Ciriaco d'Ancona (C. de' Pizzicolli)
Viaggiatore, antiquario e umanista (Ancona 1391 - Cremona 1452). Si disse Picenicolles e de Piceni collibus, traendo una curiosa etimologia del proprio nome di famiglia da quello della regione nativa. È personaggio importante anche per la storia della fortuna di D. nel Quattrocento, non tanto per l'entità del suo contributo, quanto perché tale contributo si manifesta in un periodo di oscuramento quasi completo della fama di D., il trentennio che corre tra il Bruni e il Filelfo: la voce di C. si leva infatti poco oltre la metà di quel trentennio, nel 1423. C. aveva viaggiato fin da bambino, per commercio e in compagnia di mercanti, in Italia e soprattutto nel vicino Oriente tra il 1418 e il 1421, e aveva sentito da tempo la vocazione che ne farà " l'eroico paladino delle epigrafi, uno dei più infaticabili e geniali risuscitatori e salvatori dell'antichità classica ". Autodidatta, sentì la necessità, appena ritornato nella sua Ancona, di mettersi alla scuola di latino di Tommaso Seneca. Probabilmente durante quel breve periodo - tre anni circa che precedono la seconda serie delle sue peregrinazioni - approfondì la lettura della Commedia, la conoscenza della quale, anche se appare una sola volta nei suoi scritti superstiti, è testimoniata da un ricordo preciso e sicuro
e da un'ammirazione vivissima. Poi riprenderà i suoi viaggi, prima in Italia, specialmente a Venezia e a Roma,
e quindi di nuovo oltremare, non più per commercio, ma al servizio della sua vocazione ormai irresistibile, di " disseppellire i morti ", come egli stesso dirà, alludendo alle sue esplorazioni archeologiche.
Proprio al principio di questa seconda serie di viaggi, forse alla prima sosta, diretto verso Venezia e pernottando a Fano, la mente piena degli studi ai quali si è tutto dedicato, C. ha in sogno una specie di visione. Ne scrive qualche giorno dopo, viaggiando nei pressi di Rimini, all'amico concittadino Pietro di Liberio Bonarelli. La lettera, trovata da M. Morici in un codice Vaticano già appartenuto al Lancellotti, è scritta nel bizzarro e caratteristico latino di C., e reca appunto la data " ex itinere apud Ariminum, idus martias MCCCXXIII ". Protagonista della visione è Mercurio, per il quale l'umanista professava una specie di curioso culto, forse ispiratogli da un'antica gemma, ma forse anche suggerito a lui dalla lettura della Commedia, dove l'industrioso e veloce dio del commercio dà il nome al secondo cielo, quello degli spiriti attivi, perché onore e fama li succeda (Pd VI 114), un cielo che C., viaggiatore instancabile, studioso dagl'interessi illimitati, e mercante, poteva ben agognare come sua sede futura ed eterna. La visione, sognata o inventata che sia, dà a C. lo spunto per affrontare nella sua lettera una questione dibattuta dai primi tempi del cristianesimo fino si può dire ai giorni nostri, e particolarmente viva nella sua epoca: se cioè si addicesse a un cristiano la lettura e lo studio degli autori pagani. La polemica contro gli antichi scrittori era rappresentata ai tempi di C. specialmente dall'opera di un fiero avversario dell'Umanesimo, la Lucula noctis (1405) del cardinale domenicano Giovanni Dominici. Tale polemica non era affatto estranea al pensiero dei detrattori di D., come di colui che aveva mutuato miti e leggende della religione pagana, trasportandoli sacrilegamente in quella cristiana. C. naturalmente si schiera contro i nemici dei classici, e, dopo aver citato Lattanzio, s. Girolamo e s. Agostino, che tanto avevano attinto della loro forza di apologeti della fede cristiana proprio da un amoroso studio degli antichi autori, riprende una credenza largamente diffusa nel Medioevo, come cioè il più grande poeta di Roma, Virgilio, a saperlo ben leggere, apparisca piuttosto poeta cristiano che pagano. Da Virgilio egli passa a citare il suo grande discepolo e imitatore, per eccellenza cristiano, D., " catholicus Maro, imperator materni eloquii " il quale nel suo poema, " in suo christianissimo volumine ", esclama a un certo punto: E se licito m'è, o sommo Giove / che fosti in terra per noi crucifisso, / son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? (Pg VI 118-120). Bastano questi versi, scrive C., a dimostrare come soltanto gente ignorante e pronta alla calunnia poteva mettere sotto accusa un poeta che canta, sotto il velo della finzione artistica, i misteri della fede cristiana, " sacratissima divinarum rerum archana misteria honestissimo sub velamine fictionis ". In queste ultime parole si sente una chiara reminiscenza dantesca: sotto 'l velame de li versi strani (If IX 63). Sia che citasse a memoria, sia che portasse seco un codice della Commedia, o, com'è più probabile, che avesse segnato brani del poema nei famosi quaderni, sui quali gettava le sue note e abbozzava la copia delle epigrafi, è certo che C. conosceva bene e aveva ben presente l'oggetto della sua ammirazione.
Bibl. - M. Morici, Per gli epistolari di due discepoli e di un amico di Guarino Guarini, Pistoia 1897, 10-15; ID., D. e C. d'Ancona (Per la fama di D. nel primo trentennio del '400), in " Giorn. d. " VII (1899) 70-77.