CIVATE
(Clavades, Clavate, Clivate nei docc. medievali)
Comune della Lombardia (prov. Lecco), situato alle falde del monte Cornizzolo (l'antico Pedale) e prospiciente il piccolo lago di Annone. Nonostante C. si trovi sull'antico asse viario che collegava Como con Lecco, scarsissime e non probanti sono le testimonianze di età sia romana sia paleocristiana. Le origini di C. sembrano dunque essere essenzialmente legate a un insediamento monastico altomedievale, articolato, se non dall'origine almeno dal sec. 11°, in due nuclei, uno coincidente con la chiesa di S. Pietro al Monte e l'altro con la chiesa di S. Calocero, al centro dell'attuale abitato.La primitiva fondazione di una chiesa dedicata a S. Pietro sul monte Pedale viene tradizionalmente fatta risalire a età longobarda sulla base di narrazioni di sapore leggendario collegate al nome di Desiderio; le fonti trecentesche ricordano anche la donazione da parte di papa Adriano I (772-795) di preziose reliquie dei ss. Pietro, Paolo e Marcello. L'ipotesi di una fondazione altomedievale ha comunque trovato conferma in uno scavo ottocentesco (Barelli, 1881), che ha evidenziato strutture sicuramente precedenti la chiesa del sec. 11°; tali strutture, di forme assai semplici e identificabili con una cripta, sono state recentemente rimesse in luce (Pergola, in corso di stampa).Più oggettivi sono i dati relativi al sec. 9°: in un documento dell'845 ca., contenuto nel Codex confraternitatum Fabariensium, tra i monasteri affratellati all'abbazia retica di Fabaria viene registrato anche quello de Clavades (MGH. Libri confr., 1884, p. 384) con trentacinque membri, a capo dei quali erano i monaci franchi Leudegario e Ildemaro. Negli stessi anni si situa anche la traslazione delle reliquie di s. Calocero da Albenga al monasterio [...] Clavadis (Roma, BAV, Reg. lat. 540, c. 44; Savio, 1914a; 1914b), che probabilmente diede origine a un primitivo luogo di culto anche al piano dedicato a quel martire, del quale tuttavia non restano che minimi indizi (Zastrow, 1981). Solo nel sec. 11°, con la costruzione delle attuali chiese, assunsero concreta e definitiva fisionomia i due nuclei di S. Pietro e di S. Calocero, ben distinti ma facenti parte di un'unica abbazia.Tra i secc. 11° e 12° la vita della potente abbazia, che disponeva anche di una biblioteca (Ziesche, 1974), appare strettamente connessa con le vicende politiche lombarde. Nel 1097 volle esservi sepolto l'arcivescovo di Milano Arnolfo III; nel 1162 l'abate Algiso era tra i sostenitori del Barbarossa quando fu decretata la distruzione di Milano e in cambio di tale fedeltà il monasterium Clavatense con tutti i suoi beni ottenne la speciale protezione dell'imperatore (Bognetti, 1985, pp. 59-60; Marcora, 1985, pp. 225-227). Il sec. 14° segnò l'inizio di un graduale declino dell'insediamento monastico, che tuttavia non comportò la rovina delle principali chiese medievali.L'aspetto attuale della chiesa di S. Calocero è dovuto a un intervento di ristrutturazione che, probabilmente nel sec. 18°, sostituì l'antico tetto ligneo con poderose volte in muratura; le pareti perimetrali dell'edificio sono inoltre parzialmente occultate dal chiostro e da altre strutture. È stato comunque possibile identificare con sufficiente chiarezza almeno due fasi architettoniche. La prima costruzione, variamente datata nell'ambito della prima metà del sec. 11° (Bognetti, 1957, pp. 58-62; Mancinelli, 1971, p. 15; Caramel, 1984, pp. 38-41) e caratterizzata da muratura irregolare di ciottoli e pietre, si estendeva su tre navate concluse da tre absidi, delle quali solo quella settentrionale è ancora in parte superstite; le pareti esterne erano prive di decorazione e vi si aprivano, sul lato meridionale, cinque monofore a doppio strombo. In una fase successiva, riconducibile alla fine dello stesso secolo (Bognetti, 1957; Caramel, 1984), il presbiterio venne prolungato, con la conseguente ricostruzione dell'abside centrale e di quella meridionale, e innalzato per permettere l'inserimento di una cripta a tre navate e otto campate; la muratura a conci ben squadrati è più regolare e compare la decorazione ad archetti pensili; all'angolo nord-est sorgeva un alto campanile, demolito