meyer aus Speyer, Gesammelte Abhandlungen, II, Berlino 1905, p. 202; H. Usener, Der heilige Tychon, Lipsia 1907, p. 61; P. Maas, in Byz. Zeitschr., XI (1902), p. 505; XVII (1908), p. 611.
Sul dodecasillabo, fondamentale P. Maas, in Byz. Zeitschr., XII (1903), p. 278 (anche sulla prosodia bizantina); sul verso politico A. Heisenberg, Dialekte (cit. sopra), p. 44. V. anche P. Maas, Griechische Metrik, Lipsia 1927, p. 7. A favore dell'origine semitica della ritmica bizantina (e medievale in genere), W. Meyer, op. cit., passim, ma specie I, ii; II, i segg., 103, 111.
Per i testi vedi in genere sotto i singoli autori. Raccolta di testi poetici liturgici: W. Christ-M. Paranikas, Anthologia graeca carminum christianorum, Lipsia 1871; P. Maas, Frühbyzantinische Kirchenpoësie, I, Bonn 1910. Per la metrica del κοντάκιον è fondamentale P. Maas, in Byz. Zeitschr., XIX (1910), p. 285; v. anche romano.
Per la traduzione del Sintipa, v. da ultimo G. Pasquali, Domenico Comparetti e la filologia del sec. XIX, Rieti 1929, p. 24.
Arte.
L'arte bizantina - che forse converrebbe chiamare arte cristiana d'Oriente - è stata per lungo tempo mal compresa e mal giudicata. Fino a cinquant'anni fa era considerata spesso come continuazione e decadenza dell'arte romana classica; soprattutto, era rappresentata come un'arte immobile, incapace di progressi e di cambiamenti, e che si sarebbe limitata, per secoli, a ripetere servilmente le formule e i temi creati nel sec. VI da qualche artista di genio. Oggi sull'arte bizantina ci sono idee più esatte e più giuste. Fra il sec. IV, in cui nacque, e il XIV, che segna il suo ultimo sforzo, quest'arte, come ogni organismo vivo, s'è svolta e s'è trasformata; ha conosciuto, successivamente, momenti di splendore, epoche di decadenza, splendide rinascite; ha subito influenze diverse, e, secondo le influenze che l'hanno dominata, ha preso aspetti diversi. Si distinguono oggi, nella sua lunga storia, dei periodi che si susseguono senza rassomiglianza di sorta. Dopo il IV e il V secolo, durante i quali si andò lentamente elaborando la formazione dell'arte cristiana d'Oriente, appare il regno di Giustiniano, nel sec. VI, come una prima età d'oro, in cui l'arte bizantina acquista la sua forma caratteristica, e la consacra in capolavori. La grave crisi che attraversò l'impero greco d'Oriente nel sec. VII, la lotta iconoclastica che poi l'agitò dal 726 all'843, dovevano inevitabilmente segnare un momento di sosta e anche una decadenza; ma con l'avvento della gloriosa dinastia macedone comincia, alla fine del sec. IX, una seconda età d'oro, forse la più brillante che abbia mai avuta la civiltà bizantina: durante tre secoli, dal X al XII, l'arte bizantina produce una serie di opere eminenti, differentissime da quelle del VI, e per l'influsso che esercita appare veramente come l'arte regolatrice d'Europa. Infine nel sec. XIV l'epoca dei Paleologi vede il principio di un'ultima rìnascenza, tanto originale quanto inattesa, la quale, fino alla fine del sec. XVI, dimostra quanto l'arte cristiana d'Oriente avesse conservato di vitalità e di potenza creatrice. Ma non basta. Già si cominciano ora a distinguere in ognuno di questi grandi periodi le diverse influenze ispiratrici; si cominciano a riconoscere, in quel che un tempo sembrava un blocco compatto e un po' informe, tradizioni rivali che si combattono o si combinano, a distinguere scuole, d'architettura o di pittura, perfino a intravedere personalità d'artisti. E tutto questo - a cui va aggiunta la larga influenza esercitata, perfino in Occidente, in tutti i secoli della sua storia, dall'arte cristiana d'Oriente - prova quanto quest'arte, lungamente misconosciuta, sia stata viva, varia e capace a un tempo d'invenzione creatrice e di trasformazione originale.
Un altro fatto che non si deve dimenticare attesta la varietà e permette d'identificare meglio il vero carattere dell'arte bizantina. La maggior parte dei suoi monumenti a noi conservati sono opere d'arte religiosa: se ne conclude volentieri ch'essa fosse, nella quasi esclusività, ispirata e dominata dalla chiesa, e che lavorasse soltanto al suo servizio. E anche questo è un errore da rettificare. Accanto all'arte religiosa, esistette a Bisanzio un'arte profana, al servizio degl'imperatori e dei grandi, che seppe decorare i palazzi con grandi figurazioni storiche, con scene pittoresche ispirate alla vita pubblica, con ritratti viventi ed espressivi, con soggetti mitologici e pagani. Disgraziatamente la maggior parte dei monumenti che rappresentavano questo aspetto dell'arte bizantina sono periti; ma questi monumenti ci furono, e bisogna ricordarsene, se si vuole valutare con esattezza il carattere dell'arte cristiana d'Oriente.
Le origini dell'arte bizantina. - È una questione sempre delicata ricercare la prima formazione di un'arte. Per lungo tempo è stata attribuita a Roma un'influenza preponderante e quasi esclusiva sulla nascita dell'arte bizantina; ma oggi, senza voler negare assolutamente questa influenza, molti inclinano, dopo gli studî dello Strzygowski, nel risolvere la questione delle origini dell'arte bizantina, in favore dell'Oriente. All'alba del sec. IV, nel momento in cui il cristianesimo vittorioso aveva bisogno di creare nuove forme d'arte, le tradizioni dell'antichità classica erano ancora vive in tutto l'Oriente; città grandi e fiorenti, come Alessandria, Antiochia e Efeso, erano focolai di cultura ellenica, e intorno a loro, come irradiata da loro, era nata una civiltà originale e forte che s'imponeva all'arte nuova, e doveva fornirle modelli. Ma, oltre le sponde mediterranee dominate dall'ellenismo, in tutto l'interno del paese, rimasto più fedele alle tradizioni del vecchio Oriente primitivo, altre influenze si facevano sentire, specialmente quelle della Persia, ricostituita nel sec. III sotto la dinastia nazionale dei Sāsānidi. A contatto del mondo iranico, degl'insegnamenti che gli venivano anche dalla Mesopotamia semitica, e di quelli più lontani che forse gli giungevano dal fondo dell'Asia centrale, l'ellenismo insensibilmente indietreggiava o si lasciava penetrare da nuove influenze. Due tradizioni si trovavano di fronte: quella ellenistica, di cui Alessandria era il centro più brillante e più illustre, e la tradizione orientale, di cui la Siria doveva presto fissare le formule caratteristiche: dall'incontro di queste due tradizioni rivali e dalla loro combinazione sotto l'influsso del cristianesimo nacque la nuova arte. L'Oriente contribuì con nuove forme d'architettura, come la cupola persiana e la basilica mesopotamica a vòlta, con una nuova concezione della decorazione, col gusto dello stile storico e monumentale, con un senso più realistico nella rappresentazione dei personaggi e delle scene della storia sacra. La Grecia trasformò questi elementi nuovi secondo lo spirito ellenico, li combinò con i ricordi della tradizione classica e, più che altro, mantenne nell'arte cristiana una grande corrente antica, che si manifestò nel gusto della decorazione pittorica, dei soggetti mitologici, delle figure allegoriche, in una tradizione iconografica opposta alla tradizione siriaca, in una ricerca costante della chiarezza, dell'eleganza, della sobrietà. Sotto questa doppia influenza, per due secoli, il IV e il V, un grande e fecondo movimento d'arte preparò, nelle regioni diverse dell'Oriente, l'apogeo trionfale del sec. VI. Di questa attività prodigiosa ci offrono testimonianza i monumenti che si conservano in Oriente, e specialmente in quelle città morte della Siria centrale, dove numerose chiese (Ruwaiḥah, sec. IV; convento di S. Simeone Stilita, fine del sec. V; Qalb Lūzah, Turmānīn, secolo VI) attestano le alte qualità di un'architettura sapiente e vigorosa. Altrove, in Mesopotamia (Ruṣāfah, Amida), in Asia Minore (Bin-bir-Kilīsā), in Egitto (affreschi di Bauit), a Mshatta in Siria (il cui fregio mostra un esempio tanto notevole, sebbene di data controversa, tra il secolo IV e l'VIII, della nuova tecnica della decorazione) si rivela la stessa attività creatrice, che produce nuove forme di architettura, mescola ai motivi decorativi dell'arte ellenistica le figure realiste dell'arte siriaca, oppone una tradizione iconografica più storica e più drammatica alla redazione alessandrina più pittoresca e più simbolica. Dall'Oriente asiatico questo movimento d'arte si propagò attraverso tutto il mondo mediterraneo, a Salonicco (basiliche di S. Demetrio e di Santa Paraskeuē - Eskī Gium‛ah - e chiesa di Santa Sofia, del sec. V) come a Ravenna (mausoleo di Galla Placidia, Battistero degli ortodossi). Ma Costantinopoli soprattutto, accogliendo questi elementi diversi e combinandoli secondo lo spirito ellenico, di cui era uno dei focolai essenziali, seppe fare uscire dagl'insegnamenti e dai metodi che le trasmettevano il mondo classico e il mondo orientale, dopo quel lungo periodo di preparazione, i capolavori che al sec. VI crearono l'arte bizantina.
