Vedi CIRENE dell'anno: 1959 - 1973 - 1994
CIRENE (Κυρήνη, dorico Κυράνα, lat. Cyrene e Cyrenae)
Antica città nella regione che da essa ebbe il nome di Cirenaica, nella Libia, fra l'Egitto (ad E) e la Tripolitania (ad O).
Fondata da coloni greci dell'isola di Thera (Santorino) nel sec. VII a. C. (data tradizionale 631 a. C.), guidati da Batto, che fondò una dinastia durata sino al 440 a. C. A questa successe un regime democratico. Nel 331 a. C. Cirene si sottomise spontaneamente ad Alessandro il Macèdone, poi fu annessa al regno dei Lagidi (Berenice e Tolomeo III Evergete). Uno degli ultimi discendenti di questa stirpe, il bastardo Tolomeo Apione, al quale la Cirenaica era stata concessa come feudo indipendente, la legò in eredità al popolo romano (96 a. C.). La Cirenaica fu costituita in provincia romana nel 74 a. C. sotto il questore T. Cornelio Lentulo Marcellino. Nel 34 a. C. fu donata da Antonio a Cleopatra Selene, figlia di lui e di Cleopatra VII. Augusto la ricostituì in provincia, unita in uno stesso governo con l'isola di Creta, e la Cirenaica adottò la data della battaglia di Azio (2 settembre 31 a. C.) come sua nuova èra. Nuovi coloni furono inviati da Adriano, che restaurò altresì molti edifici distrutti nella insurrezione dei Giudei nel 116 d. C. Con la riforma amministrativa di Diocleziano (305 d. C.) la Cirenaica viene separata da Creta e passa a far parte, con l'Egitto e con la Marmarica, della diocesi d'Oriente. Poco dopo la residenza dei governatori fu spostata più verso il mare, a Tolemaide. Ammiano Marcellino (xxii, 16, 4) la chiama già urbs antiqua sed deserta. Zuffe tra pagani e cristiani con stragi sanguinose si propagano dall'Egitto alla Cirenaica, dove la lotta raggiunge proporzioni di feroce parossismo, perché complicata dalla presenza degli eretici sabelliani, dei quali C. fu forse il centro d'origine. L'imperatore Teodosio ordina che sian rasi al suolo gli altari e i templi degli dèi perché fomite di rivolta per il popolo. Infine i terremoti seppelliscono tutto nell'oblio. Fonte precipua di notizie per i primi tre secoli di questo periodo son gli scritti del vescovo Sinesio che combatte sia contro l'eresia, sia contro la barbarie razziatrice dei Libî, sia contro l'iniquità di governatori indegni; ma che pure già dispera delle sorti della patria. Infatti i risultati dell'ultimo sforzo giustinianeo, di salvare la civiltà in questa provincia non durano più di cento anni. Nel corso del VII sec. la Cirenaica cade sotto il dominio degli Arabi. Da prima tale dominio è solo politico, per ciò non contrasta la continrntà di vita dei centri urbani cristiani. Ma nel sec. XI s'inizia la vera e propria arabizzazione del paese per l'immigrazione delle tribù beduine dei Beni Hilal e dei Beni Soleim dall'Egitto. Allora C., la città morta, si chiamò Grennah e Sozusa (Apollonia) diventò Marsa Susa (v. Creta et Cyrenaica).