nel 1898.Sulle pareti della navata centrale e in parte nell'attuale sottotetto si stende un ampio ciclo di affreschi a soggetto veterotestamentario, articolati in due registri sovrapposti: gli episodi della parete settentrionale sono tutti desunti dall'Esodo e sono caratterizzati dalla presenza delle figure nimbate di Mosè e Aronne; sulla parete meridionale si dispongono invece, suddivise dalle cinque monofore, scene tratte dai libri di Giosuè, dei Giudici e dei Re.Nel suo insieme il programma iconografico appare eccezionale sia per la scelta univoca di fonti veterotestamentarie, anche nella controfacciata, sia per la presenza di episodi altrove assai raramente rappresentati, per i quali tra i possibili modelli viene indicato un ottateuco bizantino del sec. 11° (Roma, BAV, Vat. gr. 747). Il ciclo è stato interpretato anche in senso allegorico come illustrazione del tema della fede e della redenzione, ove i singoli episodi possono essere letti come prefigurazioni di carattere cristologico (Mancinelli, 1971; Tamborini, 1984). La decorazione di S. Calocero viene concordemente collegata con quella di S. Pietro secondo un percorso di lettura dalla chiesa al piano a quella al monte, ove l'una è premessa indispensabile dell'altra, che conclude l'ideale itinerario con l'illustrazione dal testo dell'Apocalisse. Allo stretto legame tematico tra i due cicli viene fatto corrispondere un legame cronologico, così che entrambi vengono generalmente datati allo scorcio del sec. 11° (Bognetti, 1957; Mancinelli, 1971; Marcora, 1985, pp. 175-177; Bertelli, 1987; Segagni Malacart, 1988), con un'ipotetica prosecuzione nei primi anni del secolo successivo (Tamborini, 1984, p. 205).La personalità degli artisti di S. Calocero, senza dubbio di altissimo livello, non è stata ancora definitivamente chiarita, anche se è apparsa probabile la loro provenienza milanese (Mancinelli, 1971; Bertelli, 1987); sono stati comunque individuati almeno due pittori che operarono sulle due opposte pareti.La chiesa di S. Pietro al Monte, interamente costruita in pietra locale squadrata a piccoli blocchi irregolari e decorata esternamente da archetti pensili e lesene, si estende su di una sola navata, con orientamento E-O, absidata alle due estremità. Mentre l'abside occidentale è di forma usuale, quella orientale è articolata all'interno in due absidiole minori e in una sorta di corridoio centrale che funge da accesso e presenta una porta al centro dell'abside stessa; questa struttura tripartita si conclude verso l'interno della chiesa con tre arcate su colonne. Sotto la chiesa, quasi a colmare il dislivello di m. 5 ca. tra la zona orientale e il terreno, si estende la cripta, divisa in tre navate da sei colonne. L'abside orientale è avvolta da un deambulatorio semicircolare a due piani - ripristinato nel 1940 - che si raccorda al pendìo sottostante con un ampio scalone recentemente restaurato (Gatti, 1975).L'originalità della planimetria ad absidi contrapposte, decisamente rara in territorio italiano, ha suscitato un acceso dibattito tra chi ha sostenuto, pur con alcune varianti, la contemporaneità tra le due absidi (Barelli, 1881; Porter, 1917; Polvara, 1941; Guiglia Guidobaldi, 1978; Caramel, 1984; Castagna, 1987) e chi invece, dando maggior peso ai vincoli di un orientamento a E, ha ritenuto che in origine vi fosse solo l'abside orientale - con funzioni liturgiche e con la cripta sottostante - e che, in un secondo tempo, sia stato invertito l'orientamento, trasformando in ingresso l'abside originale e costruendone una nuova a O in luogo di un'ipotetica facciata (Bognetti, 1957; Magni, 1960; Demus, 1968; Mancinelli, 1971; Chierici, 1978). Questa seconda interpretazione sembra ormai da abbandonare in base all'analisi delle cortine murarie e delle due strutture absidali. L'indagine eseguita nel sottotetto dell'abside orientale ha permesso da un lato di escludere l'originaria esistenza di un catino absidale o di altra copertura di analoga funzione e dall'altro di accertare che l'intera struttura tripartita e l'abside orientale appartengono a un'unica fase progettuale che, solo per alcuni particolari minori, fu realizzata in due momenti costruttivi assai ravvicinati, se