Città-spettacolo
Un niente spettacolare
Il padiglione che all’Expo svizzero del 2002 ha focalizzato maggiormente l’interesse del pubblico è stato il Blur Building, progettato da Elizabeth Diller e Ricardo Scofidio. Posto sul Lago di Neuchâtel, a Yverdon-les-Bains, consiste in una piattaforma, sollevata a 20 m dal livello dell’acqua, lunga circa 100 m e larga 60, che non ha funzione alcuna se non quella di ospitare un sistema di 29.000 ugelli dai quali fuoriesce l’acqua nebulizzata del lago. Il risultato, quando il vapore acqueo si diffonde, è la produzione di una gigantesca nuvola, un puro effetto scenico che si può apprezzare sia dalla riva sia entrando direttamente all’interno, dopo essersi attrezzati con degli impermeabili. Dovendo motivare una scelta così inconsueta, i due progettisti, internazionalmente noti per il loro approccio intellettuale, che combina in sofisticate performances ricerca artistica e architettonica con le nuove tecnologie digitali, sono ricorsi a una giustificazione che sarebbe piaciuta ad Andy Warhol: «La gente che visita le mostre mondiali […] si aspetta di vedere qualcosa. Volutamente abbiamo scelto di realizzare un edificio […] in cui non c’era niente da vedere e da fare. Era un edificio che non rappresentava niente, ma era un niente spettacolare» (Marotta 2005, p. 79).
Amato dal pubblico, che presto lo ha battezzato appunto the cloud, il padiglione è stato illustrato su tutte le principali riviste di architettura, incontrando decisi consensi e non meno decise reazioni negative.
Gli estimatori – tra questi il Museum of Modern Art di New York, che ha acquisito i disegni del suo progetto per esporli accanto a opere ormai canoniche del Movimento moderno – vedono nel Blur Building un medium che, generando un’esperienza, mette in relazione il pubblico con il contesto circostante. Un po’ com’era successo con la scala mobile posta in facciata nel Centre Georges Pompidou (1977) a Parigi, progettato da Renzo Piano e Richard Rogers, dove, forse per la prima volta, il pubblico viveva la città come uno spettacolo cinetico e, nello stesso tempo, quasi posto in vetrina, diventava parte dello spettacolo stesso. Ma con un plusvalore digitale garantito questa volta dalla gestione attraverso un computer dell’intero processo: in Blur, infatti, un elaboratore gestisce la relazione tra la quantità di vapore prodotta dalla struttura e le mutevoli situazioni climatiche del contesto circostante.
I detrattori, invece, vedono nel Blur Building l’ennesima trovata di un’industria dello spettacolo che, a costo di produrre effetti sensazionali, non esita a deprivare l’architettura di quelle proprietà – consistenza, solidità, ordine e buon senso – che nel passato l’avevano caratterizzata. In questo senso, la piattaforma di Diller e Scofidio non rappresenterebbe altro che il caso emblematico, quasi la punta di un iceberg, di un fenomeno sempre più diffuso che ha trasformato gli edifici in strutture di intrattenimento e le città in gigantesche Disneyland, nelle quali, come nota il critico Luis Fernández-Galiano, dominano il disordine urbano e l’imperativo dello spettacolo: «Un ambiente fisico densamente costruito e un universo simbolico divorato dai media» (in Commodification and spectacle in architecture, 2005, p. 2). Complici di questo disordine sarebbero gli architetti dello star system, cioè quella élite di professionisti che ha acquistato notorietà internazionale durante la seconda metà degli anni Novanta del Novecento, e che non ha esitato a sacrificare i principi della disciplina alle esigenze di intrattenimento delle società capitalistiche avanzate e, poi, di quelle (come nel caso della Cina) in via di rapida affermazione sullo scacchiere internazionale.
Se il Blur Building rappresenta simbolicamente l’esito di questo processo, cioè la dissoluzione dell’edificio, l’origine del fenomeno (o almeno del suo venire alla luce manifestandosi in tutta la sua intensità) può essere rintracciata nella realizzazione del Guggenheim Museum di Bilbao (1997), opera di Frank O. Gehry. Il successo di questa struttura, cui è stato attribuito il merito del rilancio della città basca, in cerca di una nuova identità a seguito della crisi dell’industria siderurgica sulla quale in precedenza aveva basato la propria fortuna, ha generato quello che è stato efficacemente definito dal filosofo John Rajchman (1999-2000) ‘effetto Bilbao’, in base al quale sindaci e amministrazioni comunali sono spinti sempre più spesso a ricorrere alla progettazione di opere firmate dai protagonisti dello star system nel «tentativo di catturare il commercio globale, in un ambiente in cui si chiama l’architettura (o lo spettacolo dell’architettura) a svolgere un ruolo chiave» (p. 10).