Per ottocento anni all'ombrà dei ruderi di Grennah si adagiò il pastore beduino. Nel 1705-06 Claudio Lemaire, console di Francia in Tripoli, fu, a quanto pare, il primo intellettuale del mondo occidentale che visitò le rovine di C., il primo a ricordare il silfio e ad aprire la serie degli esploratori occidentali di C. e della Cirenaica, i quali si susseguirono lungo i secoli XVIII e XIX (fu tra tutti in special modo notevole il contributo del Pacho) e, fino ai primi lustri del nostro secolo (missione americana Norton), finché, diventata la Libia colonia italiana, C. fu scavata da archeologi italiani per circa trenta anni. Oltre allo scavo è stato curato dagli archeologi italiani anche il restauro di molti edifici ricostruibili; purtroppo non sempre il lavoro di scavo e di ricostruzione è stato accompagnato da una adeguata pubblicazione, sicché molti dati di fatto sono andati perduti. Restauratori in C. furono gli architetti I. Gismondi e A. Bonomo (al quale ultimo devesi il restauro del Cesarèo). Importanti edifici cirenei rimasti ancora da risollevare sono il Portico delle Cariatidi e il Gran Tempio. In un libro di propaganda pubblicato nel 1941, si volle far credere che gli Inglesi fossero responsabili di atti di vandalismo perpetrati nei locali dei musei di Cirene. In realtà, prima dell'arrivo della truppa occupante, Arabi del posto, avidi d'impadronirsi del legname degli scaffali, avevano invaso i locali già vuoti, essendo state messe dagli archeologi italiani al sicuro, prima dell'arrivo degli Inglesi a Cirene, tutte le opere d'arte e i monumenù epigrafici, scoperti durante gli scavi archeologici e che, a guerra finita, sono stati riportati nei tre musei che si sono andati costituendo a C. (v. paragrafo relativo). Mancando ancora una grande pubblicazione scientifica dei monumenti di C., è stato dato a questo articolo uno sviluppo più ampio rispetto a quelli su altri centri di uguale importanza.
1. Topografia. - Anche se per i monumenti di C. ci manca un Pausania, tuttavia essi non sono del tutto ignoti alla letteratura antica, anzi alcune fra le opere maggiori della letteratura greca furon pensate e scritte per C. e gli scrittori, o perché figli della stessa C. o perché ospiti e perciò suggestionati dall'aspetto dei luoghi, abbondarono di accenni locali. Erodoto ha dedicato a C. molte pagine (iv, 145-205), contenenti uno tra i più bei quadri storico-etnografici ch'egli seppe tratteggiare per le regioni periferiche del mondo greco. Pindaro ha scritto per cirenei (il pugile Telesicrate e il re Arcesilao IV) le Pitiche ix, iv e v, la quale ultima fra gli epinici del grande poeta tebano s'innalza su gli altri per ampiezza di respiro, originalità di movimento e grandiosità di quadro mitologico. Callimaco compose l'inno ad Apollo per le feste Carnee di C. e l'inno a Demetra Thesmophòros, in cui è cantata la processione del kàlathos con precisi accenni topografici a Cirene. Il vescovo Sinesio nelle sue Lettere descrive C. all'alba del V sec. d. C.
La zona monumentale di C. consiste principalmente in tre campi di scavo, che sono: i) il Piazzale d'Apollo, nell'area antistante alla fonte sacra; ii) il quartiere dell'agorà; iii) il Gran Tempio sulla collina orientale, che Erodoto riconosceva come sacra a Zeus Liceo; inoltre la necropoli che, a guisa di anello, cinge il centro urbano per più di 30 km2, della quale si conosce solamente una parte. C. è importante per lo studio dell'architettura ellenistica, perché i Romani vi costruirono con le forme greche (eccetto che nei teatri, nelle cisterne e in altre opere d'ingegneria, dove usaron l'arco e la vòlta). L'ordine dorico si può seguire in tutti gli stadî della sua evoluzione, dall'età arcaica alla classica e da questa al periodo ellemstico e romano. La pianta è di tipo ippodameo, ed è notevole la coesistenza in C. di due opposti criterî d'estetica urbanistica, affermati l'uno nell'irregolarità pittoresca del tèmenos d'Apollo e dell'impianto di bagni rituali sotto la Via di Batto, l'altro nella geometrica regolarità del tracciato stradale.