non addirittura consecutivi (Guiglia Guidobaldi, 1978; Caramel, 1984). L'eccezionalità icnografica di un monumento così concepito legittima il rinvio all'architettura carolingia e ottoniana d'Oltralpe, in particolare a San Gallo, al duomo di Colonia e al St. Michael di Hildesheim, dove appunto compare un deambulatorio d'ingresso. Tuttavia, se l'ideatore di S. Pietro scelse per la progettazione dell'edificio modelli oltramontani del passato, per la sua esecuzione si avvalse di maestranze locali. La chiesa infatti ben si inserisce nell'architettura comasca della seconda metà del sec. 11°, trovando paralleli, soprattutto per la decorazione esterna, con S. Benedetto in Val Perlana, S. Vincenzo di Gravedona e S. Nicolò di Piona (Porter, 1917; Arslan, 1954a; Magni, 1960).In maniera non meno complessa si pone il problema della decorazione scultorea e pittorica: affreschi e stucchi appaiono come due espressioni di un medesimo armonico linguaggio e non vi sono dunque ragioni per non ritenere anche l'intera decorazione dell'edificio coeva e frutto di un programma unitario: le rare incongruenze, rilevabili soprattutto nella cripta, vanno ascritte semmai a un avvicendamento delle maestranze o comunque a mutamenti esecutivi in corso d'opera.Una solenne raffigurazione che compendia la Traditio legis e la Traditio clavium sovrasta e incornicia la porta d'ingresso. Sulle pareti del corridoio d'ingresso, concluse in basso da una fascia a meandro, sono raffigurati i santi papi Marcello e Gregorio che accolgono due gruppi di fedeli dinanzi a uno sfondo architettonico. Nella lunetta interna, sopra la porta, Abramo tiene in grembo i giusti, rappresentati da tre figure di fanciulli, mentre la volta a crociera è occupata da una complessa ed eccezionale raffigurazione della Gerusalemme celeste, resa come una cerchia quadrangolare di mura, i cui lati destro e sinistro si piegano ad angolo verso l'interno. Su ogni lato si aprono tre porte dalle quali si affacciano teste di angeli e al centro Cristo tra due alberi siede sul globo dinanzi al quale si trova l'agnello da cui sgorga la fonte di vita. Nelle vele della volta a crociera successiva sono disposti i simboli dei quattro fiumi del paradiso, resi come giovinetti sorreggenti degli otri di forma allungata. L'absidiola settentrionale è decorata nel catino dal busto di Cristo entro un clipeo sorretto da due angeli e, nel sottostante semicilindro, da diciotto figure di patriarchi, profeti, apostoli, evangelisti, martiri, papi e anacoreti. Nella volta a crociera trovano posto i simboli degli evangelisti, mentre sulla parete nord un restauro (Buttafava, 1961) ha rivelato la presenza di due scene sovrapposte, assai frammentarie, raffiguranti forse il Martirio di s. Giacomo Maggiore e quello di s. Giacomo Minore. L'absidiola meridionale è decorata nel catino da un'altra immagine di Cristo entro un clipeo, sorretto però qui da un serafino e da un cherubino, e, nel semicilindro, dalle sette gerarchie angeliche; nella volta a crociera e sulla parete meridionale intorno alla monofora si dispongono le figure dei sette angeli che suonano le trombe apocalittiche. Al di sopra delle arcate si stende infine la composizione che riassume e identifica l'intero ciclo, cioè la visione apocalittica che illustra fedelmente il testo giovanneo (Ap. 12, 1-11): al centro è il trono del Signore entro una mandorla, circondato da angeli che, guidati dall'arcangelo Michele, trafiggono con le lance la sottostante e gigantesca figura del drago a sette teste; a sinistra la mulier amicta sole e il figlio che, appena venuto alla luce, viene sottratto alle fauci del drago e presentato da un angelo al cospetto dell'Altissimo.Parte integrante del tema apocalittico è la decorazione della cupoletta del ciborio con quattro angeli che trattengono i venti nei pennacchi e l'agnello al centro circondato da diciotto figure nimbate, identificate con la turba magna di coloro che hanno lavato le vesti nel sangue dell'agnello. La decorazione doveva svolgersi in origine anche sulle pareti longitudinali della chiesa, ove si ripeteva l'abbinamento tra affresco e stucco; resti pittorici sopravvivono anche nella cripta. Quasi tutte le raffigurazioni sono