Città d'arte vecchie e nuove: le destinazioni del turismo culturale
A partire dagli anni Ottanta, il principale obiettivo della maggior parte dei progetti di valorizzazione culturale promossi alla scala urbana nel nostro Paese sembra essere stato quello di promuovere l’incremento dei flussi turistici in entrata. Fonte di reddito nel breve periodo e attivatore di effetti moltiplicatori sulla ricchezza a fronte di investimenti più limitati rispetto ad altri settori, il turismo, in particolare quello a base culturale, è stato visto spesso come una strategia di uscita dai cicli di crisi, sia da parte dei grandi centri di tradizione industriale, sia da parte dei piccoli e medi centri che caratterizzano la fitta trama urbana della penisola. La spinta verso politiche di rifunzionalizzazione dell’economia e degli spazi urbani a fini turistici è però il risultato di una serie complessa di fattori fra loro connessi.
Il Paese ha vissuto, pur con un certo ritardo rispetto ad altre economie capitalistiche occidentali, un tipico processo a ‘fisarmonica’: prima un’urbanizzazione diffusa attorno ai maggiori centri industriali del Paese, poi l’abbandono dei centri storici da parte delle popolazioni residenti in cerca di standard di vita qualitativi più elevati nei comuni delle cinture metropolitane e, infine, un più tardivo processo di gentrificazione, cioè di riscoperta e riuso della città storica da parte di popolazioni di ceto medio-alto. Le scelte di governo di questo processo da parte delle amministrazioni cittadine si sono spesso concentrate, in particolare per i poli industriali maggiori, su grandi opere di riqualificazione dei vuoti urbani e delle aree dismesse e su investimenti in eventi culturali, artistici e ricreativi. La spinta è stata dunque verso una transizione dall’economia industriale all’economia dei servizi e più in particolare di quelli alla persona. Sebbene non sia possibile delineare un’unica traiettoria di sviluppo nelle scelte di governo urbano alla scala nazionale, si possono però identificare tratti comuni del fenomeno di progressiva trasformazione di alcuni tra i maggiori centri industriali del Paese (in particolare Torino e Genova, in quanto esempi emblematici) in città d’arte. Il processo di riqualificazione dell’immagine di questi centri come nuove potenziali destinazioni di turismo culturale è stato condotto in parallelo rispetto alle operazioni di bonifica dei siti industriali ed è stato interpretato come la strada migliore da percorrere nella ricerca di nuove forme di sviluppo territoriale.
Dopo aver introdotto il tema del turismo culturale come fattore di sviluppo territoriale, si prenderà in esame l’evoluzione del turismo culturale urbano in Italia, con particolare attenzione per le politiche pubbliche a sostegno del settore. Verranno analizzate sia le strategie di diversificazione funzionale dei grandi centri urbani, sia le scelte normative e gli investimenti effettuati alla scala regionale, nel tentativo di delineare un quadro evolutivo del settore il più possibile esaustivo.
A chi si avvicini per la prima volta alle tematiche relative al turismo culturale risulterà subito evidente la difficoltà di attribuire a questo binomio una definizione univoca, e ciò per una duplice ambiguità che investe sia il termine turismo sia il concetto di cultura, dai confini alquanto flessibili. Se a ciò si aggiunge il parziale disaccordo fra gli operatori dell’industria turistica e la letteratura di tipo accademico che si occupa del tema, il quadro apparirà quanto mai eterogeneo, quando non addirittura confuso.
L’Organizzazione mondiale del turismo (OMT) definisce il turismo culturale come un movimento di persone che si spostano essenzialmente per ragioni di tipo culturale, come i viaggi studio, i tour artistici, la partecipazione a festival e ad altri eventi, la visita a luoghi storici e a monumenti, per studiare la natura, il folclore, l’arte o la religione (1985). Questa definizione mette in luce sia la stretta connessione fra turismo e patrimonio culturale sia il definitivo superamento, anche ai fini turistici, di una concezione del bene culturale legata soltanto al valore artistico dei manufatti, a favore di una visione molto più ampia che include tutto ciò che permette di conservare la memoria delle consuetudini e delle trasformazioni sociali, economiche e artistiche di una comunità o di un popolo (Magnani 2004).
Occorre però distinguere nettamente fra turismo culturale e turismo patrimoniale; infatti, mentre quest’ultimo è connesso in buona parte a quello che la letteratura anglosassone definisce heritage (Howard 2003), il turismo contemporaneo non è attratto dal patrimonio culturale in sé, ma dai prodotti culturali che vengono organizzati attorno a esso (Battilani 2007). La prima implicazione di questo ragionamento è che, per diventare una meta turistica, una città deve organizzare il proprio patrimonio culturale, o meglio la sua fruizione, in forma di prodotti culturali. I beni culturali devono cioè essere trasformati in qualcosa che consenta al turista di vivere un’esperienza che possa essere ricordata.