È grande originalità dell'arte cristiana d'Oriente di aver combinato, durante tutto il corso della sua storia, le due tradizioni rivali, l'ellenica e l'orientale, la lotta e la mescolanza delle quali costituiscono appunto il suo tratto caratteristico. Ma qualunque posto oggi si sia disposti a fare e convenga effettivamente fare in quest'arte all'influenza della Siria, non bisogna mai perdere di vista l'importanza che vi mantenne sempre la tradizione classica. Le rinascenze dei secoli X e XIV sono dovute soprattutto alla persistenza e al risveglio dello spirito antico.
L'architettura. - Santa Sofia è il monumento tipico e insieme il capolavoro dell'architettura bizantina: un insieme meraviglioso, come è stato detto giustamente, di stabilità e di arditezza, di logica audace e di scienza. Innalzata dal 532 al 537 da due architetti originarî dell'Asia Minore, Antemio di Tralli e Isidoro di Mileto, riassume in sé tutto l'insieme dei metodi che avevano preparato il sec. IV e il V, tutto l'ideale d'arte che si proponeva il nuovo stile al suo apogeo. Bisogna dunque analizzarne brevemente i tratti caratteristici.
Una volta davanti alla chiesa si trovava un grande atrio circondato da portici, dei quali oggi non rimane nulla. Da questa corte si entrava nell'edificio attraverso un doppio nartece, che ancora esiste. Subito si rimane stupiti dell'enorme cupola di 31 metri di diametro, che copre la nave centrale a più di 50 metri dal suolo, sostenuta da quattro grandi archi piantati su quattro pilastri colossali. Due di questi archi, al nord e al sud, sono incastrati nella loro curva in un muro traforato da una doppia fila di finestre e sostenuto da due piani di colonne; invece gli archi a est e a ovest, di larga apertura, posano su due vaste mezze cupole che sostengono la cupola centrale, sostenute alla lor volta ognuna da tre nicchie minori. In mezzo all'emiciclo coperto dalla mezza cupola, a est, si apre l'abside. La navata centrale è fiancheggiata da navate laterali a vòlta, sormontate da tribune. In sé questa pianta non ha niente di nuovo né di originale: è una basilica a cupola, che ripete un tipo architettonico frequente in Asia Minore nel sec. V; e l'architettura imperiale aveva già costruito a Roma edifizî non meno complessi. Ma essa fu realizzata a Santa Sofia con tale ampiezza di proporzioni e tale armonia di linee, con tanto prodigiosa audacia di concezione e scienza così sicura nell'esecuzione, che la Grande Chiesa - come la chiamò tutto il Medioevo bizantino - appare una vera creazione. Essa si presenta come un nonumento unico, nel quale l'architettura bizantina consacrò in modo definitivo l'elemento essenziale della sua struttura: la cupola, lasciando un modello incomparabile di quelle sapienti combinazioni di equilibrio che, con l'abile aggruppamento delle vòlte, assicurano la solidità degli edifici bizantini.
Ma, accanto a Santa Sofia, l'architettura bizantina conobbe e attuò i tipi più diversi; fra i quali prima di tutto la basilica (v.). Questa è preceduta da un vasto atrio, a cui si accede per mezzo di un portico o nartece; l'interno, diviso da lunghe file di colonne in tre e talora in cinque navate, finisce qualche volta in una, qualche volta in tre absidi semicircolari. Spesso sulle navate lateralí sono ricavate delle tribune o matronei. L'edificio può essere coperto con un tetto di legno: e abbiamo allora la basilica del cosiddetto tipo ellenistico; oppure è a vòlta, e abbiamo allora la basilica orientale, la cui origine deve essere senza dubbio ricercata in Mesopotamia. Rimangono ammirabili esempî di questo tipo architettonico del sec. V e del VI: le basiliche di S. Demetrio (distrutta dall'incendio del 1917) e di Santa Paraskeuē (Eskī Gium‛ah) a Salonicco, di S. Apollinare Nuovo e di S. Apollinare in Classe a Ravenna, di Parenzo in Istria; e se, nei secoli seguenti, questo tipo un po' arcaico sembra tendere a sparire, tuttavia sussiste fino al sec. XIV e al XV in alcune chiese della Grecia, e propriamente nel piano inferiore della Metropoli e della Pantánassa a Mistrà. Giova aggiungere che lo schema basilicale a tetto, e anche con matronei, era già diffuso nell'architettura imperiale romana così che a Roma e in parte dell'Occidente poté svolgersi senza rapporti coi suoi sviluppi orientali, e già nel sec. II Roma aveva avuto nel sacello sotterraneo di Porta Maggiore, come certamente in altri edifici, basiliche coperte di vòlte.
Molto presto la forma caratteristica della cupola s'innestò sulla pianta basilicale dell'arte cristiana d'Oriente, interrompendo con la sua curva sopraelevata la fila delle colonne. Si ebbe così la basilica a cupola, il cui più antico esempio s'incontra, nel sec. V, a Meriamlik in Cilicia. La chiesa di S. Irene a Costantinopoli, che data dal sec. VI, è notevole esempio di quell'innesto.
Accanto alla pianta longitudinale, propria della basilica, appaiono dal sec. IV gli edifici a pianta centrale, di forma rotonda o ottagonale, coronata da una cupola. La chiesa dei Santi Sergio e Bacco a Costantipoli, la chiesa di S. Vitale a Ravenna, ambedue del sec. VI, rappresentano eccellentemente questo tipo architettonico. Altri edifici, certamente costruiti sul modello delle cappelle che si innalzavano sulle tombe dei martiri, sono terminati in fondo da tre absidi disposte a trifoglio: pianta che persistette fino al secolo XIV e al XV nelle chiese dell'Athos, e trovò particolare favore in Serbia, in Bulgaria, in Moldavia e in Valacchia.
Ma l'architettura bizantina cercò soprattutto di riprodurre nelle sue costruzioni la forma simbolica della croce, cominciando col disegnarne sul suolo i quattro bracci uguali, e coronando l'incrocio e l'estremità dei bracci con cinque cupole: di questo tipo erano, al sec. VI, la chiesa dei Ss. Apostoli a Costantimopoli (distrutta nel 1453) e quella di S. Giovanni di Efeso; tale è, ancora oggi, la chiesa di S. Marco di Venezia, che nel secolo XI si ispirò alla chiesa dei Ss. Apostoli. Ma presto l'immagine simbolica fu dagli architetti realizzata in altra maniera, con la creazione cioè della pianta in forma di croce greca, che dal sec. IX divenne e resta tuttora il tipo classico della chiesa bizantina. Sembra che questa pianta fosse definitivamente fissata nella Chiesa Nuova (oggi scomparsa), costruita a Costantinopoli da Basilio I nella seconda metà del sec. IX, e che, come Santa Sofia, fu un monumento tipico incessantemente imitato. Nelle chiese di questo tipo, generalmente molto piccole, i quattro bracci della croce sono iscritti in un quadrato; all'incrocio si alza una cupola, qualche volta su raccordi a vòlta come le cupole persiane, più spesso su pennacchi sferici; un tamburo poligonale più o meno alto eleva la cupola; agli angoli del quadrato sorgono quattro altre cupole; e qualche volta ancora altre cupole coronano il nartece che precede la chiesa. Il braccio orientale si prolunga a formare l'abside, che è fiancheggiata da due absidi laterali. Così il simbolo divino non si disegna più in pianta, sul suolo, ma si manifesta nelle quattro vòlte soprelevate, che, intorno alla base della cupola, coprono i bracci della croce e vanno a finire sul muro di cinta in frontoni curvi o triangolari. In questo modo l'edificio prende un nuovo aspetto: alla massa un po' pesante delle costruzioni del sec. VI è sostituita una specie di piramide nella quale le vòlte si sovrappongono le une alle altre, e la cui linea, elegante e snella, culmina nella cupola.