L’effetto Bilbao ha provocato l’accaparramento da parte delle star straniere di buona parte dei più importanti incarichi assegnati in Italia: tanto che gli studi di Zaha Hadid, Jean Nouvel e altri, per seguire i numerosi cantieri hanno aperto delle succursali italiane. Per fare un esempio, «Progetti e concorsi» (supplemento settimanale de «Il Sole 24 Ore») nel numero del 22-27 ottobre 2007 illustra l’articolo di Mauro Salerno La carica delle star. Da Hadid a Calatrava, in Italia scoppia la moda delle grandi firme con una mappa dalla quale emerge che in quell’anno oltre 40 città italiane avevano affidato incarichi a star straniere nel tentativo di rincorrere l’effetto Bilbao. Viceversa, numerosi architetti italiani hanno avuto occasione di realizzare importanti opere al di fuori del territorio nazionale. Solo per citare alcuni nomi (oltre a Massimiliano Fuksas e Piano, da lungo tempo attivi all’estero, dove di fatto hanno iniziato la propria attività): Mario Bellini, Dante Benini, Antonio Citterio, Mario Cucinella, Italo Rota, Cino Zucchi. D’altronde, come vedremo meglio, la caratteristica principale della società dello spettacolo è la dimensione internazionale.
Città creative
Premesso che la spettacolarizzazione dell’architettura, delle città e della società non è un fenomeno di questi ultimi anni e che già negli anni Sessanta del Novecento era stato analizzato da teorici quali il situazionista Guy Debord (La société du spectacle, 1967; trad. it. 1974), quattro sembrano essere i livelli attraverso i quali è possibile rendersi conto del perché, nel primo decennio del nuovo secolo, vi sia stata una così decisa fioritura di opere spettacolari e, più in generale, si stia assistendo alla crescente teatralizzazione di intere parti di città o, addirittura, alla costruzione di città-vetrina, come è accaduto con Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. A tal fine occorrerà esaminare brevemente le teorie sullo sviluppo delle cosiddette città creative, le moderne strategie urbanistiche per interventi mirati, i tipi edilizi che nascono dall’ibridazione dei generi e, infine, il mutato punto di vista generato dalla crisi delle teorie fondate sull’autonomia disciplinare.
L’urbanista Maurizio Carta (2007) nota che oggi le città per competere nel panorama internazionale devono valorizzare e promuovere la propria identità culturale spettacolarizzandola, cioè rendendola visibile e accessibile. Solo in questo modo possono attrarre una classe creativa che, a sua volta, contribuisca a caratterizzarne lo status, quello che si chiama city brand. A rendere possibile il fenomeno è il crescente nomadismo di parti consistenti della popolazione urbana, che si muovono in relazione alle opportunità che vengono loro offerte. Sono invogliate dai voli a basso costo, dall’assottigliarsi delle barriere linguistiche, dalla facilità con cui circolano denaro e informazioni, nonché dalla delocalizzazione di molte attività che possono essere gestite ‘in remoto’ mediante attrezzature informatiche. Il risultato è che sono sempre di più i giovani che completano gli studi all’estero, i funzionari e i dirigenti d’impresa che vivono in un posto e lavorano in un altro, e gli spostamenti affrontati dalle famiglie anche per recarsi nella propria seconda casa. A questi spostamenti occorre, infine, aggiungere quelli, non meno importanti, del pendolarismo turistico: un settore in rapida crescita e che muove quote sempre più consistenti di reddito.
Che cosa spinge le persone verso una città creativa? A rispondere è Richard Lacayo (2008), critico d’arte di «Time» (nel dossier Ny-lon-kong, dal nome delle tre città, New York, Londra e Hong Kong, che, ormai ‘connesse’, guidano l’economia planetaria): attualmente, a New York, lo ‘spettacolo’ delle arti e della cultura rappresenta una gigantesca impresa, che produce molto denaro ed è una delle principali fonti di lavoro. Da qui lo sforzo di città localizzate nei luoghi più disparati del pianeta, da Dallas ad Abu Dhabi, da Roma a Pechino, di emulare questo modello vincente, non solo realizzando musei, uno più fantasmagorico dell’altro, ma anche attivando politiche in grado di attrarre l’interesse sia degli operatori sia del pubblico. Per costruire un polo di attrazione, come mostrano infatti numerosi esperimenti falliti, non basta un edificio all’altezza del Guggenheim di Bilbao: occorrono investimenti economici rilevanti che, oltre a essere favoriti da politiche mirate e coordinate, possano essere catalizzati da fiere, expo, Olimpiadi o altri importanti eventi sportivi. Da qui la gara tra le città per ospitare queste manifestazioni-volano. Si pensi, per es., all’importanza che hanno avuto le Olimpiadi invernali a Torino nel 2006 per ridisegnare alcuni quartieri urbani, affidandoli a grandi firme ma anche a giovani architetti emergenti; o alle aspettative fondiarie che si sono create per l’Expo del 2015 a Milano; o infine, ai rilevanti investimenti a Pechino per i Giochi olimpici del 2008, che sono stati, tra l’altro, l’occasione per realizzare il Terminal 3 dell’aeroporto, disegnato dallo studio Foster & partners, e l’ormai celebre stadio a forma di canestro, opera dello studio Herzog & de Meuron.