Piazzale d'Apollo. - Dal versante settentrionale del penultimo terrazzo dell'altopiano cirenaico, a 570 m d'altezza sul mare, sgorga una fonte la cui acqua, dopo aver fluito attraverso un cunicolo che addentrasi nell'interno della collina per circa 300 m e sulle cui pareti si leggono numerose iscrizioni non più recenti dei tempi antoniniani, sbocca all'esterno. Qui la parete rocciosa presenta dei tagli, fatti allo scopo di applicarvi una tettoia, ragion per cui questa grotta è da considerarsi un rarissimo esemplare di nymphàion primitivo, cioè di sacello naturale di una ninfa, ossia di un'acqua sorgiva divinizzata e personificata, di una dea-fonte, insomma. La fonte fu da Pindaro e da Erodoto chiamata Fonte di Apollo, nella cui pratica rituale era usata per l'appunto l'acqua della sorgente. Questa fonte come Callimaco (Inni, ii, 88) canta, si chiamava Κύρη (Kyra), ch'è il nome libico dell'asfodelo, pianta caratteristica della regione cirenea; da esso deriva il nome Kyrana, che significa dunque luogo ricco d'asfodeli o città degli asfodeli. Più tardi, e non prima della fine del IV sec. a. C., una ninfa tessala Cirene, cantata da Esiodo come cara ad Apollo, diventò, a causa dell'omonimia, la dea eponima della nostra città e qui fu localizzata dalla speculazione mitografica la sacra unione fra la ninfa e il gran dio fondatore. È dunque il caposaldo della topografia di C., la cui origine ed esistenza fu da quella condizionata. A piè della fonte furono sistemate due terrazze, delle quali l'inferiore è sostenuta a valle da un potente muraglione. La superiore, di forma triangolare, detta Piazzale della Fonte, contiene un singolare complesso di bacini, vasche e vaschette (altre simili sono scavate insieme a nicchiette nella parete rocciosa) in parte di carattere sacro, in parte di carattere utilitario; complesso alimentato, come sembra, da un'aqua Augusta diversa da quella della fonte sacra, come si desume da un'epigrafe ricordante l'opera del proconsole C. Clodio Vestale. In questa terrazza sboccava una via, la quale scendeva dall'alto della collina occidentale, dipartendosi dal punto in cui nell'agorà trovavasi la tomba di Batto, percorreva l'ultimo tratto tagliato nella roccia presso la Fonte d'Apollo, come si ricava da Pindaro (Pyth., v, 90 ss.), volgeva ad E fin sotto alle rocce della collina orientale e poi, probabilmente, girava ancora a N-O e infilava il Propileo greco. Secondo il Romanelli tratterebbesi, invece, di due strade: l'una, proveniente da S-E, lungo l'uadi, e sboccante davanti al Propileo suddetto, sarebbe stata la via principale, tagliante il complesso urbanistico nel mezzo, ed un ramo della quale, costeggiando il muro orientale del sottostante tèrnenos d'Apollo, adduceva alla porta settentrionale detta Porta d'Apollonia; l'altra (detta Strada di Batto) a S della prima e tagliata nella parete rocciosa sopra alla Fonte di Apollo. Nel Piazzale della Fonte sostavano le carovane; gli animali si abbeveravano in quelle tra le vasche, che non avevano destinazione rituale. Attraversato il Propileo si passava alla terrazza inferiore, dov'era il santuario d'Apollo, al quale si accedeva anche mediante altre due scalee poste più a O e senza propilei. La Via Sacra doveva passare fra il tempio di Afrodite e lo Strateghēion, poi davanti alla fontana per le abluzioni a sinistra ed avendo di fronte il Ploutonion, quindi girando a N, poi ad O e poi di nuovo a N, passava fra il tempietto e gli altari e, infine, piegava lungo il fianco del grande altare raggiungendo lo spiazzo davanti al tempio maggiore. Era questa la via percorsa dalle sacre processioni.