Il patrimonio culturale è per l’Europa uno dei più antichi e importanti fattori che generano turismo (Thorburn 1986) e sta sempre più assumendo un ruolo centrale nelle politiche di sviluppo locale (Dallari 2007). La crescente integrazione della cultura come elemento di base nel consumo turistico di massa (e non solo) costituisce per molti autori il segno di un ‘nuovo turismo’, diverso per qualità e quantità da quello culturale così come era inteso all’epoca del grand tour.
In altre parole, si può dire che il patrimonio culturale (o gli eventi culturali e artistici) rappresenta una risorsa, ma, affinché si attivino opportunità per il turismo culturale, occorrono appositi investimenti in capitale fisico e umano. Le due condizioni per il successo del turismo culturale sono, quindi, da un lato la valorizzazione e la conservazione del patrimonio culturale e, dall’altro, la realizzazione di investimenti per la costruzione di prodotti culturali rivolti al turista, nel rispetto delle esigenze della comunità locale. Qualsiasi sia l’oggetto delle iniziative promosse dagli enti locali (riqualificazione e riuso di aree dismesse, rifunzionalizzazione di edifici a scopo culturale, organizzazione di eventi e iniziative culturali ecc.), il fine ultimo, anche quando non espressamente esplicito, è quello di migliorare l’immagine della città per gli utenti, che nel caso del turismo sono soprattutto esterni.
Il turismo può essere letto anche come una delle modalità attraverso le quali il mercato crea quelle risorse di cui la cultura è, per sua natura, deficitaria. L’incremento, in occasione di viaggi e vacanze, del consumo di arte e più in generale di cultura, fa sì che proprio su questi due settori si concentrino le maggiori aspettative di sviluppo, sia economico sia sociale (Candela, Scorcu 2004), giocate sui valori e sui processi di costruzione del patrimonio (Dallari 2004), dove emerge un binomio turismo-patrimonio culturale tangibile e intangibile, antico (quello legato al grand tour) e attualissimo (quello legato alla fruizione collettiva e di massa dei luoghi) e dove si confrontano tre paradigmi d’interpretazione turistica differenti (fig. 1), costituiti dall’heritage tourism (Ashworth 2008), dal cultural tourism e dal creative tourism (Cultural attractions and European tourism, 2001; OCDE 2009).
Il turismo culturale, se inserito nell’ottica della sostenibilità, si propone quindi di bilanciare il bisogno della popolazione locale di guadagni a breve termine con gli obiettivi a più lungo termine di preservare, proteggere e promuovere le risorse storiche e culturali all’interno dell’industria turistica. Se il patrimonio culturale consiste in ciò che si ‘eredita’ e che ha ottenuto un’attribuzione di valore nel corso del tempo, il patrimonio come risorsa è, invece, una costruzione basata sull’instaurarsi di nuove relazioni fra gli attori del territorio e fra questi e i visitatori (Greffe 2002). Il turismo culturale riguarda quindi, oltre l’attività artistica o culturale in senso stretto, anche l’insieme dell’organizzazione turistica della destinazione e la sua fruibilità.
Da quanto fin qui delineato, risulta evidente che se si cerca di misurare la consistenza dimensionale del fenomeno, si incontrano alcune ovvie difficoltà connesse all’ampiezza che si vuole dare al concetto di cultura (Friel, in «Newsletter», 2010). Non è questa la sede per una trattazione sull’affidabilità del dato statistico, ma va comunque sottolineato che le fonti di dati utilizzabili consentono di tracciare un quadro decisamente parziale del fenomeno. È quindi possibile ipotizzare che vi sia una generale sottostima dei flussi di turismo culturale nel nostro Paese.
A livello internazionale, l’OMT/UNWTO (United Nations World Tourism Organization) stima che le vacanze con finalità culturali siano passate dal 37% del 1995 al 40% del 2004, per raggiungere quota 42% nel 2009. Questi dati giustificano in generale le scelte di investimento nel settore, in particolare da parte dei centri urbani, che restano le destinazioni privilegiate dei visitatori culturali (37 milioni di arrivi per le città d’arte italiane nel 2011, pari al 35% del totale, dato stabile nel corso dell’ultimo quinquennio, nonostante la crisi congiunturale), come conferma anche la consistenza ricettiva delle città d’arte, seconde per numero di posti letto soltanto alle destinazioni balneari della penisola.