In questa competizione si innesta inoltre la gara tecnologica che mira al raggiungimento di opere da Guinness dei primati. Ad attrarre la maggiore attenzione degli investitori sono soprattutto i grattacieli, l’ultimo dei quali, la Burj Dubai (torre di Dubai; 2009, Adam Smith dello studio SOM), raggiunge gli 828 m di altezza, sopravanzando nettamente i 508 m del precedente detentore del record di altezza, la Taipei 101 (2004, studio C.Y. Lee & partners) di Taiwan. Sono però oggetto di attrazione anche gli aeroporti, le infrastrutture e le grandi attrezzature destinate al commercio e all’intrattenimento.
Lo sforzo di tendere a un surplus di creatività produce un paradosso: da un lato, le città cercano di differenziarsi il più possibile le une dalle altre poiché solo a questa condizione possono sperare di essere sufficientemente attraenti; dall’altro, attuando politiche sostanzialmente identiche, realizzano edifici, quartieri o interi settori urbani tra loro sempre più simili. A ripetersi sono spesso anche le star dell’architettura, alle quali è richiesto un oggetto firmato e immediatamente riconoscibile, più che un’opera aderente al luogo. La somiglianza tra i prodotti, inoltre, è imposta dal mercato, che tende a reiterare un repertorio di immagini giudicate vincenti. Infine vi è il crescente ruolo svolto dal back office. Le star, pressate dagli impegni di rappresentanza e promozione, dedicano sempre meno tempo ai progetti: a volte limitandosi alla stesura del concept, a volte accontentandosi di una generica supervisione. La conseguenza è che a gestire effettivamente il lavoro sono i partner o, ancora più spesso, i giovani assistenti formatisi in facoltà universitarie e postuniversitarie impregnate di spirito eclettico, i quali sono invitati a progettare ‘alla maniera di’. I risultati, anche quelli di ottima qualità, non possono non risentire di questa crescente spersonalizzazione e ossessiva ricerca di effetti spettacolari.
Esattamente come avviene per le automobili, nell’ambito delle quali è sempre più difficile distinguere tra un’utilitaria e una berlina, si registra un continuo travaso di stili e tendenze. Ciò è testimoniato, per es., dal progetto per l’ampliamento del Teatro Mariinskij (2003) a San Pietroburgo del minimalista Dominique Perrault, che ricorda, tuttavia, le sperimentazioni sulle geometrie complesse delle correnti d’avanguardia; dal Laban Dance Centre (2002), nel quartiere londinese di Deptford, di Herzog & de Meuron, la cui organizzazione spaziale ha più di un debito nei confronti di Rem Koolhaas; dal Kursaal (1999) di San Sebastián, in Spagna, opera nella quale il ‘tradizionalista’ Rafael Moneo ha puntato su una inconsueta (almeno per lui) architettura trasparente.
Nuove strategie urbanistiche
Il secondo livello di analisi è relativo alle strategie urbanistiche odierne, nate dalla crisi dei modelli di pianificazione tradizionali. Un crescente numero di amministrazioni comunali si è infatti accorto che la città non può più essere gestita attraverso piani quantitativi, in cui a dettare le regole siano gli astratti standard funzionali. Per invogliare gli investitori privati a riqualificare le aree urbane degradate o abbandonate (vecchi insediamenti industriali, aree portuali, vuoti urbani) occorrono progetti brillanti, appariscenti, che stimolino l’immaginario collettivo. Luoghi, quindi, altamente spettacolari, possibilmente individuati per qualche emergenza architettonica che li caratterizzi. Un po’ come è successo per le aree dei docks di Londra, per l’espansione verso il mare di Barcellona o nei quartieri recuperati grazie agli effetti a catena indotti dalla realizzazione – o anche della sola previsione di realizzazione – di opere significative e di attraenti cittadelle tematiche. Si pensi, per es., alla Ciutat de les arts i les ciènces (2004), disegnata per Valencia da Santiago Calatrava, o alla Città dei giovani prevista nel quartiere Ostiense a Roma, progettata nel 2003 da Koolhaas.