A somiglianza dei grandi santuarî panellenici di Olimpia, di Delfi, di Delo, anche questo di C. consiste in una vasta area (tèmenos) coltivata a boschetto (àlsos), recintata da un muro e contenente il tempio e l'altare del dio titolare, che occupa la parte centrale dell'area, ed inoltre templi minori dedicati ad altre divinità, thesauròi, monumenti votivi e fontane. Il tempio di Apollo è un periptero esastilo dorico di m 37,50 × 27,60 orientato, come di regola i templi greci, a levante. Davanti alla sua fronte si distende un grandioso altare lungo oltre 22 m, dietro al quale un più corto basamento serviva forse a sorreggere i doni votivi. Poco discosto a N dell'Apollonion elevasi il tempio di Artemide, di proporzioni minori, anche questo con altare antistante. A S dell'Apollonion, davanti al muro di terrazzamento del soprastante Piazzale della Fonte, sono allineati un tempietto di Iside, uno di Apollo Fondatore, uno di Apollo Ninfagete attiguo al precedente; più ad E un tempietto votivo, o thesauròs, detto Strateghèion. Presso l'angolo S-E della fronte dell'Apollonion è un piccolo ninfeo semicircolare con un rilievo rappresentante la ninfa eponima Cirene che strozza il leone come narra la leggenda. Ad E due sacelli collegati, sacri ad Hades e a Persefone, più ad E una fontana greca, ancora più ad E un propileo di età adrianèa, la cui costruzione fu dovuta all'essere stato spostato in epoca romana l'ingresso al santuario da questa parte. All'estremità S-E, presso il propileo greco, è un tempietto dedicato ad Afrodite. Dietro l'Apollonion, cioè a O, sono apparsi avanzi di fabbriche tardo-romane o bizantine di scarsa importanza. Dietro l'Artemision è il basamento d'una costruzione oblunga, da alcuni interpretata come una Lesche, cioè sala di riunione (di sacerdoti?). Nel settore settentrionale del tèmenos, ad E dell'Artemision, è un sacello ai Dioscuri ed uno ad Ecate e, più a N, al di sopra del muraglione di terrazzamento, estendevasi una loggia a colonne. Il settore N-E del tèmenos è occupato da un vasto sontuoso edificio termale, che gli archeologi distinguono in Grandi Terme e Piccole Terme. Ad O, subito fuori del muro di recinzione del santuario, è il teatro greco poi trasformato in anfiteatro.
Quartiere dell'agorà. - Centro della vita civile della città; occupa il pianoro della collina occidentale ed è attraversato per tutta la sua lunghezza da S-E a N-O, da un decumano, che costituiva probabilmente l'asse della via sacra menzionata da Pindaro.
Chi entra nel quartiere per la porta orientale (Porta di Balagre) imboccando il decumano vede alla sua destra, cioè a N, il grande Foro quadrangolare detto Cesareo o Foro di Proculo, a sinistra o a S, una costruzione di tipo teatrale, che è stata anche ritenuta senza sufficienti prove, un Odèion o un Bouteutèrion. A N-O del Cesareo è un altro piccolo edificio di tipo teatrale, la cui costruzione appare certamente anteriore a quella dell'adiacente muro del Cesareo. Procedendo per il decumano incontrasi a S un sontuoso edificio che viene detto casa di Tiberio Claudio Giasone Magno, di fronte al quale l'opposto lato del decumano era decorato da un portico di cariatidi su piedistalli, ancora rovesciati sul terreno. Più oltre, sempre lungo il lato della stessa strada, incontriamo due edifici in tufo, l'uno dei quali, di non chiara destinazione, è accessibile per tre scalini, l'altro è detto Casa delle Muse, per la presenza di medaglioni con immagini di queste dee nel mezzo del pavimento a mosaico, mentre maschere comiche sono scolpite sui capitelli dei pilastri esterni. Seguono alcune tarde casette poi, sul lato sinistro del decumano, elevavasi il Pritaneo, cui seguiva un tempio ritenuto comunemente (ma senza fondata certezza) il Capitolium, poi il Nomophylakèion, consistente in una sala rettangolare preceduta da un portichetto, che una frammentaria iscrizione assegna all'epoca di Domiziano: vi furono trovate circa cinquemila cretule, contenenti le impronte dei sigilli dei magistrati addetti all'autenticazione degli atti ivi conservati. Di fronte al cosiddetto Capitolium si apre l'agorà propriamente detta, vale a dire la piazza principale di questo complesso urbanistico, cuore della vita civile