Vedi APPENNINICA, Civilta dell'anno: 1958 - 1994
APPENNINICA, Civiltà (v. vol. I, p. 498)
Dal 1958 a oggi il concetto di civiltà a., quale era stato a suo tempo prospettato da U. Rellini e poi ridefinito da S. M. Puglisi, ha risentito del generale e profondo mutamento di prospettive che ha investito il campo degli studi di protostoria italiana, fino al punto di doversi mettere in forse persino in quanto semplice nozione.
Completamente rivoluzionato risulta in primo luogo il problema della sua delimitazione sia cronologica sia geografica; al suo interno sono inoltre emerse, molto vistosamente, svariate articolazioni nell'uno come nell'altro senso, tanto da rendere alquanto opinabile la definizione come «civiltà» o «cultura» unitaria; sebbene, a ben vedere, ciò non costituisca se non un caso particolare, anche se certo esemplare, della crisi generale del concetto di «cultura» nei più recenti studi di preistoria e protostoria. Le stesse critiche, mosse alla concezione del Puglisi, che indicava nel «pastoralismo» l'essenza stessa della civiltà a., da parte di coloro che hanno invece sottolineato le consistenti evidenze archeologiche e bioarcheologiche in senso agricolo, appaiono ora ben povere di senso alla luce di quanto oggi sappiamo circa l'estrema complessità, specie al di là del livello della pura sussistenza, dell'aspetto economico delle comunità dell'Età del Bronzo in Italia e in Europa; restando peraltro valida, quella pastorale, come significativa connotazione della civiltà a. in senso socio-culturale, anche se non più in senso strutturale. Viceversa, lo sviluppo insediativo e sociopolitico è emerso negli anni più vicini a noi come l'aspetto storicamente più saliente della civiltà a.; non senza che risaltasse sotto questo profilo la grande importanza di forme di vera e propria compenetrazione tra navigatori micenei e genti indigene.
Addirittura capovolta appare infine la problematica etnica; al tentativo operato dal Rellini e perseguito poi anche dal Puglisi, di individuare nei portatori della civiltà a. i progenitori delle genti «italiche» (essenzialmente osco-umbro-sabelliche), si è sostituita la tendenza a scorgere in essa (anche qui nell'ambito di una generalizzata svalutazione del concetto di unità etno-culturale), un patrimonio culturale comune a popolazioni assai eterogenee in senso etno-linguistico.
Aspetti archeologici alla luce delle scoperte più recenti. - Anche se non più nel senso di «cultura» unitaria, il termine di civiltà a. resta tuttora valido, in quanto sufficientemente adeguato a designare un insieme di facies archeologiche, di fasi di gruppi locali, le quali, pur prive di un vero e proprio denominatore comune, risultano da una parte, volta a volta, tra loro culturalmente e storicamente collegate, dall'altra tutte racchiuse in uno stesso ambito, piuttosto agevole da definire in senso sia cronologico che geografico. Cronologicamente, tale ambito comprende i periodi medio e recente dell'Età del Bronzo; geograficamente include, nel momento della sua massima estensione, l'Emilia-Romagna a E del Panaro, tutta l'Italia centro-meridionale, le isole Eolie, alcuni lembi soprattutto costieri della Sicilia nord-orientale. In questo quadro, un circoscritto momento cronologicamente centrale ossia la fase finale del Bronzo Medio, la quale si colloca approssimativamente attorno al XIV sec. a.C. - è interessato dalla facies appenninica propriamente detta (mesoappenninica secondo qualche autore), in quanto definita da quel particolare stile decorativo vascolare inciso e intagliato che fu preso dal Rellini e dal Puglisi come il principale indicatore tipologico della civiltà a. (alla quale essi peraltro attribuivano una durata ben più ampia).
Nell'ambito dello stile decorativo «appenninico», I. Macchiarola ha recentemente distinto otto varietà o cerchie locali: un'«area settentrionale» (essenzialmente emilianoromagnola) ancora non ben definita, e i «gruppi» medioadriatico, tosco-umbro, medio-tirrenico, del Biferno e Ofanto, tirrenico meridionale, apulo-lucano e calabrese. Nel gruppo Biferno e Ofanto ha inoltre potuto riconoscere due orientamenti stilistici, le cui rispettive caratteristiche principali, estensibili, con una certa cautela, ad altre cerchie locali, consentono di definire due momenti cronologicamente distinti.