Si potrebbero citare innumerevoli esempî di questo tipo architettonico eseguiti dal sec. IX al XV. Meritano di essere ricordate in particolare a Costantinopoli la Kilīsā Giāmi‛ (sec. XI), le due chiese del Pantocratore (sec. XII), la Fetḥiyyeh Giāmi‛, l'antica chiesa della Vergine Pammakáristos (principio del sec. XIV); a Salonicco le chiese della Theotókos Qāzangilar Giāmi‛, datata del 1028, di San Panteleēmon (sec. XII) e dei Santi Apostoli (sec. XIII); a Atene i Ss. Theódōroi (1049) e la Kapnikaréa (sec. XII); a Mistrà la chiesa della Períbleptos (sec. XIV); a Arta quella della Parēgorētissa (la Consolatrice, fine del secolo XIII). Le chiese in cui la cupola è appoggiata su raccordi a vòlta conica costituiscono un gruppo interessante: la grande chiesa di S. Luca, quella dì Néa Monē a Chio, quella di Dafni, tutte e tre del sec. XI, il tipo delle quali fu riprodotto nel sec. XII nella Martorana di Palermo. Ma quel che bisogna notare soprattutto in questi edifici è l'ingegnosità con cui gli architetti bizantini seppero ricamare innumerevoli variazioni sul tema classico della cupola, introdurre progressivamente nell'interno delle loro costruzioni prospettive più larghe e più libere, proiettate più arditamente in alto, e variare le facciate delle loro chiese con molteplici combinazioni policrome. Dapprima le chiese bizantine, costruite quasi sempre in mattoni, tranne in Siria e in Armenia, avevano mostrato, all'esterno, una povertà di decorazione singolarmente austera e monotona. Ma dagl'inizî del sec. X si manifesta la preoccupazione di rendere il loro aspetto più pittoresco, alternando mattoni e pietra, e decorandole di ceramiche e di graffiti, che formarono sulle facciate un delizioso ornamento di merlature, di rosoni e d'intrecciamenti. Notevoli esempî di questo tipo di decorazione offrono, fra molte altre, le chiese dei Ss. Apostoli a Salonicco, e quella della Pantánassa a Mistrà. Nell'interno delle chiese anche più l'arte bizantina cercò mascherare la povertà dei muri di mattoni con il vivo splendore della decorazione, ricoprendolo di marmi policromi dal suolo fino al principio delle vòlte, e rivestendo le curve delle cupole e delle vòlte con il barbaglio dei fondi blu e oro dei mosaici. La chiesa del convento di S. Luca nella Focide, conservata quasi intatta, è un buon esempio di questo magnifico sistema di decorazione, e altri, meno completi, forse, ma più splendidi, sono la Santa Sofia di Costantinopoli e il S. Marco di Venezia.
Ma la varietà prodigiosa e l'ingegnosità creatrice dell'architettura bizantina non si manifestano qui soltanto: appaiono anche nei rari monumenti che ci restano dell'archiiettura civile: cisterne sotterranee di Costantinopoli, ponti e acquedotti; nel ricordo delle magnificenze del palazzo imperiale; in quel capolavoro di architettura militare che sono le mura di cinta di Costantinopoli (principio del sec. V). Si manifestano nelle tradizioni diverse a cui essa si ispirò, e che diedero origine a scuole diverse. Alcuni edifici procedono dalla scuola ellenistica, come, nei loro tratti essenziali, le chiese di Costantinopoli, di Salonicco, di Mistrà. Altri invece nella pianta, nelle forme, nella tecnica, si ispirano di più all'Oriente. I primi sono caratterizzati dalla sveltezza delle linee, dalla complessità ingegnosa delle combinazioni, dalla ricerca dell'effetto pittoresco, dalla luce e dalla grazia della decorazione. Gli altri offrono un complesso più austero di forme semplici e sobrie, di linee severe nella elementare bellezza della pietra nuda. Questi ultimi si riallacciano oggi volentieri a quell'architettura armena così originale e così fiorente tra il sec. IX e il XII, la quale, se volessimo attenerci allo Strzygowski, avrebbe creato, dal sec. IV, al contatto dell'Iran, tutte le forme architettoniche conosciute dall'arte cristiana d'Oriente. Senza dubbio è un po' paradossale dichiarare che Santa Sofia sia una chiesa puramente armena. Ma, qualunque sia il debito di Bisanzio verso l'Armenia, è certo che nei monumenti della sua architettura, la corrente orientale si rivela fortemente accanto alla tradizione ellenica, e che questa doppia influenza può essere constatata ovunque l'arte bizantina abbia portato i suoi insegnamenti. Effettivamente, non è il minor titolo di gloria dell'architettura bizantina di aver fornito i suoi modelli a tutto l'Oriente slavo e allo stesso Occidente. Le chiese costruite in Macedonia e in Serbia dagli zar del sec. XIV (Gračanica, Nagoričino, Studenica, ecc.), le chiese della Bulgaria, della Valacchia, della Moldavia, procedono, direttamente o indirettamente, da Bisanzio. Sembra ormai sempre più verosimile che l'arte romanica debba molto all'Oriente: e sembra che il gruppo di chiese a cupola del sud-ovest della Francia (Cahors, Périgueux, ecc.) abbia trovato ispirazione nell'arte cristiana d'Oriente.
La scultura. - A differenza dell'arte classica, l'arte cristiana d'Oriente fece poco posto alla grande scultura monumentale. Si ripete volentieri che la chiesa ortodossa bandiva le statue preferendo loro le immagini dipinte dei personaggi sacri; ma è questa un'affermazione inesatta. Certamente il cristianesimo primitivo ebbe una certa diffidenza verso una forma d'arte alla quale gli dei del paganesimo avevano dovuto il loro più grande potere di seduzione; ma l'influenza dell'Oriente, più che altro, introducendo una nuova concezione e una nuova tecnica della decorazione, sostituendo ai modelli della plastica antica ornati quasi senza rilievo in cui, sul fondo della pietra leggermente intagliato, i bianchi fan contrasto ai neri, modificò profondamente l'aspetto e la funzione della scultura. Anche l'importanza sempre maggiore data alla decorazione puramente ornamentale allontanò sempre più dalla riproduzione della figura umana. L'arte bizantina ci ha lasciato un certo numero di bassorilievi in legno (porte di Santa Sabina a Roma, sec. VI) o in pietra; ma si limitò sempre più all'ornamentazione, riducendo la scultura ad accompagnare e anche a servire l'architettura: e ne derivarono i capitelli intagliati e cesellati come orificeria, di prodigiosa varietà; transenne coperte di rosoni e d'intrecciamenti; gli ornamenti in stucco; le sontuose iconostasi; tutta la magnifica decorazione, ravvivata spesso dal colore, che riempie le chiese bizantine, e che mostra un virtuosismo prodigioso nell'esecuzione. I Bizantini conservano inoltre l'arte di lavorare il bronzo, come si vede in belle porte di chiesa del secolo XI (Amalfi, Salerno, Monte S. Angelo, S. Paolo fuori le Mura) nelle quali si osserva una tecnica singolarissima, una combinazione di niello e damaschinatura. Ma quel che sussiste della scultura bizantina è soprattutto in avorî intagliati. Molti di questi altro non sono che prodotti artistico-idustriali. Ma forse una ventina di essi sono capolavori di veri maestri. Naturalmente ci si ritrovano le due tendenze rivali che dominarono tutta l'arte cristiana d'Oriente, e qualche volta è assai difficile determinare quali degli avorî che ci rimangono dei secoli V e VI procedano dall'arte ellenistica d'Alessandria, e quali s'ispirino all'arte più realistica della Siria. Ma in tutti è evidente un'abilità tecnica, una delicatezza di stile che fanno grandissimo onore agli scultori in avorio del tempo. L'avorio Barberini del Louvre, la placca del dittico del British Museum che rappresenta un arcangelo, l'ammirabile cattedra di Massimiano a Ravenna sono, insieme con i curiosi dittici consolari, opere eminenti del secolo VI. E la serie continua così negli eleganti cofanetti rappresentanti soggetti antichi o profani (cofanetti di Veroli e di Troyes, sec. X), o in quei bei dittici rappresentanti figure imperiali (dittico di Romano e d'Eudossia nel Gabinetto delle medaglie di Parigi, secolo X), come negli avorî a soggetto religioso (trittico Harbaville del Louvre, secolo X; la Vergine seduta della collezione Stroganov, oggi al museo di Cleveland). In molte di queste opere è evidente l'ispirazione alle opere antiche, che si combina felicemente con l'osservazione della natura. Ma, più assai della scultura, la pittura è stato uno dei mezzi d'espressione caratteristici dell'arte bizantina.
La pittura. - Per decorare con magnificenza l'interno delle chiese, l'arte cristiana d'Oriente fece appello soprattutto al mosaico; infatti niente avrebbe potuto convenire meglio a quelle solenni composizioni di una maestà un po' fredda, a quelle figure calme e immobili di cui si compiaceva il nuovo stile storico e monumentale. Certamente già dal principio del sec. IV le basiliche romane erano state decorate con mosaici; ma nessuna arte più della bizantina ha fatto impiego di quella che è stata chiamata ingegnosamente "una pittura per l'eternità".