Rispetto all’offerta ricettiva, le mete storiche del turismo culturale italiano mantengono la propria supremazia: Roma ha una capacità di quasi 150.000 posti letto, seguita da Venezia, con 118.000, e da Milano, con 57.000, che supera Firenze, con 42.000. Quest’ultimo dato non deve sorprendere: l’offerta ricettiva fiorentina è caratterizzata da tempo da un processo di diffusione verso le altre aree della Toscana, mentre la maggiore offerta della città lombarda è giustificata dalle sue funzioni amministrative e di business. È comunque significativo che, secondo uno studio dell’Osservatorio nazionale del turismo, Roma, Venezia e Milano coprano da sole il 10% dell’offerta ricettiva italiana (ONT 2013). Questo dato conferma l’evoluzione nei consumi turistici, non solo quelli nel settore di stampo culturale. In generale, la riduzione del periodo della vacanza sta avendo i suoi effetti anche sull’infrastrutturazione delle destinazioni, oltre che riguardo alla loro distribuzione sul territorio italiano. Non sorprende infatti che nell’arco dell’ultimo ventennio ci sia stata una progressiva erosione di quote di arrivi e presenze da parte delle località di interesse storico e artistico (attualmente il 36% degli arrivi totali in Italia) rispetto a quelle del comparto balneare. La domanda di turismo culturale è cresciuta del 10% in termini di arrivi e del 14% in termini di presenze nell’ultimo quinquennio, e sulla base di quanto riportato dagli studi di settore il 61% delle presenze totali delle località d’arte è rappresentato da stranieri. Nel medio periodo, e prima della crisi, il turismo culturale è stato quello che ha registrato i tassi di crescita più elevati (25,7% di incremento negli arrivi fino al 2007 e 20,9% delle presenze) e che per le sue caratteristiche intrinseche (elevato grado di internazionalità, ridotta permanenza media, basso peso della stagionalità) ha influito sulle scelte di competitività di molti centri urbani (ONT 2013).
Il Paese, forte dei suoi ‘giacimenti’ culturali, ha mantenuto quindi nel corso del tempo la sua immagine di destinazione culturale, mentre sta progressivamente perdendo il suo appeal rispetto alla classica vacanza al mare, in particolare per quanto concerne i flussi di visitatori provenienti dall’estero. È difficile poter fornire una spiegazione univoca dei fenomeni territoriali, soprattutto di quelli che, come il turismo, sono profondamente connessi all’evoluzione degli stili di vita e alle scelte dei consumatori. Si può dire che se da un lato negli ultimi vent’anni è cambiato il profilo della domanda di turismo culturale, con visitatori che viaggiano di più ma per un tempo più breve, che hanno una capacità di spesa maggiore e che, viaggiando anche al di fuori dei picchi stagionali, hanno un impatto minore sulle destinazioni, dall’altro è anche possibile ipotizzare che su questa trasformazione progressiva abbiano inciso le scelte di riqualificazione di molte destinazioni urbane prima non contemplate come appetibili per il turismo culturale. Il gioco dello sviluppo territoriale dipende quindi sempre dall’interazione fra attori diversi.
Dalle periodiche analisi di mercato effettuate nel Paese, come quelle svolte dall’Agenzia nazionale per il turismo (ENIT), dall’Osservatorio nazionale del turismo (ONT) e da altri osservatori regionali, emerge chiaramente che, sebbene il comparto turistico abbia avuto negli ultimi anni un andamento altalenante, la domanda di turismo culturale ha dimostrato di essere in assoluto la più dinamica.
Le principali città d’arte nazionali (Roma, Firenze, Venezia, ma anche Ravenna e Milano) vivono dunque, seppure con qualche timore, una stagione di ripresa dei flussi, anche se i centri minori continuano a suscitare un crescente interesse sui mercati, diventando sempre più competitivi. Infatti i turisti hanno imparato a scegliere località meno conosciute, estranee ai tour tradizionali (Osservatorio turistico regionale dell’Emilia-Romagna 2005-2011). Non è solo questione di un cambiamento di gusti, ma anche del notevole impulso alla crescita dato dagli investimenti per lo sviluppo del turismo alla scala locale, che hanno consentito ai piccoli centri di valorizzare le loro risorse, favoriti in parte dal boom di strutture extralberghiere (agriturismi, country houses e bed & breakfast, anche noti come B&B), che attirano una quantità sempre maggiore di turisti fuori dagli itinerari classici.
Certo, i viaggi della ‘cultura’ hanno ancora un carattere parzialmente elitario: il cliente o turista tipo è una persona adulta e di classe sociale medio-alta, sia dal punto di vista economico sia per il livello culturale. Sono di solito viaggi brevi, ma sempre più caratterizzati da esperienze e attività molteplici, che comprendono l’arte, la cultura, ma anche la gastronomia e gli stili di vita dei residenti dei luoghi visitati. Meta preferenziale di questa fascia di turisti è la città come concentrato di arte e cultura e luogo emblematico in cui si riflettono gli stili di vita delle popolazioni. In primo piano nel dibattito legato all’evoluzione della pratica turistica, le città diventano così dei veri e propri laboratori per l’analisi delle dinamiche e degli effetti del turismo, nonché una sfida per le amministrazioni locali chiamate a gestirne i flussi in crescita.
Ciò che distingue e qualifica la città d’arte rispetto agli altri centri urbani è evidentemente il suo patrimonio artistico, inteso ancora una volta non solo come patrimonio materiale, rappresentato dall’insieme delle opere d’arte e dei monumenti, ma anche come patrimonio culturale e ambientale, presente nel territorio urbano, che, oltre a essere una risorsa per la comunità locale, costituisce un importante fattore di aggregazione condivisibile da parte degli operatori economici.
Secondo l’approccio fin qui delineato, il patrimonio artistico di una città non è solo un insieme di prodotti materiali collocati in un luogo geografico definito, ma è un bene capace di attirare visitatori per un consumo di altri beni, anche immateriali e unici, che si ricollegano all’immagine della città d’arte.