Durante le fasi meno evolute del Bronzo Medio il panorama si presenta più frastagliato. In primo luogo troviamo a S (più precisamente in un'area comprendente Puglia, Basilicata, Campania meridionale e interna, Lazio meridionale e, con caratteri alquanto diversi, Abruzzo) la facies protoappenninica. Tale termine fu introdotto nel 1963 da F. G. Lo Porto, che con esso tuttavia designava due aspetti tra loro piuttosto eterogenei, la facies di Laterza, risalente al bronzo Antico (Protoappenninico A), e appunto la facies ora in esame (Protoappenninico B). Oggi sappiamo che questi due aspetti risultano separati da una cesura, nettissima per quanto riguarda la continuità d'insediamento, ma abbastanza apprezzabile anche per ciò che concerne la continuità culturale. Gli elementi di continuità sono invece evidentissimi e molto significativi tra «protoappenninico» propriamente detto e «appenninico».
Nel golfo di Napoli, le scoperte fatte sull'isola di Vivara, in una serie di insediamenti nei quali sono attestati intensi contatti sia con i navigatori micenei, sia con l'aspetto culturale di Capo Graziano tipico delle isole Eolie, sono state definite due autonome facies locali in successione cronologica, quella di Punta di Mezzogiorno (XVI sec.) e quella di Punta d'Alaca (XV sec.). Un accurato lavoro di comparazione tipologica tra questi due aspetti vivaresi e la facies protoappenninica propriamente detta, dovuto a M. Pacciarelli, I. Damiani e A. C. Saltini, ha reso possibile l'individuazione, in seno a quest'ultima, di due distinti orizzonti cronologici (Protoappenninico 1 e 2).
Nella Calabria settentrionale ionica (Broglio di Trebisacce) è presente un gruppo locale che, pur legato al Protoappenninico, mostra spiccate peculiarità sue proprie.
Nell'Italia centrale tirrenica conosciamo, per queste fasi, la facies di Grotta Nuova, che si presenta con il suo aspetto più tipico nella Maremma tosco-laziale, ma che si colora di sfumature locali nella Toscana settentrionale (Candalla), in quella interna (Belvedere di Cetona), nel Lazio settentrionale (Mezzano) e centro-meridionale (Punta Campanile, Albano), nell'Abruzzo centro-settentrionale interno (paludi di Celano). Nelle stesse aree è anche documentato un aspetto particolare, la ceramica medio-tirrenica a decorazioni plastiche (solcature, scanalature, bozze a umbone), i cui reperti si rinvengono in certi contesti da soli, in altri in associazione con materiali quando di tipo Grotta Nuova, quando di tipo appenninico classico, e che verosimilmente rappresenta un orizzonte cronologicamente a sé stante, di incerta collocazione, forse a cavallo tra le due facies, comunque un momento di intensi e significativi rapporti con l'area padana.
Nel Bolognese, in Romagna, nelle Marche ci sono invece noti per questo periodo solo dei contesti archeologici isolati (Grotta del Farneto, Monte Castellaccio, Valle Felici, grotte della Gola del Sentino), tutti legati da vincoli di affinità tra loro e con il complesso gravitante attorno a Grotta Nuova, ma al tempo stesso ciascuno con suoi caratteri peculiari.
Con il Bronzo Recente (XIII e parte del XII sec.; rappresenta, nell'ambito dello sviluppo della civiltà a., il momento a un tempo di massima espansione geografica, e di massima unitarietà culturale), alla facies appenninica propriamente detta segue la facies subappenninica, caratterizzata, per quanto riguarda la ceramica - ora quasi costantemente inornata - dalla molteplice e spesso fantasiosa elaborazione plastica delle anse (cornute, cilindrorette, ornitomorfe, ecc.), e, per ciò che concerne la metallurgia (ma anche parecchie altre attività produttive, come la lavorazione di oggetti in osso e corno), da una koinè che la accomuna per un verso con le facies padane e transalpine, per l'altro, in qualche misura, con la stessa civiltà micenea.
Nel quadro, del quale abbiamo sinteticamente tracciato le coordinate cronologiche e geografiche, le evidenze archeologiche più salienti sono costituite da insediamenti (dei quali, fonte primaria per la ricostruzione delle forme socio-economiche, si tratterà più avanti), sepolture e luoghi di culto in grotta.