Disgraziatamente molte delle grandi decorazioni musive - almeno per quel che riguarda l'Oriente e il secolo VI - sono scomparse. I mosaici di Santa Sofia di Costantinopoli che si conservano nei pennacchi della cupola, nella conca dell'abside, sui muri che sostengono le due grandi arcate laterali, sul timpano della porta principale sono in generale opere di secoli posteriori (secoli IX e X) e d'altronde s'intravedono appena sotto l'intonaco con cui i Turchi li hanno ricoperti. La bella decorazione con cui un maestro chiamato Eulalio aveva ornato la chiesa dei Ss. Apostoli ci è nota soltanto per l'interessantissima descrizione che ne fece nel sec. XIII Nicola Mesarite. I notevoli mosaici di San Demetrio di Salonicco che rappresentavano sulla navata di sinistra degli ex voto di ringraziamento al santo per i suoi benefici, sono periti nell'incendio del 1917, e ne rimangono soltanto tre frammenti molto espressivi (specialmente quello del santo fra i fondatori) appesi come iconi all'ingresso dell'abside. Bisogna cercare in Occidente, a Ravenna (Sant'Apollinare Nuovo, Sant'Apollinare in classe, e soprattutto S. Vitale), nella basilica di Parenzo in Istria, e nelle chiese romane (Sant'Agnese, oratorio di S. Venanzio al Laterano), i monumenti del mosaico bizantino dei secoli VI e VII. La rinascenza che accompagnò l'avvento della dinastia macedone diede un nuovo aspetto alla decorazione musiva. Mentre l'iconografia si trasformava e s'arricchiva, s'imponeva un ordine nuovo nella distribuzione delle composizioni sacre nelle chiese. Invece di presentare ai fedeli gli episodi evangelici in ordine cronologico e con intendimento narrativo, il nuovo sistema di decorazione s'ispirò a idee dogmatiche e liturgiche; si propose come scopo essenziale di tradurre agli occhi dei fedeli la dottrina della Chiesa nei suoi più gloriosi episodî, nei suoi rappresentanti più illustri, nei suoi più santi misteri, nelle sue più splendide apoteosi. Una regola quasi assoluta fissò il posto di ogni composizione: in cima alla cupola mise il Cristo Pantocratore nella sua gloria, in mezzo al suo corteo celeste; sull'abside, la Madonna, e tutt'intorno al santuario le scene che si riferiscono al sacrificio della messa; la comunione degli apostoli, la divina liturgia, ecc.; sulla navata, al di sopra delle immagini dei santi figurarono, gerarchicamente disposte, le dodici grandi feste della Chiesa, fra cui la discesa di Cristo al Limbo (Anastasi) e la dormitio Virginis, creazioni di singolare bellezza; sul muro occidentale si sviluppò il dramma magnifico e terrorizzante del Giudizio universale, mentre sulle pareti del nartece si collocarono gli episodî della vita della Vergine. Di questo schema nuovo sembra che abbiano dato il primo esempio preciso i mosaici della Nuova Chiesa di Basilio I oggi distrutta; e in esso si ebbe senza dubbio una delle trovate più felici dell'arte bizantina durante la sua seconda età dell'oro.
Una serie importante di grandi decorazioni conservate nell'Oriente cristiano, permette di riconoscere l'applicazione di questi principî e di seguire l'evoluzione e i progressi dell'arte musiva durante il sec. XI. Dopo la decorazione della chiesa del monastero di San Luca in Focide, di fattura a volte ancora impacciata e incerta, ma in cui già appare quel sentimento e quel gusto del colore che caratterizza l'arte di quest'epoca, vengono i mosaici interamente bizantini di Santa Sofia di Kiev, quelli, disgraziatamente molto deperiti, della Néa MonÉ di Chio, quelli della cupola di Santa Sofia di Salonicco, quelli della chiesa della Dormizione a Nicea, distrutti nel 1923 durante la guerra turco-greca; e chiude la serie un capolavoro della fine del sec. XI, la decorazione della chiesa di Dafni, vicino ad Atene. Per l'arte sapiente della composizione, per la grazia del disegno, per la finezza del modellato, per la bellezza del colore questi mosaici sono "un fenomeno sorprendente", come è stato giustamente detto, una delle opere che meglio dimostrano tutto ciò che quest'arte, ispirata a un tempo alla tradizione antica e alla realtà vivente, possedeva d'invenzione creatrice e d'attitudine a rinnovarsi. Dalla fine del sec. XI a tutto il XII si può seguire il cammino di quest'evoluzione nei mosaici veneziani di Torcello e di San Marco, nei mosaici siciliani di Cefalù, della cappella Palatina e della chiesa della Martorana di Palermo, i quali mostrano quale fosse, nei secoli XI e XII, la potente influenza dell'Oriente, e soprattutto di Costantinopoli, sull'arte dell'Occidente.
Ma all'arte nuova che appare nel sec. XIV, amante del movimento, del pittoresco, dell'espressione, il mosaico si addiceva meno felicemente, e d'altronde all'Impero impoverito dei Paleologi poco conveniva una decorazione così costosa. Quindi soltanto eccezionalmente s'incontra in qualche chiesa dell'epoca la sontuosa decorazione dei mosaici: alla Qahriyyeh Giāmi‛ di Costantinopoli (fra il 1310 e il 1320), nel battistero di San Marco di Venezia (metà del sec. XIV), ambedue grandi e ammirevoli complessi nei quali si manifesta lo spirito nuovo cui si ispirava allora l'arte bizantina. In generale, si hanno, invece dei mosaici, grandi cicli di affreschi che coprono i muri e le vòlte delle chiese dalla base alla cima; e queste pitture, per lo più scoperte e studiate in questi ultimi venticinque anni, sono senza dubbio fra i più curiosi e interessanti monumenti che ci abbia lasciato l'arte cristiana d'Oriente.
In tutte le epoche della storia dell'arte bizantina, l'affresco era stato impiegato, accanto al mosaico, nella decorazione delle chiese. Dei grandi cicli che nel sec. VI, solo per esempio a Gaza, decoravano gli edifici sacri, non ci rimangono che le descrizioni; e le pitture recentemente scoperte nelle chiese rupestri della Cappadocia, che si scaglionano fra il sec. IX e il XIII, sebbene interessanti, ci rivelano più che altro un'arte provinciale, più popolare, più ispirata anche alla vecchia tradizione siriaca che le grandi decorazioni in mosaico, e senza dubbio esse importano più all'iconografia che alla storia dell'arte. Invece negli affreschi eseguiti tra il principio del sec. XIV e la fine del XVI nelle chiese di Macedonia e di Serbia, di Bulgaria, di Romania e di Russia e soprattutto in quelli di Mistrà e dell'Athos, appare un gran movimento d'arte, parimenti notevole per l'amore del pittoresco, la ricerca del movimento, della vita, dell'espressione drammatica o patetica, e, finalmente, per la scienza del colorito. Si dividevano la direzione di questo movimento due grandi scuole, che del resto traevano ambedue la loro ispirazione da Costantinopoli, e che sono state chiamate la scuola macedone e la scuola cretese. La scuola macedone ci è nota attraverso un numero di monumenti abbastanza grande. Da essa furono decorate le belle chiese costruite dagli zar serbi del sec. XIV: Studenica, Nagoričino, Gračanica, Matejić, Lesnovo, ecc., ed importa notare che molti di quei cicli di affreschi portano la firma di maestri greci. Sempre questa scuola decorò, nel sec. XIV, la chiesa di San Nicola Domneso a Curtea di Argeş in Valacchia, e parecchie chiese della città e dei dintorni di Novgorod. Infine, lavorò all'Athos, dove, malgrado i restauri posteriori, si può intravvedere la sua opera a Vatopedi, a Chiliandari, e specialmente nelle belle pitture, forse del secolo XIV, che decorano la chiesa del Prótaton a Karyaí. Lavorava ancora all'Athos nel secolo XIV, e il suo ultimo rappresentante fu allora indubbiamente il famoso e un po' misterioso Manuele Panselinos di Tessalonica. Per il carattere realistico delle sue composizioni, la scuola macedone sembra essersi fortemente ispirata all'Oriente, alla Siria e alla Cappadocia; d'altra parte essa deve all'Italia la tenerezza di certi gesti, il patetico di certe attitudini, che tuttavia non alterano affatto il suo specifico carattere bizantino. Dal punto di vista tecnico, tratta i suoi soggetti con larghezza, secondo la tecnica dell'affresco, con un senso notevole e una scienza sicurissima del colore.