della pòlis. La piazza è quadrangolare, vasta e ben lastricata, cinta su tre lati da portici, notevolmente modificati attraverso i secoli; ne sussiste quello a colonne ioniche sul lato settentrionale, dedicato a Zeus Sotèr a Roma e ad Augusto. Recentissimi saggi in profondità hanno accertato l'esistenza di questo edificio sino dal sec. VI a. C., con successive modifiche. Non è escluso che esso avesse potuto servire da bouieutèrion, prima dell'età augustea. Sul tergo di esso, ad un livello più basso, sono allineate dodici tabernae, il cui piano di copertura veniva ad essere al livello del piano di calpestio del portico. Davanti a questo, nella piazza, si elevavano tre altari, il maggiore dei quali è pure dedicato a Zeus Sotèr. Più presso alla strada decumana trovasi un basamento, fatto a prora di trireme fiancheggiata da due delfini. Una statua colossale (trovata lì presso) dal panneggio trasparente increspato di pieghe sottili è stata supposta una Nike che fosse collocata sul basamento a forma di prora. Nell'angolo S-O della piazza sorgeva un tempio ipetrale dedicato a Demetra e, davanti ad esso, sorgevano due piccoli edifici circolari, accuratamente costruiti, che un'attraente congettura ha identificato, l'uno, con la heròon di Batto, l'altro, con lo heròon d'Onimasto. Ad O del tempio di Demetra è un Ginnasio. Procedendo verso O lungo il decumano s'arriva all'acropoli, munita (verso la parte prospiciente l'agorà) di due poderosi bastioni di età ellenistica e del protèichisma, cioè dell'antemurale: la porta fu murata in epoca tarda. A N-O di questa porta, addossato e nascosto dalla torretta d'angolo, è un piccolo e tardo sacrario (non perfettamente esplorato) detto Santuario delle divinità alessandrine. Più ad O, all'estremo margine della collina, vedonsi gli scavi della missione americana diretta dal Norton nel 1911: poche costruzioni di carattere militare, fra cui furono scoperti numerosi frammenti di vasi; a piè dei sacelli rupestri ad O del teatro-anfiteatro, sui dirupi dell'uadi Bel Gadir furono raccolte statuette fittili. Ad O dell'acropoli, al di là dell'uadi Bel Gadir, sorge una rupe scoscesa, che l'Anti identifica con la "rupe dei mirti" ricordata da Callimaco e da Apollonio Rodio, mentre il Robinson localizza questa sul versante N della collina occidentale, al di sopra della fonte sacra. A piè di una roccia, che si suppone essere la cosiddetta roccia Mirtusa, si apre un antico ninfeo; tutta la zona è densa di tombe e di sacelli e il mirto vi cresce ancora in folti cespugli.
Sul versante meridionale della collina occidentale, al di sopra del vallone del Bel Gadir, press'a poco in linea con l'agorà e a più d'un chilometro da questa, fuori le mura della città, è stato trovato un altro tempio di Demetra. È probabile che da questo, dopo le semine autunnali, muovesse la processione del kàlathos su carro tratto da quattro bianchi cavalli (come canta Callimaco nell'Inno a Demetra), per entrare in città attraverso la Porta di Balagre, percorrere il decumano, infine sostare davanti al Pritaneo, dove le donne non iniziate e le vecchie dovevan fermarsi e lasciar proseguire le sole iniziate, che raggiungevano il tempio di Demetra sull'agorà, mèta ultima della processione.
Dalla collina dell'agorà, scendendo verso la piazzetta el-Ghegab, centro dell'abitato moderno, s'incontrano sul versante i resti di un quarto edificio di tipo teatrale. Più giù, verso E, gli avanzi d'un edificio a colonne corinzie con capitelli a foglie oblique, di età severiana, che anticipano una forma di acanto finora nota solo da età postcostantiniana, con fusto in cipollino, ritenuto un Ginnasio; ancora più a E resti di case-ville (come quelle di Pompei prospicienti la valle del Sarno), fra cui la Casa del mosaico di Dioniso con facciata sulla strada che, scendendo dall'agorà e seguendo il fondo dell'uadi, sboccava davanti al propileo greco.
Collina di Zeus Liceo. - È l'estremità orientale della collina che si eleva, alla stessa altezza dell'acropoli, al di là della depressione sottostante alla agorà. Sull'estremità occidentale della stessa collina (indicata in pianta come ex-batteria libica) furono segnalati i resti di un grande tempio arcaico, finora non esplorato.