La varietà delle forme sepolcrali e dei riti funebri che si riscontrano nell'ambito della civiltà a. è veramente straordinaria, e del tutto anomala per una «cultura» preistorica o protostorica; non è del resto del tutto esclusa l'ipotesi che essa rispecchi in qualche modo proprio l'eterogeneità etnica della civiltà appenninica. Abbiamo infatti le sepolture a inumazione distese in semplici tombe a fossa, di regola prive di corredo (sepolcreti di Toscanella Imolese e di Pianello di Genga, livelli anteriori alla necropoli a cremazione «protovillanoviana»); le sepolture a inumazione sia distese che rannicchiate nelle grotte naturali (Manaccora), nelle quali è altresì spesso segnalata, sebbene assai controversa, la pratica della «deposizione secondaria» (cioè della traslazione successiva al disfacimento del cadavere con selezione dei resti scheletrici più vistosi e loro deposizione non più in connessione anatomica); le necropoli a cremazione, veri e propri «campi di urne», del tutto simili come rituale a quelli coevi dell'Italia del Nord, come pure a quelli successivi del Bronzo Finale di molte parti d'Italia (Anzio, Cavallo Morto; Canosa, Contrada Pozzillo; Torre Castelluccia); le tombe monumentali ipogee, «a grotticella» o «a camera», con seppellimenti di regola collettivi, non di rado a carattere chiaramente gentilizio e con ricchi corredi (Altamura, Casal Sabini; S. Vito dei Normanni; Crispiano; Murgia Timone; Toppo Daguzzo; Lavello; Trinitapoli; S. Domenica di Ricadi); i veri e propri dolmen (Bisceglie), anche con camera circolare a thòlos (Giovinazzo); le tombe «pseudodolmeniche» con struttura di lastroni litici e copertura di pietrame, anch'esse verosimilmente con sepolture collettive (Pian Sultano, Crostoletto di Lamone, Murgia S. Francesco e Murgia S. Benedetto di Gioia del Colle); le «specchie» (tumuli di pietrame) del Salento con deposizioni invece spesso singole; il tumulo di Torre S. Sabina di Carovigno, che copre un vero e proprio piccolo sepolcreto di tombe individuali a fossa. È peraltro importante sottolineare come lo stato delle fonti archeologiche, sulle quali si fonda questo quadro, sia estremamente frammentario e del tutto inadeguato ai fini di una sintesi. La civiltà a. resta, tra le grandi facies dell'Età del Bronzo europea, forse quella il cui aspetto funerario è meno noto.
La pratica di atti di culto in grotta nell'ambito della civiltà a. è invece un fenomeno nel complesso piuttosto omogeneo e circoscritto nel tempo, essendo la gran massa delle testimonianze limitate al Bronzo Medio, e anzi soprattutto alle sue fasi meno evolute. La documentazione disponibile è qui molto ampia (generazioni di paletnologi italiani hanno prediletto gli scavi in grotta, organizzativamente e tecnicamente meno impegnativi), ma di qualità assai scadente, assolutamente inadeguata alla difficile ricostruzione di comportamenti rituali molto complessi e spesso enigmatici. Tra questi, le più frequentemente attestate sono le deposizioni cultuali di offerte, in particolare vasi contenenti cereali e altri semi e frutti commestibili, sia coltivati che - in una misura del tutto ignota nei resti botanici da insediamenti selvatici (ma dovevano essere praticate anche offerte di liquidi o libagioni, dato il gran numero di vasi per bere, rinvenuti sia interi sia in frammenti). Cereali e legumi venivano anche deposti, già tostati, su c.d. focolari rituali (in realtà bracieri improvvisati direttamente sul terreno, privi di una struttura di supporto), e qui arsi, secondo un rito di antichissima tradizione neolitica e di apparente significato agrario. Come avanzi di offerte cultuali o di sacrifici (o banchetti rituali?) sono verosimilmente da interpretare i numerosi resti di ossa di animali - anche qui con una percentuale di fauna selvatica del tutto inconsueta - , sebbene manchino prove incontrovertibili del loro carattere sacrale e non domestico. Accanto a tutte queste offerte, abbiamo però anche deposizioni cultuali di oggetti pregiati, non di rado di prestigio, soprattutto bronzei («stipe votiva» della Caverna di Pertosa). Particolarmente significativa sembra infine la possibilità di una contrapposizione tra quei luoghi di culto in grotta in cui sono presenti anche deposizioni funebri dei diversi tipi sopra ricordati - diffusi specialmente nell'area tosco-laziale (di grande importanza il complesso di Belverde di Cetona) - e quelli dedicati al culto di acque salutari, attestati soprattutto sul Basso Tirreno (Pertosa, Latronico, ecc.).