La scuola cretese appare un po' diversa. Più raffinata e sapiente, apporta nelle sue opere la minuzia dei pittori di cavalletto e d'iconi; lavora a tocchi minuti, a linee sottili e parallele; e d'altra parte si riallaccia fortemente alla tradizione bizantina per il suo gusto della chiarezza, della nobiltà, dell'eleganza, per l'alto ideale di distinzione a cui mira. L'abilità tecnica dei maestri cretesi è incomparabile, la loro tavolozza di una varietà prodigiosa. A essi probabilmente bisogna attribuire uno dei capolavori della pittura del sec. XIV, i mirabili affreschi che decorano la chiesa della Períbleptos a Mistrà. La loro influenza fu grande in tutto l'Oriente cristiano: verso la fine del sec. XIV soppiantarono la scuola macedone in Serbia e in Russia, dove Teofane il greco lavorava a Novgorod e a Mosca; nel sec. XVI soppiantarono i loro rivali all'Athos dove Teofane di Creta rivaleggiava in gloria con Panselino e decorava con i suoi scolari le chiese di Lavra, di Stavronikita, di Dionisio, e del Dochiario. Gli affreschi della Pantánassa a Mistrà, del sec. XV, sono opera della scuola cretese. Così prima di isterilirsi nelle pratiche un po' meccaniche e monotone codificate da Dionigi di Furna nella Guida della pittura, l'arte bizantina ha avuto, tra i secoli XIV e XVI, un ultimo e meraviglioso splendore.
È questione delicata determinare se l'influenza dell'Italia abbia contribuito in qualche cosa a questa rinascenza, e che cosa i maestri bizantini del sec. XIV debbano ai pittori senesi o fiorentini del Trecento; ma sembra certo che fra l'Oriente e l'Occidente, separati da tante differenze, da odî e malintesi, abbia potuto stabilirsi in quest'epoca una comunione nel campo dell'arte. Molti Cretesi vennero a lavorare nelle botteghe di Venezia, e lo stile che uscì da questo ravvicinamento non si sottrasse a certe conseguenze. Alla scuola di Siena e di Firenze i pittori bizantini impararono alcune cose; tuttavia bisogna ben guardarsi dall'esagerare queste influenze. L'imitazione dei modelli italiani da principio fu sempre assai discreta; i maestri bizantini, tutto sommato, restavano fedeli alla tradizione dei loro antenati. Senza dubbio, non fu così nel sec. XVI e in seguito, quando la penetrazione di motivi e forme italiani fu rilevante; ma l'Italia del Trecento deve a Bisanzio più di quel che non gli abbia dato, e noi non possiamo non riconoscere l'originalità di quella grande scuola che, in tutto l'Oriente cristiano, produsse tante notevoli opere e s'è resa illustre con artisti eminenti.
Di questa potente attività artistica la pittura di iconi è una manifestazione interessante. Prestissimo l'arte cristiana d'Oriente aveva cominciato a dipingere immagini di santi su legno, tanto all'encausto come a tempera a imitazione dei ritratti così espressivi che si eseguivano in Egitto e dei quali sono stati ritrovati al Fayyūm belli esemplari. Alcune iconi del sec. VI, veramente notevoli, si conservano a Kiev. Altre, di data posteriore, ci mostrano che cosa fosse quell'arte nei secoli XI e XII (iconi di San Clemente d'Ocrida). Nei secoli XIV e XV la pittura di cavalletto sembra aver avuto una fioritura ancora più splendida, sotto l'influenza di quei maestri cretesi che furono tutti pittori d'iconi. Il Museo nazionale russo di Leningrado conserva importanti opere dovute alla loro attività; ma lo studio scientifico di questa categoria di monumenti è appena cominciato, e dobbiamo limitarci a segnalarne l'interesse.
La storia della pittura bizantina si completa naturalmente con lo studio dei numerosi manoscritti miniati che si conservano e che si dispongono cronologicamente tra il secolo V e il XV. Come la grande pittura monumentale, la miniatura bizantina sembra dominata da due influenze rivali che s'incontrano e si mescolano incessantemente: la tradizione pittorica dell'arte alessandrina, tutta penetrata di spirito antico, e la tradizione orientale, più realistica, più drammatica e anche più infatuata dell'ornamentazione elegante e ricca, fino, talvolta, a riuscirne ingombra e sopraccarica. Anche nell'iconografia, e in particolare nell'illustrazione del Vangelo, le due tradizioni si contrappongono, e la redazione di Alessandria contrasta con la redazione di Antiochia. Naturalmente l'influenza classica predomina nelle opere di autori profani, come l'Iliade dell'Ambrosiana (secoli IV-V), il Dioscoride di Vienna (secolo VI), e il Nicandro della Biblioteca Nazionale di Parigi (sec. X), e persiste fino all'epoca dei Paleologi in opere come l'Ippocrate di Parigi. Altrove, come nel Cosma del Vaticano (sec. VI) la tradizione alessandrina - e ciò appunto rende interessante questo manoscritto molto caratteristico per l'epoca di Giustiniano - si penetra d'influenze orientali, e lo stesso gusto della realtà si mescola con ricordi ellenistici nell'illustrazione di libri di storia, come lo Skylitzes di Madrid (sec. XIV), il Costantino Manasses bulgaro del Vaticano (sec. XIV). Ma questa complessità si ritrova soprattutto nell'illustrazione di libri sacri.
Tra i libri del Vecchio Testamento, la tradizione antica prevale nella Genesi di Vienna (sec. V) e nel rotolo di Giosuè della Biblioteca Vaticana (secolo VI o VII), ma già tende a indebolirsi nei manoscritti dell'Ottateuco (sec. XI e XII), conservati a Costantinopoli nella biblioteca del Serraglio, al Vaticano e a Vatopedi. Lo stesso si dica per il salterio. A quella che si chiama la redazione aristocratica, tutta penetrata di spirito classico, e di cui il Salterio di Parigi (Gr. 139, secolo X) offre un mirabile esempio, si contrappone un salterio a illustrazioni marginali d'ispirazione orientale e realistica, di carattere nettamente popolare: il Salterio Barberini (Vaticano Gr. 372, sec. XII), il Salterio serbo di Monaco (sec. XIV) sono interessante esemplari di questa tradizione. Ma le due tendenze rivali si contrappongono specialmente nel Vangelo: dell'ellenistica il Laur. VI, 23 (Firenze, Bibl. Laur.) presenta un buon esempio, mentre l'orientale è bene caratterizzata nel Codice Par. 74 (Parigi, Biblioteca Naz.). Tutto un complesso di bei manoscritti del sec. VI attesta l'influenza sempre maggiore dell'Oriente, il posto di giorno in giorno più importante che, nella miniatura come nel mosaico, prende lo stile storico e monumentale. Così il Codice purpureo dei Vangeli di Rossano (Rossano, cattedrale), quello d'Egmiadzin (Armenia), i frammenti dell'Evangeliario di Sinope che si conservano a Parigi, e soprattutto l'Evangeliario siriaco di Firenze, miniato nel 586 dal monaco Rabbūlā. Gli evangeliarî dei secoli X e XI mostrano lo stesso dualismo, che si ritrova anche nell'illustrazione di certe opere dei Padri della Chiesa, per esempio di Gregorio di Nazianzo, nel quale alla redazione teologica rappresentata dal manoscritto di Parigi (Gr. 510, sec. IX) si contrappone una redazione letteraria e profana piena di scene campestri e di ricordi mitologici (manoscritto di Gerusalemme). Tuttavia, qui come in tutta l'arte cristiana d'Oriente, si osserva che, a poco a poco, sotto l'influenza della Chiesa, si sostituisce alla tradizione antica un'arte più severamente religiosa, e preoccupazioni sempre più dogmatiche e liturgiche. Questo, per esempio, mostrano il Menologio di Basilio III in Vaticano (fine sec. X) e le Omelie del monaco Giacomo (sec. XII) della Biblioteca Nazionale di Parigi. Ma, nonostante tale evoluzione, permane in tutte queste opere un ricordo dello spirito antico; e d'altra parte i bei ritratti che s'incontrano in molti manoscritti - quelli di Niceforo Botaniate in un manoscritto di Parigi (Gr. 72, sec. XI); quelli del Cantacuzeno in un manoscritto di Parigi (Gr. 1242, sec. XIV) - attestano il gusto dell'osservazione, la ricerca del particolare vivo, che abbiamo constatato nel mosaico. Per questo la storia della miniatura bizantina s'accorda con la storia generale dell'arte bizantina, nonché per la bellezza dell'ornamentazione prodigiosamente varia e ricca, dovuta all'influenza dell'Oriente persiano o arabo.
Le arti applicate (oreficerie, smalti, tessuti). - Naturalmente vaga di lusso e di splendore, l'arte bizantina amò sempre il lavoro di materiali rari e magnifici. Già si è visto come abbia lavorato l'avorio: ugualmente lavorò i metalli preziosi, l'argento e l'oro; e lo smalto fu una delle sue creazioni più sontuose e originali.