accompagnate da tituli tratti da fonti veterotestamentarie e dall'Apocalisse, ma talvolta anche filtrati attraverso la tradizione esegetica (Christe, 1977; Gatti, 1980; 1990; Tamborini, 1984), così che l'intero ciclo si pone a un livello interpretativo di particolare coerenza e sottigliezza, che lascia intravedere una mente ideatrice di altissima preparazione teologica.Alla tradizionale lettura degli affreschi in chiave escatologica e soteriologica si aggiunge quella legata più specificamente al battesimo e all'ammissione in chiesa dei penitenti e dei neofiti il Giovedì Santo in preparazione del rito pasquale (Tamborini, 1984; Gatti, 1990), esemplificata chiaramente dalle due contrapposte scene con i ss. Gregorio e Marcello.Un acceso dibattito è sorto intorno alla cronologia e alla definizione sia delle componenti stilistiche degli affreschi sia della personalità degli artisti operanti a S. Pietro. Le ipotesi di datazione, già oscillanti tra il terzo quarto del sec. 11° (de Francovich, 1955) e la seconda metà del 12° (Toesca, 1943), sembrano addensarsi intorno agli ultimi anni del sec. 11° (Baum, 1939; Salvini, 1954; 1964; Bognetti, 1957; Demus, 1968; Mancinelli, 1971; Gatti, 1980; Marcora, 1985; Bertelli, 1987; Segagni Malacart, 1988) o all'inizio del successivo (Tamborini, 1984; Zastrow, 1984). Il nodo del problema è d'altronde, in gran parte, nella valutazione della componente stilistica predominante: laddove si sono rilevate forti permanenze ottoniane si è preferita una cronologia più alta; se invece sono stati evidenziati apporti più specificamente bizantini si è proposta una cronologia più avanzata. La coesistenza di ambedue le componenti dipende essenzialmente dalla diversa formazione dei pittori che, all'interno di un'unica équipe, attesero alla decorazione del S. Pietro. Non c'è accordo tra gli studiosi né sul loro numero, né sulle parti di affreschi loro attribuite, né infine sulla loro provenienza. Si distacca comunque nettamente dagli altri il Maestro della Visione apocalittica, il più maturo e nel contempo il più moderno, che, all'interno di una costruzione spaziale sapiente e rigorosa, dimostra di essere a conoscenza del linguaggio figurativo bizantino della seconda metà del sec. 11°, soprattutto per la modulazione dei panneggi, apparentemente fluidi ma in realtà irrigiditi in cifre convenzionali; la turba degli angeli, pur costruita secondo un gioco armonico di linee incrociate, appare bloccata e quasi raggelata nei canoni di quella aulica ma fredda eleganza che caratterizza i mosaici greci di Dafni. Pervaso di reminiscenze classiche e tardoantiche è invece il pittore della Gerusalemme celeste, ancora così profondamente calato nella cultura ottoniana che è stata ipotizzata una provenienza o quanto meno una formazione oltramontana. Meno 'colto' infine, ma qualificato da un robusto, quasi arcaico, plasticismo - ravvisabile anche nei forti contorni verdastri e nella caratteristica marcatura rossastra delle guance -, è il pittore, o meglio i pittori, cui si debbono, per es., le scene dei ss. Gregorio e Marcello, le vergini della cripta e gli angeli dell'abside sud. La notevole sfaccettatura delle componenti stilistiche rende difficile l'individuazione di contesti confrontabili; ciò nonostante non mancano puntuali riscontri con decorazioni pittoriche di ambito lombardo o comunque prealpino, in particolare gli affreschi di S. Giorgio in Borgovico a Como, S. Michele di Oleggio, S. Martino di Aurogo e S. Carlo di Prugiasco, nonché quelli di recente venuti in luce nell'abside del S. Stefano di Bizzozzero. A più vasto raggio sono stati individuati rapporti con gli affreschi superstiti della primitiva chiesa abbaziale di Lambach (Austria Superiore) e infine echi del linguaggio pittorico di C. anche in ambito catalano (Demus, 1968).Strettamente connessa con i dipinti murali è la decorazione a stucco, straordinariamente ricca e ben conservata, che non solo incornicia le superfici affrescate e riveste gli elementi architettonici, ma si pone anche come entità decorativa a sé stante nello splendido ciborio, nei pannelli a rilievo della cripta e nei più semplici parapetti della navata. Si tratta di un complesso eccezionale che, insieme