Demografia, economia e società. - Non diversamente da quanto si verifica per molte altre facies dell'Età del Bronzo italiana ed europea, l'archeologia insediamentale mostra che la civiltà a., ben lungi dal presentare quel carattere nomadico che le si era attribuito, rivela una spiccata, progressiva tendenza verso la stabilizzazione e un assetto stanziale. In concreto, accade che di fase in fase vada crescendo, in linea generale, il numero dei casi in cui perdura l'occupazione di un sito già precedentemente abitato, e viceversa diminuendo quello sia degli insediamenti abbandonati, sia di quelli nuovi.
Nell'insieme, e sempre in linea generale, assistiamo a una lenta ma progressiva diminuzione del numero complessivo degli stanziamenti, nell'ambito di un processo globale di selezione e concentrazione. Specialmente nelle aree meglio studiate - nel senso soprattutto di una maggiore sistematicità delle ricognizioni di superficie - essenzialmente il Lazio settentrionale, di cui si è occupato F. di Gennaro, e alcune zone della Calabria (ma in qualche misura anche altrove), si è potuto osservare che la selezione ha luogo secondo un duplice criterio: l'estensione degli abitati - sia nel senso che quelli minori sono più frequentemente soggetti all'abbandono, sia in quanto quelli di nuova occupazione risultano di regola via via sempre più vasti (e ciò ovviamente comporta di per sé una concentrazione progressiva) - e la morfologia dei luoghi, i quali risultano in posizione naturale tendenzialmente sempre più munita e dominante. Notevole è il grado di significatività di questo processo ai fini della comprensione delle tendenze dominanti nello sviluppo delle forme socio-economiche nella civiltà a.: esso infatti ci mostra una tendenza verso comunità via via più popolose e compatte, che sembrano controllare porzioni di territorio sempre più estese, e verso una maggiore subordinazione delle scelte concernenti l'economia di sussistenza a esigenze esterne, legate soprattutto alla sicurezza tattico-strategica.
Di tutto quanto s'è detto va ovviamente tenuto debito conto nel tentare di definire il tipo di economia proprio delle comunità portatrici della civiltà appenninica. Dall'assetto stanziale di queste, e dal primato loro proprio delle esigenze relative alla sicurezza, discende necessariamente una organica e in qualche misura razionale integrazione tra le diverse attività produttive primarie. Come hanno dimostrato gli scavi effettuati a Luni sul Mignone, Narce e Broglio di Trebisacce (v.) e gli studi di G. Barker, tra coltura dei cereali e dei legumi (tra questi ultimi è presente la veccia, certo utilizzata soprattutto come foraggio) e allevamento del bestiame non esiste alcuna antinomia, anzi l'uno appare funzionale all'altra (probabile pascolo e concimazione delle stoppie). È bensì vero che l'allevamento risulta solo in parte stanziale, e la pastorizia è certo prevalente; ma non si può davvero parlare di pastorizia nomadica. I percorsi della transumanza risultano in genere di gran lunga più brevi di quanto non avesse supposto il Puglisi; e a quanto pare essi facevano costantemente capo all'insediamento principale di ciascuna comunità: in molti casi, più che di transumanza si dovrà pensare a forme di alpeggio. Dell'intuizione del Puglisi permane tuttavia valido il nucleo centrale: la grande importanza socio-culturale, specie durante la fase appenninica propriamente detta e quella che la precede (protoappenninico e facies coeve), della pastorizia, attività sulla quale - come suggeriscono molteplici indizi, a cominciare dall'ubicazione di molte tombe monumentali a carattere gentilizio - dovevano esercitare un particolare controllo i ceti egemoni.
Terza tra le principali attività produttive alimentari sembra essere, forse introdotta ora per la prima volta, verosimilmente in seguito a significative influenze del Mediterraneo Orientale, l'arboricoltura, con la connessa acquisizione alle attività agricole dei terreni collinari (e con gli inizî già nell'Età del Bronzo del relativo degrado ambientale, peraltro dovuto in prevalenza a disboscamento e pascolo): sono accertati botanicamente olivo (subito attestato su gran parte dell'Italia centromeridionale, e ben presto connesso alla produzione di olio), fico e noce, non individuata con certezza distinguendola rispetto alle varietà selvatiche la vite vinifera, ma attestata indirettamente dai numerosi e consistenti rinvenimenti di semi, non altrimenti spiegabili, e ancor più da evidenze di altra natura, a cominciare dal grande sviluppo assunto dalla fabbricazione di vasellame potorio come bene di prestigio.