Sembra che i laboratorî siriaci di oreficeria abbiano avuto una grande rinomanza nei secoli V e VI, e che abbiano esportato i loro prodotti in tutto l'Oriente mediterraneo. Ce ne sono pervenute opere notevoli, come per esempio il calice tanto discusso d'Antiochia che si è preteso temerariamente datare dal sec. I, ma che si deve certamente attribuire al quarto o al quinto (collezione Kouchakji a Nuova York), e specialmente i bei piatti d'argento trovati a Kerynia di Cipro, divisi fra il British Museum di Londra e il Metropolitan di New York. Colpisce soprattutto in queste oreficerie siriache - alle quali si potrebbero aggiungere un buon numero di altri pezzi, calici, patene, cofanetti, vasi come quello di Emeso al Louvre - la rara abilità tecnica, l'accento di realismo che vi si manifesta, la preoccupazione costante e la ricerca minuziosa della verità. Ma la Siria non aveva il monopolio di queste opere: a Costantinopoli, ad Alessandria esistevano laboratorî celebri; e senza dubbio provengono dall'Egitto i bei gioielli d'oro, di stile tutto ellenistico, scoperti in questi ultimi anni a Mersina, a Cipro e in Egitto stesso.
Anche dei secoli che seguono ci sono giunti varî bei pezzi di oreficeria, per esempio la placca d'argento sbalzata e dorata rappresentante le pie donne al sepolcro (museo del Louvre, secolo XII), legature di evangeliarî, reliquiarî in forma di chiesa, cornici d'iconi ed aureole in rilievo, parecchi dei quali datati dal sec. XIV. Ma non sono molti perché, a parte il fatto che molti di questi oggetti preziosi sono periti per l'inevitabile cupidigia che destavano, dal secolo IX al X lo smalto prese il posto predominante nell'oreficeria bizantina.
Dalla Persia, Bisanzio imparò ben presto l'arte dello smalto e niente si adattava di più al gusto della magnificenza, all'amore del colore, alla sapiente ricerca di abili effetti, che furono sempre le caratteristiche dell'arte cristiana d'Oriente. Anche gli smalti furono impiegati, tanto nell'oreficeria religiosa quanto in quella laica, per la decorazione dei reliquiarî, degli altari, delle legature, delle iconi, come per l'ornamento delle corone e dei vestimenti di parata. Di conseguenza è potuta giungere fino a noi una quantità notevole d'opere di quell'arte, fra cui alcune importantissime. Tali sono le stauroteche (reliquiarî contenenti un frammento della "vera" croce) di Limbourg (secolo X) e di Gran, o anche le belle iconi che si conservano nel tesoro di S. Marco di Venezia, rappresentanti S. Michele (sec. X o XI); tali sono la famosa Pala d'oro di S. Marco a Venezia, i cui smalti datano in gran parte dal sec. XI e dal XII, e il trittico di Kakhouli in Georgia (sec. XI). La corona di Costantino Monomaco nel Museo di Budapest, la corona di Santo Stefano nel tesoro di Buda non sono meno importanti. Tutte queste opere - e qui è il punto che bisogna ritenere soprattutto - sono di una varietà e di un'abilità tecnica prodigiose, e mostrano chiaramente - per usare l'espressione di Kondakov - "l'errore grossolano di coloro che parlano di rigidità e di povertà dell'arte bizantina".
Tuttavia, man mano che l'Impero s'impoveriva, l'oreficeria e l'arte dello smalto erano trascurate: in compenso la fabbricazione dei tessuti e l'arte del ricamo mantennero sino alla fine il gran posto che avevano preso nell'arte cristiana d'Oriente.
Assai per tempo Bisanzio aveva amato le belle stoffe istoriate, di cui le necropoli d'Antinoe e d'Akhmim in Egitto ci hanno reso preziosi esemplari del sec. VI. Anche nei tessuti molto presto il contatto con l'Oriente sostituì ai motivi antichi nuovi soggetti, figure più stilizzate, simmetria più rigorosa, colori più brillanti, sfondo ornamentale più ricco e variato.
A quest'influenza orientale sono ispirate le belle stoffe che si fabbricavano a Costantinopoli nel sec. X e che facevano la gloria dell'industria bizantina. Molti di questi tessuti, prodotti dalle manifatture imperiali, son giunti sino a noi: vi sono raffigurati animali affrontati, aquile, leoni, elefanti (tessuti di Siegburg, di Düsseldorf, d'Aix-laChapelle, tutti e tre del sec. X, e quest'ultimo trovato nel cofano che conteneva i resti di Carlomagno; stoffa rinvenuta nella tomba di S. Giuliano, a Rimini, ora nel Museo di Ravenna); in altri sono rappresentate figure di imperatori (tessuti di Mozac, al museo dei tessuti di Lione, sec. X, e di Bamberga, sec. XI). Anche l'arte del ricamo perdurò fino al sec. XIII e al XIV: lo provano la dalmatica di Carlo Magno (sacrestia di San Pietro a Roma, sec. XIV), la bella stoffa liturgica di Castell'Arquato (principio del secolo XIV), e soprattutto il gruppo di tessuti che servivano, il venerdì santo, a coprire la tomba di Cristo, e al quale si dà l'appellativo di epitaphios. L'epitaphios di Ocrida (principio del sec. XIV), quello di Pupta in Moldavia (fine del sec. XIV) sono notevoli; ma quello di Salonicco soprattutto (sec. XIV) è un capolavoro del ricamo bizantino, per la sapiente armonia dei colori, come anche per un accento di realismo che non esclude la grazia. Un'opera tale basta a provare che ci fu nel sec. XIV a Bisanzio non un movimento fattizio d'arte ma un'ultima e originale rinascenza.
Di altre arti industriali basta anche un solo oggetto a provare il grado di finezza tecnica e di effetto raggiunto dall'arte primitiva, come la coppa di vetro smaltato nel tesoro di S. Marco a Venezia.
Conclusione. - Durante circa tredici secoli l'arte cristiana d'Oriente ha tenuto un posto considerevole nella storia della civiltà. Nell'ambito dell'architettura ha creato un capolavoro, Santa Sofia, e inventato un tipo di costruzione, la chiesa a croce greca, che è rimasto classico in tutto il mondo ortodosso. Per abbellire i suoi edifici ha immaginato le solenni e sontuose decorazioni di mosaici murali, e ne ha fatto un o dei suoi mezzi più caratteristico di espressione. Ha creato i temi principali dell'iconografia cristiana, e nel corso dei secoli l'ha sviluppata, arricchendola, in composizioni talvolta ammirabili. Arte sapiente e raffinata, amante del lusso e della pompa, ha preferito le tecniche difficili, gli smalti in alveoli rapportati, le seterie istoriate, i bronzi niellati d'argento, le oreficerie preziose. Ma la sua grande originalità consistette nell'avere unito alla tradizione classica, pur conservandola sempre, gl'insegnamenti dell'Oriente: poiché all'Oriente deve il gusto e la scienza del colore, l'amore dell'ornamentazione magnifica e complicata. Così poté creare una forma che le fu propria, e che, durante secoli, parve superiore a ogni altra. Tra il sec. IV e il VI, come tra il IX e il XII, e di nuovo nel sec. XIV, l'arte cristiana d'Oriente esercita nel mondo una larga influenza. Determinare il punto principale di partenza di quest'influenza, e se venga da Costantinopoli o dalla Siria, oppure dall'Armenia, è una questione molto discussa. Comunque sia, un fatto è sicuro: che dalle cupole di Kiev e Novgorod alle chiese d'Italia e di Francia, dagli affreschi delle chiese serbe e russe ai mosaici di Venezia e di Sicilia, l'arte bizantina è stata, per secoli, "l'arte regolatrice dell'Europa". Per essa l'Occidente ha conosciuto gl'insegnamenti artistici dell'Oriente. E se non bisogna, come si fa talvolta, esagerare questa influenza, non bisogna neanche dimenticare che il Medioevo tutto intero ha guardato a Costantinopoli come alla città che, secondo le parole di Villehardouin, "di ogni altra era sovrana", città di meraviglie, fiammeggiante d'oro. (V. tavv. XV a XL e tavv. a colori).
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Per bibliografia più particolareggiata vedi specialmente i volumi del Dalton, del Wulff e del Diehl. Le seguenti sono tra le opere più importanti:
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Arti minori: E. Molinier, Histoire générale des arts appliqués à l'industrie, IV, L'orfèvrerie, Parigi 1901; N. P. Kondakof, Histoire et monuments des émaux byzantins, Francoforte 1892; J. Ebersolt, Les arts somptuaires de Byzance, Parigi 1923; O. von Falke, Kunstgeschischte der Seidenweberei, voll. 2, Berlino 1913; J. Lessing, Die Gewebesamml. des Kunstgewerbe-Museum, Berlino 1900 seg.
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Musica.
Per musica bizantina s'intende, in senso stretto, l'insieme dei canti greci del cerimoniale sacro e pubblico dell'impero di Bisanzio; in senso lato questa denominazione s'estende anche ai canti che alla caduta di quell'impero s'eran diffusi in tutti i paesi che s'attenevano al rito bizantino della chiesa greco-ortodossa.