Se un tempo la città era un semplice oggetto di indagine economica, in quanto luogo di produzione e mercato, oggi ha la fisionomia di una categoria economica autonoma; quando poi al centro del discorso si colloca la città d’arte, le implicazioni economiche toccano più settori di attività, anche distinti fra loro. Nei decenni tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec. il turismo culturale, e in particolare le visite alle città d’arte, hanno subito una forte crescita in Europa e soprattutto in Italia. Tra i molteplici fattori che hanno determinato tale crescita, quelli decisivi sono stati da più parti individuati in tre variabili: il crescente interesse generale per la cultura; gli short breaks e i city trips come tipologie di vacanza alternative alla villeggiatura; le vacanze pluritematiche.
Si registra ovunque un interesse in aumento per la cultura e per le vacanze che offrano anche la possibilità di un’esperienza educativa e culturale, oltre che di svago. In questo modo si incentivano i brevi viaggi, della durata di non più di tre giornate, svolti nell’arco dell’anno, indifferentemente dalla stagione, e visti come seconda o terza vacanza dopo quella estiva, ancora oggi vissuta come quella principale e più lunga, sebbene anche questa superi raramente i 7 giorni (la permanenza media nazionale è 5-6 giorni). Per i brevi viaggi si scelgono soprattutto le città d’arte, caratterizzate, a partire dagli anni Novanta, dalla presenza di un forte movimento escursionista di soggetti che limitano la loro visita anche a meno di un giorno, senza pernottamento.
Un altro fenomeno in crescita è costituito dalle vacanze pluritematiche, intese come momento di soddisfazione di molteplici bisogni e interessi, diversamente dal passato, in cui le ferie rispondevano a un unico elemento di interesse. In Italia, così come in Europa, le città d’arte classicamente intese (Venezia, Firenze, Roma) sono, tra tutte le destinazioni, quelle che riescono a offrire al turista una vasta gamma di attrazioni, in modo da rispondere alle sue esigenze e curiosità. I visitatori di una città d’arte manifestano dunque approcci diversi, in base al gruppo sociale e alla categoria professionale a cui appartengono, ma anche in base alla durata della permanenza e alla motivazione che li ha portati nel sito.
Il turismo urbano degli ultimi vent’anni ha poi visto aumentare l’uso dell’aereo, e l’avvento delle compagnie low cost ha dato un impulso fortissimo alla nascita di nuove destinazioni turistiche, portando intensi flussi di visitatori verso hubs secondari e aprendo l’accesso al turismo delle capitali europee a fasce più ampie e meno elitarie di popolazione. Nonostante il fatto che le città siano una concentrazione di valori culturali, di attrazioni e tradizioni, motivo per il quale potrebbero essere potenzialmente molto allettanti per i viaggiatori, solo alcune di esse sono riuscite a rendere il turismo urbano un’attività economica di rilievo. Il turismo nelle città risulta essere un mercato in evoluzione, dalle notevoli potenzialità di sviluppo se opportunamente studiato e adeguato ai cambiamenti della domanda.
Alla scala nazionale, come già accennato, le città d’arte consolidate, come Roma (oltre 6 milioni di arrivi), Venezia (3,5 milioni di arrivi) e Firenze (2,5 milioni di arrivi) continuano a mantenere il proprio primato, confermandosi forti attrattori del turismo culturale (con un trend costante e privo di flessioni nell’arco degli ultimi dieci anni), in particolare di quello internazionale e accolgono in media il 50% dei flussi in entrata verso le rispettive province. Sebbene possa difficilmente essere identificata come una meta di turismo culturale, Milano (3 milioni di arrivi) resta comunque una destinazione privilegiata del turismo urbano, per la sua forte vocazione al business e all’attività congressuale, mentre la classifica prosegue con destinazioni meno consuete di visita del Paese: Napoli (poco meno di 800.000 arrivi), Bologna (circa 700.000), Torino (poco più di 600.000), Palermo (poco meno di 600.000), Genova (circa 550.000).
Genova: il fronte mare e il turismo culturale. La città di Genova, secondo porto commerciale italiano e fra i più importanti del bacino del Mediterraneo, ha dovuto far fronte, a partire dagli anni Settanta del 20° sec., a un forte processo di deindustrializzazione che ha lasciato evidenti tracce nel tessuto urbano, con numerosi insediamenti industriali in stato di abbandono. Le scelte di riqualificazione si sono concentrate inizialmente sul fronte mare e sul porto commerciale della città, nel tentativo di eliminare la cesura, fisica oltre che simbolica, che separava il centro storico dal mare fin dal 19° secolo. L’accesso all’area portuale di Genova, in quanto area commerciale, era infatti consentito ai soli lavoratori del porto e per oltre un secolo è stato negato ai residenti. In qualche modo questa cesura è stata rafforzata dalla costruzione, negli anni Sessanta, della sopraelevata, unica bretella di congiunzione rapida per il traffico sull’asse Est-Ovest della città.