Sempre più trascurate viceversa sono le attività produttive a carattere aleatorio (nel senso di una problematica prevedibilità del loro rendimento in termini quantitativi), caccia, pesca e raccolta, tranne, come s'è visto, nell'ambito sacrale, cui vanno aggiunte le manifestazioni cerimoniali legate a fatti di prestigio sociale (caccia al cervo, soprattutto, i cui resti negli insediamenti prevalgono quasi sempre in modo deciso su tutto il resto della selvaggina).
Al processo di selezione e concentrazione dell'insediamento è certamente connessa anche la tendenza alla progressiva stabilizzazione e specializzazione di determinati rami dell'artigianato (metallurgia, manifattura di oggetti pregiati in osso e corno, fabbricazione di ceramiche dipinte, tornite e cotte in forni ad alta temperatura, di influenza egea, come pure di vasellame fatto a mano, di impasto fine, che da quelle spesso trae ispirazione).
La supposizione, di per sé intuitiva, che alla radice di tutto questo insieme di fenomeni stia un accentuarsi delle diversificazioni o, se si preferisce, stratificazioni sociali, appare avvalorata da un triplice ordine di evidenze archeologiche. L'analisi della struttura interna degli abitati rivela per un verso lo sviluppo di forme sempre più robuste e imponenti di fortificazione, aggeri a terrapieno (recentissima la scoperta di una struttura di questo tipo, databile al Bronzo Recente, a Torre del Mordillo nel Cosentino) o muraglioni di pietre a secco (molto diffusi in Puglia - ben noto quello di Coppa Nevigata - ma attestati anche altrove, come a Tufariello di Buccino nel Salernitano); per l'altro l'emergere, nell'ambito del tessuto planimetrico, di abitazioni che si differenziano molto da quelle comuni per forma, dimensioni e particolarità costruttive, spesso certo vere e proprie magioni gentilizie (Monte Rovello presso Allumiere, Scoglio del Tonno presso Taranto).
Nella sfera funeraria, come s'è già sottolineato, alle comuni sepolture a inumazione e a incinerazione si contrappongono quelle a carattere monumentale, le quali, nei pochi casi in cui le deposizioni funebri non erano troppo sconvolte, hanno per lo più restituito ricchi corredi, contraddistinti da armi e ornamenti in bronzo, vaghi d'ambra, pasta vitrea e faïence, talvolta anche ceramiche di tipo miceneo.
Al di là della loro collocazione funeraria, la stessa crescente diffusione e circolazione, largamente documentata anche e soprattutto in altri contesti archeologici, di tutti questi beni di prestigio, costituisce di per sé un significativo indicatore di un processo di differenziazione sociale in atto. Di tale processo una chiave di lettura fin troppo suggestiva ci viene indicata dal fatto innegabile che, di quei beni, la maggior parte era di importazione o di ispirazione egea (tra questi ultimi vanno ricordate la ceramica di tipo miceneo fabbricata su suolo italico - almeno inizialmente certo da vasai micenei - come pure quella grigia «pseudo-minia»). Se infatti è indubbio che le presenze micenee nell'Italia centro-meridionale non ebbero alcuna connotazione «coloniale» a tutt'oggi non vi si trova traccia di stanziamenti o anche solo empori micenei - e che i fenomeni di acculturazione da esse indotti sembrano aver avuto un carattere molto settoriale, circoscritto ad alcuni aspetti della cultura materiale, quelli per l'appunto attinenti l'ambito dei beni di prestigio, è altrettanto vero che, come tutto lascia credere, lo stimolo rappresentato dai contatti con i navigatori egei dovette essere, se non determinante, certo decisivo ai fini dei successivi sviluppi delle forme di organizzazione sociale: la frattura nell'assetto socioeconomico che, all'inizio dell'Età del Ferro, attraverserà l'ambito geografico già proprio della civiltà a. contrapponendo l'Italia meridionale con l'area medio-tirrenica a quella medio-adriatica, a sua volta ora assimilabile sotto molti aspetti al Nord, non sembra infatti far altro che ricalcare i limiti della zona in cui le influenze micenee erano state più intense.
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