Nulla di certo si può affermare circa le origini del canto sacro bizantino, in quanto, mentre la più antica notazione che ci sia rimasta non risale che al sec. X, non troviamo d'altra parte negli scritti teorici alcun elemento abbastanza sicuro per sostenere l'indagine. Tenendo però conto del parallelismo intercedente, a Bisanzio, tra lo sviluppo della liturgia e quello della poesia religiosa, è lecito pensare che le prime melodie sulle quali s'intonarono i carmi sacri altro non fossero che varianti di canti festivi popolari d'origine siriaca. E d'altra parte è probabile, se pur manchino documenti certi, la provenienza di altri canti dalla chiesa palestinese.
A buon conto si tenga presente che la musica bizantina, sacra e profana, non viene a continuare in alcun modo l'antica musica greca, dalla cui fioritura (prodottasi poi in condizioni quanto mai diverse) è separata da molti secoli.
La produzione musicale manifesta quella stessa tendenza a riassumere i caratteri delle varie regioni che è propria di tutta l'attività artistica e culturale di Bisanzio; e va osservato, a tal proposito, che la metropoli non soltanto forniva essa stessa, ma anche riceveva da ogni parte poeti e musicisti, quale centro ed anima del vasto impero, e che proprio da questo centro musica e poesia attingono la forza necessaria per irraggiarsi, apportatrici del verbo religioso, fin nei paesi slavi del Nord e in quelli dell'Oriente.
Le prime forme di poesia religiosa libera si ebbero nelle brevi interpolazioni inserite tra i versi dei Salmi, interpolazioni chiamate troparî, le quali, assumendo importanza e lunghezza più considerevoli, vennero a costituire i cosiddetti inni. In seguito soltanto l'ultimo salmo ebbe un tropario, il quale allora era chiamato ephymnion. Ora, questi carmi avevano talvolta melodie loro proprie, e si dicevano automela, talvolta invece s'intonavano su melodie comuni, prendendo allora il nome di prosomoia. Tali canti furono radunati in raccolte che da hirmos (εἱρμός), il nome dato alla prima strofa della quale le successive ripetevano la melodia, erano dette hirmologia. Grande importanza assunsero queste composizioni negli usi religiosi bizantini, in proporzione col loro proprio sviluppo, da una strofa a molte strofe, intonate sulla musica della prima: importanza facilmente comprensibile, a chi pensi che il testo dei canti non conteneva soltanto preghiere, formule d'adorazione e laudi, ma anche narrazioni tratte dalla vita dei santi e dai Testamenti, nelle quali trovavano eco anche le dispute e le battaglie cui allora dava luogo l'interpretazione dei dogmi e dei riti.
Per incidenza osserviamo quindi come, per la loro natura, questi canti ricordino, se mai, più gli autos sacramentales spagnoli che non gl'inni della chiesa latina.
Per quel che si può credere, nei canti bizantini del primo periodo (sec. VI e VII) poesia e musica erano inseparabili non altrimenti che nelle canzoni trovadoriche. Tra i maggiori poeti-musicisti dell'epoca si ricordano più spesso: Sofronio da Gerusalemme, Sergio da Costantinopoli, Romano siriaco e Anastasio monaco del Sinai; e tra questi il più celebre è S. Romano da Emesa, il cosiddetto princeps melodorum. Nella poesia non meno che nella musica, Romano manifesta la natura strettamente siriaca della sua ispirazione, la quale non solo si ricollega nei temi col lontano Efrem siriaco, ma nella struttura strofica, nell'uso di acrostico, parallelismo, responsione, concatenazione ed inclusione, dimostra l'immediata influenza della poesia semitica.
I canti di Romano furono detti kontakia, nome d'una forma poetica caratterizzata da una strofa introduttiva, con una sua struttura ritmica e una sua melodia, libera dal vincolo che congiungeva in crostico le altre strofe, e dal frequente acrostico τοῦ ταπεινοῦ Ρομανοῦ ὁ ὑμνος οὗτος ("dell'umile Romano è questo inno").
Questione interessante è quella che verte sulla ritmica poetica dei Bizantini: il Riemann, ne' suoi studî sulla notazione bizantina, fonda la metrica di quei poeti, in analogia con la metrica classica, sulla quantità della sillaba. Noi dobbiamo invece pensare alla diminuzione di valore quantitativo che subirono, durante i secoli, le vocali η e ω, mentre α, ι, ο, i, o si mutavano qualche volta in una ε; e già nel greco del Nuovo Testamento i suoni ι, υ, η e i dittonghi ει, οι, tendono a confondersi nell'unico suono di un i breve. Cosicché dobbiamo rinunziare al principio della quantità per assumere quello del numero delle sillabe. La struttura della melodia, secondo particolareggiati ragguagli, aveva invece un vero senso ritmico. Importantissimo, vicino agl'inni di Romano, è l'inno acatisto (v.).
La tendenza a sempre più fastose pompe, cui s'informava nel suo sviluppo la chiesa di Bisanzio, conduceva anche la poesia ed il canto a forme di maggiore complessità; come appare con chiara evidenza nella riunione, che allora si fece, di nove inni brevi in un seguito di odi cui si diede nel canone il nome di akoluthia. Il canone è un'imitazione artistica dei nove cantici della Bibbia che s'usava recitare a Mattutino, separati dal V salmo, secondo la tripartizione sticologica del Salterio, e si compone infatti di nove odi a più strofe, di solito a quattro.
Il primo autore di canoni veramente notevole è Andrea arcivescovo di Creta (circa 650-730 o 720) il cui lavoro più importante è un grande canone di 250 strofe conosciuto sotto il nome di "grande canone". Dopo di lui furono famosi come compositori di questo genere musicale, Giovanni da Damasco e Cosma da Gerusalemme, il primo dei quali è autore (ma meglio sarebbe dire compilatore) d'una raccolta di canti intitolata 'Οκτώηχος contenente inni ordinati secondo gli otto modi.
Verso la metà del sec. IX s'estingue la figura del poeta-musicista che fino allora aveva tenuto il campo. Probabilmente le cause sono da ricercarsi nella difficoltà che i cantori incontravano nel dover mandare a memoria, insieme coi nuovi carmi, anche melodie nuove. Vediamo, così, tali carmi intonarsi ormai su melodie già note. E qui vien fatto di pensare all'analoga usanza praticata dai Minnesänger e dai Maestri cantori, come pure nel corale protestante.
Non diversamente vi appare infatti, premessa alla poesia, l'avvertenza "da cantarsi sulla melodia....". I poeti-compositori s'eran chiamati melodi, ed ora questi poeti della seconda epoca s'ebbero il nome di innografi. Ma anche il nuovo costume volse alla fine, in conseguenza della definitiva codificazione della liturgia, in un tempo non troppo lungo, e cioè nel sec. XI.
Da allora in poi si trovano soltanto pochi e solitarî autori di canoni; l'opera di alcuni di essi fu però accolta poi nel patrimonio liturgico. Tra questi pochi nominiamo Giovanni Mauropus, Giovanni Zonaras e Niceforo Blemmydes. Soltanto nel convento basiliano di Grottaferrata presso Roma, fondato nel 1004 da S. Nilo, l'innografia bizantina conserva il suo rigoglio, fin nel secolo XI, per merito di S. Bartolomeo e dei seguaci Arsenio, Germano, Giuseppe, Paolo e Procopio.
Ma ora vediamo fiorire, nei secoli XIII e XIV, una nuova scuola musicale. Alimentata da rinnovati influssi orientali e dalla feconda energia che allora rianimava la civiltà bizantina, la semplice melodia d'un tempo si muta in forme sempre più ricche ed esuberanti; e vediamo qui la composizione svincolarsi dalla sillabazione (dal σύντομον μέλος) per volgersi ad un forma melismatica ove ad una sillaba corrispondono più note o addirittura più incisi; forma cui si diede il nome di canto colorito (αργὸν μέλος) mentre ai compositori si diede quello di melurgi o di maistores.
Tra i compositori di quest'epoca figurano principalmente Giovanni Kukuzeles, Giosafatte Lascaris e Mitrofanio Blemmydes; ed anche, nel sec. XIV: Agatone Hieromachos, Andrea Sigiros, Basilio Batatzes, Chaliburis, Cristoforo Mystachonos, Chrysaphes, Cornelio Hagiorites, Demetrio Dokianos, Demetrio Raidestinos, Giorgio Kontopetres, Giorgio Sguropulos, Giovanni Kladas, Giovanni Xeros, Iosaph Kukuzeles, Kampanes, Manuele Argyropulos, Manuele Phanarotes, Manuele Thebaios, Marco Hierimonachos, Moschianos, Niceforo Ethikos, Phardibukes Protopapas, Psiritzes, Teodoro, Kladas, Teofisatte Argyropulos, Senofonte, Xenos Koronis; nel sec. XV: Angaliano Domestikos, Basilikos, Gerosimos Palamas, Gregorio Glykys, Kallistos Hieromonachos; e nel sec. XVI Manuele Chrysaphes e Marco da Corinto.