Fra i vari progetti di riqualificazione delle grandi aree metropolitane industriali del nostro Paese, quello di Genova ha forse in maniera più profonda colpito l’immaginario collettivo, e non solo alla scala locale. La trasformazione del porto antico, da zona commerciale e industriale a spazio pubblico urbano e centro di edutainment (intrattenimento), ha consentito di spostare verso il mare il baricentro della città, dando anche il via al successivo progetto di riqualificazione del centro storico. La restituzione dell’accesso al mare alla città e ai suoi abitanti è stato il primo passo di un più complesso processo di patrimonializzazione e di una strategia di radicale cambiamento dell’immagine di Genova, da città industriale a città d’arte. La presenza di questo nuovo spazio pubblico ha influito sia sulla qualità della vita degli abitanti sia sulla fruizione del luogo da parte di utenti esterni e turisti. Parallelamente, l’organizzazione di numerose attività ed eventi culturali ‒ Genova città europea della cultura nel 2004, l’iscrizione nel 2006 dei Palazzi dei Rolli sulla lista dei siti considerati patrimonio mondiale dell’umanità dall’UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) ‒ hanno trasformato Genova in una nuova destinazione turistica particolarmente apprezzata sul mercato internazionale. Ma è stato l’Acquario, con oltre un milione di visitatori l’anno, il vero motore del successo del fronte mare come polo di attrazione turistica, con un indotto per la città di circa 140 milioni di euro, a conferma che il prodotto culturale si configura sempre più come un prodotto multiplo, sfaccettato e integrato.
Negli ultimi anni, a fianco delle mete tradizionali, cominciano ad avere una particolare importanza anche le città d’arte per così dire ‘minori’, dove il turismo non ha raggiunto flussi tanto consistenti da snaturare la struttura e la vita del luogo ed è ancora possibile percepire l’autenticità delle espressioni culturali locali. I flussi turistici in queste località sono piuttosto esigui, o caratterizzati da escursionismo, quindi di difficile riscontro statistico.
È proprio dal territorio, dalle strategie di governance messe in atto alla scala locale, che si riavvia il processo di sviluppo del settore turistico culturale in cui è possibile riscontrare i risultati migliori. Partendo da una nuova considerazione dei beni culturali non solo come valore in sé ma come valore d’uso sociale, è stato riattivato, nelle grandi città d’arte e soprattutto nelle realtà minori, un disegno di rinascita delle identità e di valorizzazione delle ricchezze artistiche e dei luoghi della vita quotidiana, che appariva fino a pochi anni fa impensabile e scarsamente vantaggioso.
I piccoli centri hanno mostrato un dinamismo significativo anche sulla scorta del nuovo contesto normativo che, facendo leva sulle autonomie regionali, ha consentito agli enti locali di organizzare la promozione del proprio territorio per temi anziché per destinazioni, come per es., nel caso dell’Emilia-Romagna. Questa regione, spesso ai primi posti nelle indagini del Touring club italiano sulle preferenze espresse dai turisti (TCI 2009), ha infatti puntato buona parte delle sue politiche di promozione sulla costruzione di itinerari tematici (la Signoria dei Malatesta, le Rocche matildiche, le Strade dei vini e dei sapori ecc.) che conducono il visitatore attraverso percorsi alternativi alla scoperta dei piccoli borghi pedecollinari.
La grande dinamicità dei piccoli centri si esprime anche attraverso il numero sempre maggiore di eventi e manifestazioni culturali di rilevanza internazionale che scelgono la propria sede elettiva in questi contesti ‘minori’. Per fare alcuni esempi, già nel 2005 il Festivaletteratura di Mantova contava 60.000 presenze in pochi giorni con un incremento del 16% rispetto alla stagione 2004; il Festival della filosofia di Modena, in tre giorni, ha visto la partecipazione addirittura di 120.000 persone.
Le due stagioni di Alberobello. La piccola cittadina pugliese, che conta 11.000 abitanti, è uno dei siti patrimonio mondiale dell’umanità fra i più noti d’Italia; iscritto sulla lista UNESCO dal 1996, è al contempo un esempio emblematico delle modalità con cui i piccoli centri hanno cominciato a ripensarsi come destinazione preferita per il turismo culturale degli short breaks.
L’iscrizione sulla lista UNESCO, però, non ha rappresentato per Alberobello, almeno inizialmente, il momento più elevato della sua notorietà. La protezione dei trulli, affidata alle norme nazionali, ha visto una svolta significativa solo dal 2004, con il nuovo codice dei beni culturali, così come allo stesso periodo risale lo sviluppo economico della cittadina in forza di un turismo che ha quindi conosciuto uno sviluppo progressivo, e principalmente per iniziativa dei suoi abitanti e dell’amministrazione locale.
In questo arco temporale di circa dieci anni il numero di hotel è cresciuto da 12 a 18 (+50%), quello dei B&B da 4 a 17 (+325%) e quello degli agriturismi da 3 a 13 (+333%). Anche il numero di enoteche, pub e ristoranti è aumentato, con 41 nuovi esercizi aperti. Nell’area di Alberobello l’offerta ricettiva è attualmente molto ampia (dall’hotel a 5 stelle al B&B), ma consente soprattutto di fare una vera esperienza turistica all’interno dei trulli stessi. Alcune famiglie di Alberobello si sono infatti consorziate fra loro, hanno rinnovato i vecchi trulli di famiglia e li hanno inseriti nel circuito degli affitti turistici.