Al fondo della depressione correva una via che doveva congiungere la zona del santuario di Apollo con i quartieri all'estremità orientale della città (dove sorgono i resti della basilica bizantina di età giustinianea). Lungo questa via sono ora stati posti in luce alcuni tempietti (di Kyrene?, di Commodo-Eracle, ecc.) e resti di edifici porticati. L'impianto urbanistico, con vie secondarie che sboccano sulla via principale in corrispondenza alla fronte degli edifici e non in corrispondenza con altre vie, appare ancora ellenistico. Un crocevia doveva condurre, da lì presso, a S verso il Cesareo, a N-O verso il tempio di Zeus. In questa direzione, provenendo in linea retta dall'agorà, si incontra una fossa quadrata, contenente i resti d'un parallelepipedo di tufo con l'iscrizione bilingue, la quale ricorda che nel 73 l'imperatore Vespasiano, per mezzo del suo legato Q. Paconio Agrippino, restituì al popolo romano il Ptol(o)maeum, nome ch'è stato variamente interpretato: alcuni lo ritengono identico a quello degli agri regii del re Apione che, morendo nel 96 a. C., aveva lasciato in eredità al popolo romano la Cirenaica (ma, molto più probabilmente, questi agri, che producevan silfio ed eran riservati alla pastorizia, sono localizzabili ben fuori di Cirene, nella regione predesertica). Secondo il Rostovzev tratterebbesi d'un tèmenos, bosco o parco riservato; secondo il Ferri sarebbe stato un tempio; secondo il Romanelli una proprietà privata; secondo il Ghislanzoni il palazzo reale dei Tolomei di Cirene col relativo parco. Sul pianoro della collina estendevasi un altro tèmenos col grandioso tempio di Zeus (Ammone dapprima, poi Liceo, Sotèr, Olimpio). Come l'Apollonion, anche questo Olympieion era circondato da minori costruzioni sacre e votive. A E, a valle della collina, è scavato lo Stadio ellittico. Il tempio di Zeus mostra varie fasi di trasformazione (si vedano i singoli paragrafi sotto 2, Monumenti). Un colonnato dorico di grande potenza appare databile attorno al 460 a. C.; il tempio fu restaurato in età augustea (iscrizione proconsolare con dedica Iovi Augusto); poi il colonnato fu abbattuto durante la rivolta giudaica. Restaurato in età antonina, il colonnato non fu mai rialzato; ma la cella fu ampliata per contenere una riproduzione dello Zeus olimpico di Fidia che, dai pochi frammenti rinvenuti (soprattutto dalle dita) risulta delle stesse dimensioni colossali dell'originale.
Cinta muraria. - Sussiste a tratti, ma è riconoscibile per quasi tutto il suo tracciato, anche là dove non esistono più avanzi.
Le parti più antiche attualmente visibili non sembrano anteriori all'epoca ellenistica; numerosi sono i rifacimenti romani e bizantini. Ma la primitiva C., quella fondata dal primo nucleo di Greci guidati da Batto, doveva essere limitata alla sommità della collina occidentale, se non soltanto all'altura dell'acropoli oltre, s'intende, al sottostante tèmenos d'Apollo. Alla fine del VI sec. a. C. la collina di Zeus Liceo doveva rimaner fuori del muro di cinta del centro urbano, come ritiene l'Oliverio in base ai dati topografici, ch'egli crede poter desumere dal racconto erodoteo circa il passaggio dell'esercito del satrapo Ariande reduce dalla spedizione punitiva contro Barce e il fallito tentativo di tale esercito d'impadronirsi anche di Cirene. Fuori della cinta doveva trovarsi anche un tempio d'Afrodite, dov'era una statua aurea dedicata dalla regina Ladice, come si desume da Erodoto (ii, 181). L'ubicazione di questo sacrario non è stata ancora riconosciuta, ma poco verosimile sembra l'ipotesi tendente ad identificarlo col tempietto addossato al muro orientale del Piazzale d'Apollo. Fu forse soltanto nel III sec. a. C. che l'abitato si estese fino ad includere la collina del tempio di Zeus (o Gran Tempio) e tutto il rimanente dell'area determinata dagli avanzi del muro di cinta attualmente sussistente.
Necropoli. - I sepolcreti digradano a terrazze sui fianchi degli uidian, specialmente dell'uadi Bel Gadir, o si allineano lungo le strade che, fuori delle porte della città, dipartivansi verso Apollonia e verso i sobborghi dell'altopiano; attestano per la maggior parte il rito dell'inumazione, oltre a quello della cremazione, e sono cronologicamente distribuiti lungo tutta la storia della città. Le tombe si distinguono in quattro tipi principali:
Ipogei a camera o a gruppo di camere scavate nella roccia (talvolta in grotte adattate all'uso) con tèmenos antistante.