Complici di questa strategia sono state le tecniche di project financing che hanno permesso ad amministrazioni spesso prive di adeguati mezzi finanziari di realizzare opere pubbliche di pregio in cambio della cessione della gestione di servizi (da qui l’imperativo dell’appeal sul pubblico della struttura realizzata, anche a costo di ricorrere a trovate rozze e superficiali) e di concessioni di cubature residenziali o direzionali. Ciò ha portato, oltre a innegabili benefici per l’immagine urbana, alla riqualificazione dei quartieri che, a seguito di queste opere di recupero spettacolare, hanno visto aumentare fortemente i valori fondiari, con conseguente espulsione dei ceti economicamente più deboli che li occupavano. Ha determinato anche l’uso strumentale delle star da parte dei costruttori, per ottenere l’approvazione di progetti che, in assenza di ‘firme’ così prestigiose, avrebbero potuto subire veti o ritardi: si pensi all’ideazione del complesso CityLife a Milano iniziata nel 2004, con tre grattacieli progettati nello stesso anno da altrettanti protagonisti del dibattito architettonico, Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind; o, a Roma, all’edificio residenziale dell’EUR ideato nel 2006 da Piano, che sorgerà al posto del Ministero delle Finanze disegnato nel 1957 da Cesare Ligini, a fianco del Centro congressi Italia ideato nel 1998 da M. e Doriana Fuksas.
A caratterizzare in senso spettacolare intere parti di numerose città creative provvedono anche gli appuntamenti periodici che attirano il pubblico internazionale: eventi legati alla moda, all’arredamento o ai libri, nonché biennali, triennali e quadriennali d’arte. Alcuni eventi (come il Fuori Salone a latere del Salone del mobile di Milano) hanno contribuito a riqualificare intere aree urbane degradate dopo la dismissione di precedenti attività industriali. Altri, come la Biennale di Venezia o la Fiera d’arte a Basilea (Art Basel), sono diventati appuntamenti obbligati per il numeroso e composito mondo che ruota attorno agli eventi d’arte.
Indistinzione, commistione
Il terzo livello di analisi concerne l’ibridazione dei generi. Oggi, come ha notato Rick Poynor (in Commodification and spectacle in architecture, 2005, p. 36), la parola chiave è blurring, con il senso di indistinzione o, meglio, di commistione. Da qui la nascita di nuovi generi, quali l’edutainment e l’infotainment, che sovvertono le tipologie monofunzionali consegnateci dalla tradizione: la galleria d’arte, il negozio, la bottega. Il centro commerciale ospita così spazi per il gioco e per l’apprendimento, il museo è strutturato con le stesse modalità di un centro commerciale (I musei dell’iperconsumo, 2003), mentre città quali Las Vegas, originariamente organizzate in funzione del gioco d’azzardo e delle esigenze di un pubblico adulto, si aprono alle famiglie, offrendo attrazioni alla Disneyland oppure, come il progetto Guggenheim di cui abbiamo parlato precedentemente, la contemplazione di importanti opere d’arte.
L’obiettivo di tutte queste strutture è ampliare il target dei possibili utenti, prolungare il tempo medio di visita e le occasioni di spesa, e infine quello che, con una brutta espressione, si chiama fidelizzazione del cliente, moltiplicando il numero degli accessi attraverso una pluralità di offerte che si susseguono nell’arco dell’anno. Di qui il successo, anche in termini commerciali, di strutture quali l’Auditorium Parco della musica di Roma (2002), progettato nel 1994 da Piano, che con i suoi negozi, bar e ristoranti, nonché con una programmazione articolata degli eventi, è diventato un punto di riferimento urbano, mentre se fosse stato concepito come uno spazio esclusivamente destinato alla musica avrebbe funzionato solo in determinate occasioni e avrebbe, per di più, drenato innumerevoli risorse pubbliche. Successo che ha contribuito a rilanciare il quartiere circostante, trasformando in un certo senso in una enclave privilegiata, a causa della sua vicinanza all’Auditorium, il Villaggio olimpico, l’adiacente (e degradato) complesso di case popolari disegnato nel 1957 da Vittorio Cafiero, Adalberto Libera, Amedeo Luccichenti, Vincenzo Monaco e Luigi Moretti per le Olimpiadi del 1960.