Uno studio di Patrizia Battilani e Sabina Sgobba (2013) rileva come lo sviluppo turistico della località si sia organizzato negli ultimi anni sulla base di due tipologie differenti di flussi turistici: uno prettamente estivo, che va da luglio a settembre, costituito principalmente da turisti balneari che sulla via del rientro dalle vacanze al mare decidono di fermarsi ad Alberobello (non pernottando o fermandosi in media una sola notte) per visitare la città, e uno primaverile, da aprile a maggio. Durante la stagione meno calda, Alberobello diventa una tipica destinazione di turismo culturale autonoma e non un prodotto complementare alla vacanza balneare, come nel periodo estivo. In primavera i turisti si fermano ad Alberobello più di una notte, generalmente in mezza pensione e utilizzano i servizi ricettivi locali, riqualificati nell’ultimo decennio in termini di standard qualitativi e tipologia di servizio offerto.
Le ricadute economiche di questi flussi di visitatori (da 16.789 arrivi nel 1998 a 69.581 nel 2011) sono evidenti in termini finanziari, ma anche di impatto sulla qualità della vita degli abitanti, che hanno beneficiato di una serie di interventi di rinnovo e riqualificazione del paesaggio storico urbano, facendo di Alberobello è così diventato un esempio di come sia possibile coniugare sviluppo turistico e conservazione del patrimonio culturale.
L’Italia è il luogo dove è nata e si è sviluppata la cultura latina e dove si è forgiato il sapere rinascimentale. Lo sviluppo del Paese deve moltissimo a queste sue ‘specialità’, perché il territorio costruito dalle collettività si appoggia sempre sul fatto di essere un patrimonio condiviso di elementi materiali e immateriali e una lunga esperienza di progetto (Bourdin 1996). Il nostro apparato territoriale è un sistema che molto si basa sul passato, cioè sulla sua cultura e conoscenza, e dove la dimensione e le collettività si identificano soprattutto nel loro essere locali, seppure in un contesto globale. Se l’Europa si presenta nel quadro mondiale come territorio dei localismi e delle diversità, per l’Italia, o meglio per le regioni italiane, questa connotazione è ancora più vera e marcata.
È allora ragionevole pensare che il modello del ‘distretto’, che tanto ha contribuito all’eccellenza del made in Italy, possa realizzarsi non solo in quanto specificatamente riferito ai sistemi produttivi, ma anche ad altri sistemi economici, sociali e politici. La storia dei luoghi presenta fenomeni di continuità spaziale, ma anche di creazione e soprattutto di innovazione mirati allo sviluppo territoriale, basato su risorse specifiche e dinamiche endogene, e in tale prospettiva il prodotto ‘turismo’, e quello culturale in particolare, può costituire un’opportunità fondamentale per le regioni italiane. Lo dimostrano le politiche di sviluppo nelle regioni comunitarie più forti, un tempo tutte protese verso un modello di economia manifatturiera, oggi invece orientate a trasformare sovente la propria economia in funzione del territorio, prestando particolare attenzione alla componente culturale e turistica.
Pensare all’Italia come a un insieme di sistemi turistici locali non corrisponde però alla reale geografia del Paese. Si rilevano situazioni ancora molto frammentate, scomposte e spesso in forte competizione nella dimensione locale, sorte in modo spontaneo e per lo più disordinato. Immaginare le nostre regioni in una prospettiva di Distretti turistici (DT) in grado di ripetere i successi dei Distretti industriali (DI) nel territorio e nello scenario internazionale richiede politiche e comportamenti locali in grado di fare sistema (Dallari 2007).
La forte differenziazione di domanda si è tradotta, nell’arco dell’ultimo ventennio, in una molteplicità di turismi già in atto e attesi in forma ancora più diffusa nel prossimo decennio, con la ricerca di prodotti nuovi, di mete capillari, di risposte segmentate, di offerte arricchite in sistemi locali turistici organizzati. Così, se anche nei turismi, e non più solo nel turismo, emergono da una parte prodotti a competitività globale, cresce, dall’altra, la domanda di consumi turistici a esclusiva potenzialità di offerta locale. L’Italia è il territorio delle differenze e della discontinuità culturale, dove dietro a ogni angolo di strada è possibile stupirsi per scorci di straordinaria bellezza e ricchezze paesaggistiche senza eguali. È però anche il territorio in cui le peculiarità locali non sono riuscite a trovare un ombrello comune di promozione verso l’esterno e in cui la diversità degli itinerari di sviluppo seguiti dalle città, indipendentemente dal loro rango urbano, riflette sia la creatività delle singole destinazioni sia l’assenza di una politica pubblica unitaria.