ad altre meno consistenti ma non meno importanti testimonianze quali S. Maria Maggiore a Lomello, S. Pietro ad Acqui e S. Ambrogio a Milano, conferma il persistere nel sec. 11° della tradizione carolingia della scultura in stucco (Romanini, 1968; Magni, 1984).Il ciborio è modulato per struttura e sintassi decorativa su quello del S. Ambrogio di Milano, di circa un secolo anteriore, ma se ne distacca notevolmente per semantica ed esiti formali; sui quattro lati sono raffigurate le scene della Crocifissione, delle Marie al sepolcro, dell'Ascensione e della Traditio clavium (Marcora, 1974; Gatti, 1977).Nella cripta sopravvive solo parte dell'originaria decorazione, consistente nei capitelli delle sei colonnine, in quelli delle cinque lesene sulle pareti, che sono congiunti da arcatelle sopra le finestre, e soprattutto nelle tre scene figurate della Presentazione al Tempio, della Crocifissione e della sovrastante Dormitio Virginis.Nel procedere della decorazione sono nettamente identificabili due momenti successivi; alla differenza di stile che si può cogliere tra la Presentazione al Tempio e le altre due scene dietro l'altare viene fatta corrispondere anche una diversa scelta di fonti iconografiche, riconducibili nuovamente a due diverse linee ispiratrici, una con forti predominanze ottoniane e l'altra con un più sensibile riaffiorare della cultura figurativa bizantina. In tal senso appaiono assai convincenti per la Crocifissione e per la Dormitio Virginis i rinvii alle porte bronzee del duomo di Hildesheim e a quelle lignee di St. Maria im Kapitol a Colonia, nonché alle pagine miniate del Libro delle pericopi prodotto a Echternach (Bruxelles, Bibl. Royale, 9428) o del Codex Aureus dell'Escorial (Bibl., Vitr. 17; Salvini, 1964, pp. 68-69; Bertelli, 1979). Queste due scene sono state di conseguenza considerate più antiche, cioè databili entro la seconda metà del sec. 11° da gran parte della critica (de Francovich, 1955; Salvini, 1964; Romanini, 1968; Marcora, 1974; Gatti, 1977; Bertelli, 1979; Magni, 1984), mentre la scena della Presentazione al Tempio è stata considerata opera della stessa maestranza che scolpì il ciborio e quindi con quest'ultimo è stata da molti collocata nel sec. 12° (Toesca, 1943; Arslan, 1954b; Magni, 1984). A un sensibile distacco cronologico si oppone comunque il fatto che lo strato pittorico relativo alle vergini della cripta si sovrappone palesemente alle cornici di stucco di questa seconda fase (Gatti, 1980, p. 43). Resta dunque l'impressione generale di una decorazione eseguita in un unico intervallo cronologico, pur se all'interno di un cantiere colto e dinamico nella composizione e nelle aperture culturali.Pochi metri a valle del S. Pietro sorge la piccola chiesa di S. Benedetto, un edificio triconco con avancorpo quadrangolare e con paramento in pietra analogo a quello della chiesa maggiore. Ignoto anche alle fonti tardomedievali, questo edificio viene comunque generalmente associato alla ricostruzione medievale del S. Pietro, pur se considerato di qualche decennio più tardo, soprattutto per le soluzioni più evolute adottate sia nella decorazione esterna a denti di sega sia per le articolazioni interne con volta a crociera nervata nell'avancorpo e pilastri angolari mistilinei nel vano centrale, del quale resta dubbia l'originaria copertura (Magni, 1960; Caramel, 1984, pp. 36-38). Come S. Pietro, anche S. Benedetto doveva presentare al suo interno una decorazione ad affresco, della quale non restano che scarsissime tracce di dubbia identificazione (Tamborini, 1984, p. 227). Ben conservato e di estremo interesse per la rarità della tipologia è invece l'altare in muratura, decorato da affreschi raffiguranti sul lato frontale Cristo tra la Vergine e il Battista, sul lato sinistro S. Andrea e sul lato destro S. Benedetto, variamente datati tra i secc. 10° e 12° (Toesca, 1943, p. 22; Salvini, 1954, p. 635; de Francovich, 1955, pp. 368-369; Zastrow, 1984, p. 233), ma che costituiscono comunque una testimonianza preziosissima e trovano un confronto assai significativo con quelli dell'altare del S. Stefano di Bizzozzero, assegnabile anch'esso all'11° secolo.
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