Come nella scrittura appaiono segni d'influenze straniere, per lo più arabe e turche, così anche nelle melodie si discernono, sempre più visibili, elementi esotici; ed anzi possiamo affermare che si presero senz'altro modelli stranieri, attenendosi quindi a forme bulgare, persiane o franche. Né tale tendenza si muta col cadere di Bisanzio, ché anzi essa è tale da condurre direttamente all'epoca della musica neogreca.
Notazione. - La melodia dei canti bizantini è indicata con segni analoghi a quelli usati dalla chiesa latina. Prima della notazione vera e propria s'era però diffusa una forma rudimentale di scrittura che serviva a facilitare la lettura intonata dei testi liturgici; scrittura fondata su quei segni ecfonetici, o "di lettura", derivati in parte dai segni dell'antica prosodia, che ci hanno tramandato i precursori della notazione.
I segni ecfonetici, quali si trovano nei manoscritti dal sec. VI al XIII sono posti al principio e alla fine d'ogni frase del testo, per indicare i limiti entro i quali la recitazione va intonata (Monum. Sinait., 11, XXXIX, Pietroburgo 1912):
Ma i neumi bizantini veri e proprî non costituiscono che una notazione d'intervalli, ed anzi è verosimile che nella loro prima fase indicassero non già l'altezza assoluta dei suoni, ma bensì, in modo approssimativo, la linea generale della melodia, e che l'altezza dei suoni in sé non sia stata determinata graficamente se non in tempi posteriori. Ne nacquero varie distinzioni ed omissioni, dense di oscurità.
Per conto nostro, possiamo formulare una divisione più semplice: 1. scrittura bizantina antica (paleobizantina, lineare) dal sec. VIII al XIII; 2. dell'epoca di mezzo (quella dell'Hagiopolites, rotonda) dal secolo XII al XV; 3. tarda (di Kukuzeles, agiopolitico-psaltica) dal secolo XV al XIX; 4. notazione neogreca, dal principio del sec. XIX.
Ognuna di queste scritture passa poi per successive fasi di sviluppo e varia da regione a regione, pur senza raggiungere la dovizia di varietà che s'incontra nella paleografia latina.
Della scrittura bizantina antica, ancor vicina com'essa è all'ecfonetica, dobbiamo dire purtroppo che i numerosi manoscritti cui essa è affidata, rimangono per noi indecifrabili e tali rimarranno fino a che qualche trattato musicale bizantino non ne ponga in evidenza la chiave. Gli stessi saggi interpretativi tentati dal Riemann non escono dall'ambito di pure ipotesi.
Quanto alle altre due notazioni propriamente bizantine, la loro decifrazione è facilitata da numerosi chiarimenti offerti dai varî manoscritti teoretici. I segni sono partiti in due gruppi: somata (σιόματα) e pneumata (πνεύματα). l somata rappresentano il rapporto da un grado qualsiasi ad uno immediatamente superiore od inferiore, mentre ai pneumata corrispondono intervalli di terza o di quinta, così che un intervallo di quarta o di sesta vien notato con l'aggiunta d'un soma ad un pneuma. Oltre i segni di questi due tipi si trovano poi l'ison (ἴσον) per la ripetizione d'una nota, e l'aporroe che indica la successione di due seconde.
Col sussidio dei teorici ci è stato possibile dissipare, a questo proposito, l'oscurità in cui ci si trovava sinora: i sei soma oligon, oxeia, petaste, dyo kentemata, pelaston e kuphisma non sono che sei diversi segni d'esecuzione. Combinati con un pneuma, così che quest'ultimo si ponga dopo o sotto, essi perdono il loro valore armonico (d'intervallo di seconda) ed assumono invece, per darlo al pneuma, un senso ritmico. Qui sta la spiegazione dei concetti, finora mal penetrati, di ἔμϕωνον (sonoro) e di ἄϕωνον (afono).
Come segni principali vanno quindi ricordati i seguenti:
Se per ison, oligon, apostrophos, kentema, elaphron, hypsile e chamile, si assume la base croma, a pelaston e dyo kentemata equivarrebbe una semicroma, a dyo apostrophoi un semiminima e agli altri somata una croma.
A tutti questi segni nella tarda notazione bizantina se ne aggiungono altri (scritti in rosso al disopra dei precedenti) chiamati μεγάλα σημάδια (segni grandi) o anche μεγάλαι ὑποστάσεις i quali vengono a indicare il ritmo, il tempo, la dinamica e l'espressione della melodia; a questo proposito conviene però soggiungere che non s'è ancora penetrato a fondo il preciso valore di ciascuno di questi nuovi simboli.
I canti bizantini sono classificati in 8 gruppi secondo gli 8 modi (4 autentici e 4 plagali) e recano quindi uno dei contrassegni α′, β′, γ′, δ′ (autentici) e πλ(ἄγιος)α′, πλ β′, πλ γ′, πλ δ′. (plagali) e riguardo a questi modi va avvertito che il Riemann, nel confondere, come già altri fecero, i bizantini coi classici ϕρύϕιος, δώριος ecc., cadde in grave errore.
Giunti a questo punto giova però considerare che molto spesso di tutto l'apparato dottrinale non giungeva alla pratica che parte ben piccola; e da una descrizione della chiesa dei Ss. Apostoli a Costantinopoli, scritta nel sec. XII da Nicola Mesarite, ci risulta che l'insegnamento pratico del canto era libero dalle complicate speculazioni filosofiche dei teorici. "I quali - aggiunge il Mesarite - si servono per lo più di termini fuor dell'uso o mai uditi e, se hanno a parlar tra loro di corde, si riempion la bocca di νήτη e di παρυπάτη, di μέση e di παραμέση".
L'interpretazione delle notazioni bizantine dal sec. XII al principio della notazione riformata neogreca ci rende possibile di trascrivere e di esaminare con qualche rigore scientifico l'immensa quantità di inni che si trova nelle numerose raccolte manoscritte. Un esempio come il seguente (tratto da un manoscritto di Grottaferrata nel quale si noterà la maniera chiara e un po' arcaica dei manoscritti bizantini eseguiti in Italia) varrà a precisare quanto s'è detto sinora:
Le "acclamazioni" - Accanto alle melodie sacre noi troviamo anche le acclamazioni rituali in onore dell'imperatore, il quale per la chiesa era principe Isapostolos: tali acclamazioni erano emesse durante le solenni processioni festive e invocando lunga vita all'imperatore, eran dette polychroni smos o polychronion. Quando l'imperatore compariva al circo, ambo le parti (degli Azzurri e dei Verdi), sotto la guida dei rispettivi melodi, lanciavano verso di lui, alternandosi a guisa di proposta e risposta, i loro saluti; e acclamazioni simili s'elevavano in occasione delle udienze e dei banchetti ed in chiesa, ed altre erano anche in uso per onorare i principi e gli alti dignitarî. Ma più d'ogni altra solenni erano le acclamazioni del tempo natalizio, cui s'aggiungeva, durante ogni pausa, il suono degli strumenti. Nella liturgia, che dava loro il nome di euphemesis, le acclamazioni erano parte importantissima, ed anzi le vediamo perdurare nell'uso anche dopo la caduta dell'Impero, fino ai tempi moderni.
I cori alternati degli Azzurri e dei Verdi erano sostenuti dal suono di quei piccoli organi portatili che erano sottentrati nell'uso ai vecchi organi idraulici, troppo costosi e complicati. I nuovi organi ad aria erano invece assai semplici, come appare nel bassorilievo dell'obelisco di Teodosio (lato S.) a Costantinopoli.
L'uso degli organi era del resto praticato in tutte le feste, nelle popolari non meno che nelle auliche, ed anzi alle feste di corte intervenivano, celati da cortine entro due opposte nicchie, cantori della chiesa dei Ss. Apostoli e di S. Sofia, ed ambo i cori erano muniti d'un organo d'argento. E qui vediamo un antico esempio di quel doppio coro e di quel singolare uso di due organi che si trovano poi praticati a Venezia in S. Marco. Cosicché ci sembra assai giusto attribuire l'origine della tecnica cinquecentesca a doppio coro, non già al puro caso d'un Willaert che giungendo a Venezia trae dalla presenza di due organi l'idea di tale innovazione, ma sibbene all'artistica riassunzione di usi da gran tempo praticati in quella chiesa di S. Marco, derivazione da esempî bizantini. Questa forma di composizione, che reca i caratteri più significativi del barocco, potrebbe dunque a buon diritto considerarsi come un contributo dell'Oriente e di Bisanzio.
Bibl.: I. B. Pitra, Analecta sacra, I, Parigi 1876; H. Riemann, Die byzantinische Notenschrift im 10-25 Jahrdt., Lipsia 1909; J. Thibaut, Origine de la notation neumatique de l'Église latine, Parigi 1907; H. J. W. Tillyard, Byzantine Music and Hymnography, Londra 1923; E. Wellesz, Byzantinische Musik, Lipsia 1927.