Le diversità, sia organizzative sia di performance, nell’accoglienza turistica italiana possono essere ricondotte in parte anche alla vicenda storica delle competenze in materia di turismo. Nato nel 1959, il Ministero del Turismo, dello Sport e dello Spettacolo fu soppresso a seguito del referendum popolare del 1993, dando il via a un lungo ‘pellegrinaggio’ delle competenze residue del governo centrale all’interno delle amministrazioni dello Stato, mentre la maggior parte di esse era già stata trasferita alle regioni a partire dal 1977 (Nacca, in «Newsletter», 2010).
Il passaggio in esclusiva alle regioni delle competenze in materia di turismo ha poi trovato riscontro nella riforma del titolo V parte II della Costituzione. L’accento sulla dimensione locale, addirittura subregionale, è stato poi ulteriormente sancito con l’entrata in vigore della l. quadro 29 marzo 2001 nr. 135, che all’art. 5 introduce il concetto di Sistema turistico locale (STL), definito come «contesto turistico omogeneo o integrato, comprendente ambiti territoriali appartenenti anche a regioni diverse, caratterizzati dall’offerta integrata di beni culturali, ambientali e di attrazioni turistiche, compresi i prodotti tipici dell’agricoltura e dell’artigianato locale, o dalla presenza diffusa di imprese turistiche singole o associate».
La legge quadro prende ispirazione dalla l. reg. 30 nov. 1998 nr. 7 della Regione Emilia-Romagna, che per prima, anche a seguito di un processo di risposta collettiva degli operatori alla crisi ambientale (e conseguentemente turistica) della fine degli anni Ottanta, ha introdotto il concetto di integrazione territoriale dell’offerta, di cooperazione pubblico-privata e di costruzione di un minimum dimensionale nella promo-commercializzazione non solo delle destinazioni, ma di veri e propri ambiti tematici organizzati in Unioni di prodotto (come per es. Terme, Appenino e Verde, Città d’arte, Costa), come sono appunto definiti (dalla l. reg. 4 marzo 1998, nr. 7) gli ambiti strategici di intervento della politica turistica della regione. L’obiettivo della normativa è quindi quello di indurre gli operatori a fare rete e fare sistema, cofinanziando progetti condivisi fra operatori privati e istituzioni di natura pubblica. Il recepimento a livello regionale della legge quadro è stato decisamente lento e controverso, caratterizzato da una fase iniziale di contrapposizioni anche rilevanti (Grandi 2006). Piemonte, Veneto, Lombardia e Liguria avevano, nel maggio 2001, ritenuto opportuno ricorrere alla Corte costituzionale, ponendo una questione di legittimità della legge quadro nazionale. Tuttavia, il 23 maggio 2003, la Corte si è espressa dichiarando inammissibile il ricorso.
Le figure 2 e 3 riassumono i vari comportamenti nell’iter di recepimento della normativa nazionale da parte delle regioni al 2005 e al 2012. Nel 2004 era possibile identificare cinque diverse tipologie di comportamento (Grandi 2006): a) le regioni che apertamente avevano deciso di non fare riferimento alla l. quadro nr. 135 del 2001, solitamente confermando l’organizzazione esistente, ritenuta già coerente con la legge nazionale; b) le regioni che avevano recepito la normativa nazionale, riconoscendo i STL con alcune modifiche e adattamenti al sistema preesistente o con logiche leggermente diverse; c) le regioni che avevano recepito i STL e in cui il sistema normativo era già operativo; d) le regioni che avevano recepito i STL ma in cui il sistema normativo non era ancora pienamente operativo; e) le regioni nelle quali la normativa era ancora in fase di discussione.
La situazione nel tempo si è ovviamente evoluta, con il recepimento della normativa da parte di regioni che nel 2004 erano in una fase intermedia, o addirittura ancora anteriore, di studio della normativa stessa. A seguito di ciò vi sono state modifiche e aggiornamenti delle normative regionali da parte di alcune regioni, come l’Emilia-Romagna, che avevano deciso inizialmente di non recepire la legge quadro (fig. 3).
Nel primo decennio del 21° sec. la consapevolezza della necessità di prendere in considerazione tutte le variabili e i settori produttivi di realtà complesse, quali sono i territori, ha spinto verso una gestione più attenta alle diverse specificità locali. Sono così andate maturando sul campo alcune esperienze di sviluppo territoriale basate sulla cultura e sul patrimonio culturale inteso come «[…] l’insieme dei siti, quartieri, collezioni o pratiche che una società eredita dal suo passato e che intende preservare e trasmettere alle generazioni future» (Greffe 2003, p. 15).
Effettivamente, «a priori niente è più lontano dell’economia della produzione e dello scambio da questo insieme di beni immutabili e non riproducibili. Eppure lo sviluppo del turismo culturale, il rinnovamento urbano, l’importanza dei mestieri dell’arte, la vitalità dei mercati dell’arte, testimoniano dell’esistenza di una realtà economica del patrimonio culturale. Attraverso le risorse che egli genera, direttamente o meno, il patrimonio culturale crea attività, redditi e lavoro» (p. 15).