Al blurring urbano si può ascrivere l’introduzione sulle facciate degli edifici di megaschermi pubblicitari. In alcune aree urbane, come lungo la Strip di Las Vegas, a Times Square a New York o nei quartieri di Shinjuku e Shibuya a Tokyo, questo fenomeno ha portato negli ultimi anni a giochi di luce e a effetti scenici di grande interesse, tanto che diversi commentatori hanno parlato di ‘sublime urbano’ (Il sublime urbano, 2007). Di contro, per gli operatori immobiliari è diventato più redditizio realizzare sui principali nodi di traffico pareti cieche destinate alla comunicazione pubblicitaria, piuttosto che ambienti aerati e illuminati naturalmente mediante finestre. Sul tema della commistione tra segnali pubblicitari e architettura, con il fine di introdurre in modo non episodico schermi e segnali nel disegno dell’edificio, hanno lavorato architetti come Koolhaas, Bernard Tschumi, Hadid, producendo interessanti progetti, per lo più rimasti sulla carta. Maggior fortuna hanno avuto la KPN Telecom Office Tower a Rotterdam (2000) di Piano e la Kunsthaus a Graz (2003) di Peter Cook e Colin Fournier. In entrambi gli edifici, un sistema di luci inserite organicamente nel disegno della facciata li trasforma in giganteschi schermi a bassa risoluzione in grado di trasmettere informazioni. Analogamente, nel tentativo di connettere l’architettura della materia a quella della luce e dei pixel, che può attingere a un immaginario virtuale, Gianni Ranaulo ha teorizzato la light architecture, proponendosi «di unire queste due dimensioni per mantenere un’unità di percezione del reale e quindi creare una unica dimensione, la ‘stereorealtà’» (Ranaulo 2001, quarta di copertina).
Promotori della spettacolarizzazione urbana sono anche gli stilisti, con la realizzazione di opere destinate a ospitare le proprie attività e con la promozione di eventi artistici. Per es., Prada ha battezzato i propri negozi con il nome Epicenters, e li ha presentati, nel comunicato stampa pubblicato in occasione dell’apertura dell’Epicenter di Los Angeles a Beverly Hills (2004), come un’opportunità «per ridefinire la cultura contemporanea e interpretare l’idea di shopping in modo innovativo e sperimentale». Per progettare il negozio nel quartiere Soho di New York (2001) e quello di Beverly Hills, Prada ha chiamato Koolhaas, il quale ha affermato che si tratta di luoghi che danno alla gente la possibilità di non fare compere, di spazi disponibili pensati per bilanciare l’appropriazione sempre più aggressiva da parte dei privati degli spazi collettivi della città. Vi è in queste affermazioni, ovviamente, molta retorica pubblicitaria; vi è anche un certo snobismo nella scelta di non mettere un’insegna con la scritta Prada sulla facciata del punto vendita di Beverly Hills, di evitare ogni soluzione di continuità tra interno ed esterno, abolendo le porte di ingresso e sostituendole con una lama d’aria, nonché di tappezzare alcune pareti interne con immagini prese dalla vita di tutti i giorni. Sempre da Prada è venuto a Koolhaas l’incarico (2008) di progettare il Museo d’arte contemporanea della Fondazione Prada a Milano, con una superficie complessiva di circa 18.000 m2 che lo porrà in competizione con i principali musei cittadini e con gli altri due che sono in programma, da realizzarsi in concomitanza con l’Expo del 2015: il Museo d’arte contemporanea nell’area di CityLife, disegnato da Libeskind (progetto del 2008), e il Museo dell’industria e del lavoro nell’area dell’ex fabbrica Falck a Sesto San Giovanni, progettato da Piano (2006). L’obiettivo è trasformare Milano in una città che attragga flussi turistici e che sia al centro dei circuiti internazionali, come ha affermato Miuccia Prada in un’intervista (Il museo veste Prada, «L’Espresso», 2008, 16, pp. 98-102).
Lo stilista Giorgio Armani ha sviluppato una propria linea di arredamento con la quale punta a valorizzare alberghi estremamente lussuosi e residenze ubicate nei più visibili landmarks architettonici (spesso grattacieli) delle capitali internazionali, rendendoli appetibili a un pubblico cosmopolita e facoltoso. E la maggior parte degli stilisti, per rendere sempre più appariscenti i propri negozi, ricorre al disegno dei maggiori architetti, da Fuksas a David Chipperfield, da Gehry a Hadid, da Tadao Ando a Kazuyo Sejima.