Le salme eran deposte entro sarcofagi occupanti la parte inferiore di nicchie o di gallerie, spesso precedute da portichetti a pilastri, il tutto ricavato nella roccia. In alcuni ipogei i catini delle absidi delle nicchie son decorati a conchiglie di stucco non colorato; in qualche altro esemplare furon notati avanzi di ornati parietali dipinti. Il tipo dell'ipogeo a pianta quadrangolare con nicchie ad arcosolio sembra essere il più tardo. La porta era chiusa da un grande masso monolitico, scolpito in modo da simulare un uscio di legno. Nella fronte dell'architrave soprastante alla porta era incisa l'iscrizione che, in altri esemplari, trovavasi in cartelli contenuti in nicchiette; sovente tali nicchiette erano occupate dai busti dei defunti (se ne ha, al museo, una numerosa serie, di modestissimo artigianato) al di sopra del portale. Molti ipogei hanno una facciata intagliata nel sasso a prospetto architettonico, con colonne ioniche, oppure doriche, in antis, epistilio e frontone in origine policromi. Le più antiche di tali facciate sono databili al VI sec. a. C.; la maggior parte delle altre sono ellenistiche e di gusto ellenistico anche quelle dei primi tempi della provincia romana.
Tombe in forma di tempietti (naòi), interamente costruite a conci ed isolate come piccoli edifici, a pianta rettangolare, con porta in uno dei lati minori e copertura in pietra a due spioventi, determinanti due vani frontonali nei lati minori con acroteri.
Tale copertura è sostenuta da un muro mediano, dividente l'interno in due ambienti, occupati per due terzi da sarcofagi. Alcuni tempietti sono di età classica, in altri gli ornati finemente scolpiti delle cornici dei portali sono di gusto ellenistico. Ogni tempietto era circondato dal suo tèmenos, come i templi degli dèi, segno che qui i morti eran considerati come divinità (fenomeno comune alla mentalità greca, ma in C. più decisamente affermato che altrove).
I mausolei circolari più antichi ed illustri erano le tombe di Batto e di Onimasto, site nell'agorà e la cui forma originaria doveva consistere in un circolo di pietre ritte, racchiudenti la salma e sostenenti un tumulo conico di terra. Gli altri esemplari, in parte studiati dal Rowe, sono datati a un lungo periodo, che va dal VI sec. a. C. all'epoca ellenistica e a quella romana, e sono confrontabili con esemplari, esistenti in Asia Minore, in Grecia, in Etruria, nell'Africa settentrionale.
Il meglio costruito dei mausolei cirenei è quello che trovasi all'inizio della strada che mena ad Apollonia, a pié del moderno caseggiato ora adibito a museo di scultura: ha una camera interna e la sua copertura era adorna di statue. Le fini modanature hanno carattere ellenistico, ma l'iscrizione è del I sec. d. C.
Grandi sarcofagi di pietra, con coperchi a doppio spiovente, sono collocati isolatamente all'aria aperta su piattaforme tagliate nella roccia, probabilmente d'età romana.
Davanti o ai lati delle porte degl'ipogei rupestri e dei naòi o al di sopra delle tombe in elevazione, insistevano su basi quadrangolari modinate, le mezze statue demetriache dei defunti (sulle quali v. avanti, nella parte storica). La maggior parte delle tombe risultarono già violate in epoche indeterminabili e dispersi i relativi corredi.
2. Monumenti. -a) Le origini. - Erodoto nel iv libro della sua opera narra che il dio Apollo, per bocca della Pizia, indirizzò gli emigranti therei, guidati da Batto, verso la Libia (come genericamente i Greci chiamavano il continente africano, escluso l'Egitto, che per essi era parte dell'Asia). "Per farsi aprire le vie del mare" gli uomini di Batto si rivolsero ai Cretesi e da un cretese mercante di porpora, tal Corobio Itanese, furono condotti verso la Cirenaica (la costa cirenaica è la parte dell'Africa più vicina a Creta, e i Cretesi potevano avervi forse già stabilito qualche scalo commerciale, precedendo, come altrove, i Greci dell'età storica). I Therei approdarono dapprima a Platea (identificabile con l'isoletta Bomba di fronte al golfo omonimo fra Derna e Tobruk) e si stanziarono ivi per qualche tempo senz'avventurarsi subito in terraferma. Successivamente passarono sul continente, dove s'accamparono a 6 miglia ad O in una località detta Aziris, presso un fiume (uadi Temmimeh). Infine, guidati dagli indigeni, si spostarono di nuovo e si spinsero per un centinaio di chilometri ad O finché, trovato finalmente un sito conveniente, vi si fermarono stabilmente.