Contestualmente al periodo di declino industriale che caratterizza il nostro Paese, ma anche molti altri nell’Europa occidentale, si sta affermando infatti una sorta di ‘economia della conoscenza’, in cui si esprimono tutte le evoluzioni in materia di cultura che si concretizzano spesso nel passaggio da un consumo di tipo funzionale a uno di tipo informativo. Nel campo della cultura, come d’altronde anche in quello del turismo in generale e di quello culturale in particolare, si assiste a una metamorfosi nella percezione del bene consumato, o per meglio dire, a una diversificazione in fasi evolutive del consumo, in cui si passa dal possesso di una merce, all’acquisto di un prodotto, alla fruizione di un servizio, per giungere poi alla pratica di un’esperienza. In questo processo la cultura e il tempo libero sono stati inglobati nell’insieme delle merci oggetto di scambio, soprattutto in quanto portatori di quel valore aggiunto che costituisce il vantaggio competitivo per eccellenza di questa ‘società dell’immateriale’, che è dato dal valore simbolico dell’oggetto scambiato, poiché niente come la cultura possiede «il più grande contenuto simbolico che si possa immaginare, da cui traspaiono le tradizioni, il pensiero, la storia di un paese» (Valentino 2003, p. XIII).
La cultura conserva quindi una duplice accezione. Da un lato essa può essere infatti descritta come un insieme di prodotti, che aumenta progressivamente di dimensione poiché accoglie al suo interno ogni aspetto dell’espressione intellettuale, partendo dalla tradizione popolare per arrivare alla sperimentazione in qualsiasi campo delle arti (musica, arte plastica e pittorica, multimedia, architettura e così via). Le caratteristiche dei prodotti culturali sono, in questa prima definizione, come già accennato, il valore simbolico, ma anche l’unicità e l’irriproducibilità dei beni, la loro ‘inutilità’ relativa e la loro capacità decorativa (Santagata 2007). Questo è ancora più vero qualora si prendano in considerazione non più solo i prodotti, ma le esperienze culturali che, essendo riferite al campo percettivo individuale, restano per ciò stesso uniche e non universalmente riproducibili. Dall’altro lato la cultura può essere vista, secondo l’approccio cognitivo, come una stratificazione di conoscenze, di convenzioni e di stili che contribuiscono a definire l’identità dei diversi gruppi sociali e la cui rilevanza risiede nel contributo che essa può dare nelle scelte produttive e di consumo.
Il luogo in cui questi due modi di leggere la cultura si fondono è il territorio, inteso come un ‘sistema complesso di relazioni’, per il quale la cultura e, più in generale, i beni culturali costituiscono la risorsa capace di assicurare un consistente vantaggio competitivo.
Da vent’anni circa gli studiosi di diverse discipline ‒ tra cui economisti, storici dell’arte, architetti, geografi ‒ si sono contesi questo campo della ricerca, in cui la metamorfosi dei beni culturali e della cultura da ‘beni’ a ‘risorse’ si è appunto rivelata di difficile analisi, poiché si intreccia con diverse forme di capitale (e quindi di input produttivo) ‒ quello fisico, quello umano e quello naturale ‒, imponendo un approccio interdisciplinare spesso difficilmente applicabile (Cicerchia 2002). Nel nostro Paese le notevoli dimensioni del patrimonio culturale, l’elevata qualità e reputazione dell’offerta culturale (nonostante la struttura poco elastica del settore come, per es., nel caso dello spettacolo dal vivo) e il fatto che l’immagine stessa del Paese sia intrinsecamente associata al nostro patrimonio culturale, hanno dato una notevole spinta, sempre più a scala locale e secondo una logica di ‘decentramento produttivo’ della cultura, alla commercializzazione del territorio e delle sue risorse sul mercato turistico. A questo tentativo, forse eccessivamente semplicistico, di associazione fra beni culturali e comparto turistico si accompagnano non poche difficoltà intrinseche al settore, come la fissità delle risorse, la scarsa valorizzazione del capitale umano e delle professionalità nel campo della cultura, le carenze di ‘cultura imprenditoriale’ e di incentivi all’imprenditorialità nel campo delle arti. Proprio a causa di questi fattori negativi, pochi sono stati i risultati raggiunti, nonostante i numerosi tentativi per favorire lo sviluppo dell’occupazione e dell’economia, in particolare nelle zone meno favorite del nostro Paese, mentre emblematici sono stati a volte i fallimenti, come nel caso del cosiddetto Progetto giacimenti culturali (Cicerchia 2002).
Le ragioni dello scarso successo di alcune iniziative di promozione del territorio, attraverso le sue risorse culturali, sono anche da ricercare nelle caratteristiche del fenomeno turistico, cui gli enti locali attribuiscono il ruolo di panacea economica e che spesso risulta di difficile gestione, perché legato alle scelte comportamentali delle persone e alle esperienze attese. Questi due aspetti sono fra loro strettamente connessi, in quanto saranno i territori in cui più forte è la coesione fra attori locali, collettività e luogo, e in cui vi è un progetto condiviso di ‘futuro’, a poter maggiormente usufruire delle potenzialità offerte dalle risorse locali, riuscendo al tempo stesso a conservare, produrre e riprodurre valore aggiunto da tali fattori distintivi (Turismo fra sviluppo locale e cooperazione interregionale, 2006).
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