La realizzazione di queste strutture di vendita ha assunto caratteri particolarmente spettacolari a Tokyo, una città in cui la sperimentazione è permessa da un regolamento edilizio tollerante e da un rapidissimo ricambio delle costruzioni, con una vita media degli edifici di poche decine di anni. Quattro opere ci sembrano spiccare: a Ginza, la Maison Hermès (2001) di Piano e il Tod’s Omotesando Building (2004) e il Mikimoto Building (2005) di Toyo Ito; ad Aoyama, l’Epicenter Prada (2003) di Herzog & de Meuron. Il primo edificio, le cui pareti sono realizzate in un vetrocemento dai riflessi argentei, di sera è una suggestiva lanterna urbana. Nel Tod’s Omotesando Building l’effetto spettacolare è ottenuto intrecciando travi e pilastri come se fossero rami di un albero; inoltre Ito, per sottrarre pesantezza al cemento, ha fatto ricorso all’artificio di porre i vetri a filo di facciata, facendo apparire la struttura come una foglia sottilissima grigio-argentata che dialoga con le luci della metropoli. Nel Mikimoto Building, a far scattare la curiosità sono i fori irregolari che si susseguono senza un preciso disegno e che comunicano l’idea di un oggetto ibrido in bilico tra artificio e natura, mentre la finitura ha un aspetto che ricorda le perle vendute all’interno del negozio. Nell’Epicenter Prada, Herzog & de Meuron hanno realizzato un oggetto inconsueto, caratterizzato da una conformazione a rombi che all’esterno appare estremamente leggera e all’interno presenta una coinvolgente struttura spaziale.
Un nuovo approccio
Il quarto livello di analisi è propriamente disciplinare. Da qualche anno il pensiero architettonico ha abbandonato le ricerche linguistiche, spesso autoreferenziali, che l’avevano caratterizzato nel periodo precedente, optando per un maggiore coinvolgimento del pubblico. Ciò ha portato a un’innegabile spettacolarizzazione e, nei casi peggiori, a un’escalation di effetti speciali mirati ad attirare l’attenzione. Di conseguenza, il progetto tende sempre più a esprimere, attraverso un concept facilmente comunicabile, una filosofia di vita estetizzata che, più che essere concretamente perseguita, si offre come una proiezione metaforica, un sogno. Predominanti sembrano essere quindi gli aspetti comunicativi e subliminali, piuttosto che, com’era avvenuto con il Movimento moderno, quelli tecnici, funzionali e sociali.
È anche vero però che, privilegiando l’interazione con il pubblico e il suo immaginario, gli architetti hanno potuto attivare nuove strategie, lavorando con tecnologie digitali, utilizzando materiali originali e sperimentando innovative forme di organizzazione dello spazio. La ricerca architettonica, godendo di questa straordinaria libertà, ha ripudiato «stili, abitudini inerti, frasi fatte, modi codificati» (B. Zevi, Storia e controstoria dell’architettura in Italia, 1997, p. 730), nonché i più o meno paludati riferimenti storici della stagione postmoderna, per mettere a punto una prosa adeguata ai tempi. E così, grazie a questo processo di radicale rifondazione della scrittura architettonica, sono state poste le premesse per la realizzazione di opere di fascino e intensità non comuni, che hanno portato, a loro volta, all’apertura di una fase nuova della costruzione della metropoli. E basta sfogliare qualcuno dei numerosi libri che in questi anni sono stati pubblicati per illustrare quello che è stato individuato come un nuovo ‘rinascimento architettonico’, per rendersi conto dell’ampiezza del fenomeno: sia nei numeri delle costruzioni sia nel livello qualitativo. Inoltre, e questo è uno degli aspetti più significativi, l’architettura, che in precedenza come disciplina interessava solo un ristretto numero di addetti ai lavori, grazie anche alla sua esuberante dimensione spettacolare, comincia a essere argomento di discussione e di interesse pubblico. A testimoniarlo, oltre al fatto che molti di questi libri sono pubblicati da case editrici che puntano alla grande diffusione internazionale, è il sempre maggiore interesse di giornali e riviste a grande tiratura, che si occupano con rinnovata frequenza dei nuovi edifici, intervistano gli architetti più noti e scrivono cover stories sulle loro opere. E anche le numerose polemiche intorno alla costruzione di nuove opere d’architettura all’interno dei contesti storici da parte di personaggi noti al grande pubblico, e le prese di posizione ambientaliste contro quelli che più o meno impropriamente sono bollati con il nome di ‘ecomostri’ contribuiscono a tener vivo l’interesse su queste vicende. È quel che è successo con l’Auditorium di Ravello di Oscar Niemeyer, inaugurato nel 2009, accusato di compromettere il delicato ecosistema locale; con il grattacielo Bancaintesa-San Paolo a Torino, disegnato nel 2006 da Piano, accusato (nella prima versione del progetto) di superare la Mole Antonelliana, che è ancor oggi il più alto edificio cittadino; e con il complesso della piazza del Terzo millennio a Pisa, progettato nel 2005 dallo studio Dante O. Benini & partners, il cui edificio principale non solo dovrebbe avere la stessa altezza della celebre Torre, 57 m, ma inoltre, apparendo analogamente inclinato, grazie a un gioco di riflessi, dovrebbe costituire una sorta di doppio della torre stessa.
Costretti, proprio per il forte impatto comunicativo delle loro opere, a confrontarsi continuamente con i media, i principali studi di architettura, per avere via libera con i loro progetti, ricorrono oggi abitualmente a esperti di pubbliche relazioni. Questi suggeriscono, caso per caso, quale sia la migliore strategia per imporre il prodotto e superare gli innumerevoli ostacoli che potrebbero ritardare o impedirne l’attuazione. A supportare queste vere e proprie strategie di marketing provvedono la realizzazione, mediante l’impiego del computer, di immagini particolarmente attraenti – i renderings – nei quali l’edificio appare quasi sempre smaterializzato e poco incombente, nonché l’invenzione di nomi suggestivi e di riferimenti accattivanti.
Nel concorso (2002) per la ricostruzione dell’area di Ground Zero a New York, indetto a seguito del crollo delle Twin Towers avvenuto l’11 settembre 2001, il successo del progetto di Libeskind (che peraltro non gli ha garantito il controllo su quello finale) è stato probabilmente determinato dalla studiata somiglianza dello skyline del più alto degli edifici previsti con quello della Statua della Libertà, che in passato accoglieva con la sua confortante immagine le navi che trasportavano gli emigranti; similitudine esaltata da un riuscito rendering della baia, nel quale si vedevano entrambi. E anche dall’impatto simbolico dell’altezza in piedi della costruzione: 1776, lo stesso della data della Dichiarazione d’indipendenza americana (Libeskind 2004, p. 248).
La vittoria del progetto di Fuksas nel concorso per il nuovo Centro congressi all’EUR è stata da molti attribuita alla felicità di un’immagine – la celebre Nuvola – che suggeriva trasparenza e leggerezza, e anche all’accorta decisione di non presentare, nella seconda fase del concorso, un vero e proprio progetto definitivo (come invece avevano fatto gli altri concorrenti, e in particolare lo studio Rogers, che aveva proposto il lavoro forse tecnologicamente più convincente), ma di insistere sul potere suggestivo dell’immagine, attraverso un grande plastico-scultura.
E Piano, che ama descrivere il suo organizzato studio internazionale come una bottega rinascimentale, ha superato le critiche alle inconsuete forme delle tre sale dell’Auditorium a Roma accostandole alle cupole delle chiese della Roma barocca, grazie al fatto di aver utilizzato il piombo come materiale di copertura.
Prospettive
In quali termini si può pensare all’architettura e alla città del prossimo futuro? Premettiamo che è molto difficile rispondere a questa domanda, se non altro per il fatto che il futuro ama sfuggire a ogni previsione, soprattutto a quelle degli esperti. Però è possibile immaginare, in relazione agli orientamenti attuali, che la spettacolarizzazione delle scene metropolitane continuerà, anche se sarà probabilmente perseguita attraverso strategie più morbide e sofisticate. Tale spettacolarizzazione, del resto, non implica necessariamente il ricorso a un vocabolario formale particolarmente appariscente. Tanto più che l’estetica decostruzionista, basata sul ricorso a geometrie disarticolate e in stato di precario equilibrio, sembra oggi definitivamente in crisi, così come in crisi sembrano essere le forme ‘bloboidali’ gestite attraverso l’uso dei computer e ispirate alla morfogenesi, ai frattali e, in genere, alle complesse geometrie organiche. Di contro appaiono vincenti le strategie che puntano a una messa in scena discreta, se non neocalvinista.
Koolhaas, per es., sempre in anticipo nel cogliere i segni dei tempi, dopo anni di manifesti fondati sull’estetica del caos e della contraddizione, sta puntando decisamente verso il recupero delle forme primarie. Egli sostiene che l’inizio del nuovo secolo, nel disperato tentativo di differenziare un edificio dall’altro, ha prodotto una straordinaria quantità di forme stravaganti; paradossalmente il risultato è uno spazio pubblico monotono, dove ogni differenza affoga all’interno di un mare di architetture senza senso. Invece i suoi più recenti progetti puntano a ottenere una forma architettonica che si distingua, non creando un’altra immagine bizzarra ma promuovendo il recupero della forma pura. E una forma semplice e dal deciso impatto urbano hanno la Casa da música (2005) realizzata a Porto, la cui massa compatta ricorda un monolite, e la sede della compagnia televisiva CCTV (2008) a Pechino, una gigantesca ‘O’ composta da due torri prismatiche inclinate che si connettono alla base e al vertice.
Protagonisti del ritorno all’ordine sono però i giapponesi (Gregory 2007). I portavoce della nuova tendenza, che attinge a una mai sopita tradizione minimalista propria del Sol Levante, sono Sejima e Ryue Nishizawa, che si sono uniti nel 1995 nello studio SANAA. Delle loro sempre più numerose opere affascinano il carattere quasi ideogrammatico, l’assenza di apparati tecnologici in vista, la purezza del disegno, che fa ricorso al montaggio per accostamento di figure geometriche primarie. Nel 21st Century Museum of Contemporary Art (2004) a Kanazawa in Giappone, il volume è smaterializzato dall’uso di grandi vetrate, mentre il New Museum of Contemporary Art (2007) a New York assomiglia a un insieme di scatole poste distrattamente una sopra l’altra in uno stato di precario equilibrio; caratteristica, questa, che lo ha trasformato in uno dei principali punti di riferimento dell’East Village. A essere apprezzata in questo edificio, oltre all’elementarità della forma, è anche la volontà di una riduzione dello spazio ai suoi elementi essenziali, che emerge dal biancore delle pareti e fa pensare al tentativo di sfuggire alla produzione di oggetti ultradisegnati e superflui delle grandi firme. In questo senso il museo, come la gran parte della produzione di Sejima e Nishizawa, ricorda i prodotti della catena commerciale Muji, che sulla semplicità, il rigore e l’azzeramento linguistico, ma soprattutto sul paradosso di un logo che si presenta con i caratteri del no logo, sta costruendo la propria fortuna commerciale.
Una seconda previsione è che la spettacolarizzazione diventerà sempre più pervasiva. In un mondo globale in cui le città lottano, sempre più accanitamente, per attrarre investimenti e flussi economici, ogni caratteristica giudicata positiva, esattamente come accade per le merci in vetrina, sarà esaltata e ‘messa in scena’. E a questa regola non si sottrarranno neanche i luoghi di culto, per i quali, come lascia presagire il successo della chiesa dedicata a Padre Pio (2004) a San Giovanni Rotondo, progettata da Piano, e l’incremento del numero dei pellegrini alla Mecca grazie al moltiplicarsi dei voli low cost, pare preannunciarsi un futuro in cui architettura e investimenti immobiliari giocheranno un ruolo crescente.
Vi è infine il paradosso, spesso trascurato dai critici che si scagliano contro la società dello spettacolo, che anche chi lotta per il mantenimento dello status quo e per la conservazione dell’architettura e delle tradizioni locali può contribuire attivamente al diffondersi degli aspetti peggiori legati alla spettacolarizzazione. Accanto a quello dell’ipermoderno, del quale abbiamo sinora parlato, vi è infatti lo spettacolo dell’ipertradizionale. Come dimostra la crescente teatralizzazione dei centri storici o dei luoghi di grande interesse naturalistico, diventati immensi scenari, più o meno fasulli, a uso turistico. Si pensi alle principali città d’arte italiane che, complici le locali Soprintendenze, sono state ridotte a presepi di un passato che non è mai esistito, grazie a ricostruzioni totalmente inventate, piani del colore, arredi urbani antichizzati. O anche alla creazione ex novo di città in stile, quali la statunitense Celebration in Florida, realizzata tra il 1996 e il 2005 su progetto dello studio Cooper, Robertson & partners (insieme a Robert A.M. Stern) per conto della Disney (l’investimento totale è stimato in 2,5 miliardi di dollari, per un’area di circa 20 km2 e 9000 abitanti, che in prospettiva dovrebbero arrivare a 20.000), o la britannica Poundbury (2500 abitazioni e circa 6000 abitanti), realizzata a partire dal 1993 su progetto di Léon Krier, uno degli ispiratori delle visioni neoconservatrici del principe Carlo d’Inghilterra. O, infine, ai villaggi per i nuovi ricchi che, sempre più numerosi, vengono realizzati in Cina sulla falsariga dei modelli dell’edilizia tradizionale veneziana o delle antiche città mercantili britanniche e olandesi. Contro questa schiavitù stilistica, in cui a predominare è il kitsch, appaiono in una luce positiva la libertà e la problematicità delle migliori ricerche contemporanee. Come testimoniano le molte città europee – si pensi, tra tutte, a Londra – che in questi ultimi anni sono state oggetto di imponenti lavori di trasformazione, o di città emergenti come Shanghai o Dubai che, interpretando in senso contemporaneo il tema della città-spettacolo, si stanno ponendo come le metropoli mondiali del prossimo futuro.
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