Il sito prescelto dai Therei era fra i più felici dell'Africa. La regione consiste in un vasto altopiano declinante a N e a N-O in due terrazzi, simili a meniani d'uno scalone. A chi viene dal mare si presenta da prima una stretta fascia costiera pianeggiante; a distanza di circa un chilometro dalla riva il terreno sale con una scarpata rocciosa fino al primo terrazzo, alto 200 m sul mare e largo nove chilometri, dopo il quale elevasi la seconda balza fino a 600 m con un dislivello variante da 300 a 400 m al di sopra del terrazzo inferiore. Nella zona superiore i torrenti hanno corroso il suolo calcareo, tagliando l'orlo settentrionale dell'altopiano in due colline dai fianchi scoscesi, delle quali l'occidentale domina il paesaggio circostante dal limite meridionale del pianoro fino al mare. D'inverno e d'autunno il vento di O spazza a raffiche queste colline, che ricevono pioggia per 600 millimetri d'acqua all'anno e, d'inverno, spesso anche la neve e la grandine. L'acqua assorbita dal calcare poroso del suolo alimenta copiosamente sorgenti sotterranee perenni a forte getto, tra cui la fonte Kyra nel Piazzale d'Apollo. Allo stesso Apollo, cui era sacra la fonte Kyra, i Therei elevarono un tempio; accanto ad esso un altro più piccolo fu eretto in onore di Artemide; sulla incombente collina sorse la città che, dal nome (d'origine libica) dell'asfodelo Kyra, fu detta Kyrana. Ciò avveniva circa il 631 a. C. La narrazione erodotea è confermata, in linea generale, da un testo epigrafico del più alto interesse, chiamato la stele dei fondatori, scoperta durante gli scavi italiani a C., non più antica del IV sec. a. C., riproducente un decreto, in cui si dichiara l'amicizia che unisce i Cirenei ai cittadini di Thera, loro madre patria: in tale occasione sono ricordate la storia della fondazione di C. e la formula del giuramento di morte, già pronunciata dai fondatori alla vigilia della loro partenza da Thera e il relativo rito magico del simulacro di cera bruciato e maledetto in pubblico.
È presumibile che, nella stessa epoca della fondazione della città o subito dopo, i coloni greci abbiano provveduto ad assicurarsi la disponibilità di un approdo dal mare sul punto della costa meno lontano (km 15) da Cirene. Dietro questo porto (ἐπίνειον = tipo di porto distante dalla città, frequente nel mondo greco) si formò un abitato di gente di mare che, più tardi, diventerà la città di Apollonia, poi Sozusa nella tarda romanità.
b) Periodo dei Battiadi (631-440 a. C.). - Il capo dei fondatori di Cirene, Batto, fu il capostipite di una dinastia di otto re, alternamente chiamati Batto e Arcesilao, che governarono per poco meno di duecento anni: storia sanguinosa intrecciata di rivolte, di congiure di palazzo, d'omicidî (eccettuato il pacifico regno di Batto IV dal 515 al 462 circa), ma che tuttavia non impedì che questo periodo (a noi specialmente noto attraverso la narrazione erodotea) fosse assai brillante per la civiltà di Cirene. Esso corrisponde ai periodi arcaico e dello stile severo e degli inizî dello stile classico della storia dell'arte greca.
Caso raro per una colonia greca, C., sita non sul mare ma nel retroterra, riuscì a controllare tutta la regione di cui essa fu il centro, nonostante la resistenza opposta dalle bellicose tribù libiche. L'agricoltura le fu precipua fonte di floridezza economica; grano, legumi, orzo sui feraci terreni dell'altopiano, mentre sulle terre incolte dell'interno raccoglievasi una pianta selvatica, il silfio, utilizzata come condimento, farmaco e foraggio, non solamente per il consumo locale, ma anche per il commercio d'esportazione. Altro cespite economico fu l'allevamento di cavalli, favorito dalle praterie (onde poi gli Arabi chiameranno la Cirenaica Gebel el-Akhdar cioè la Montagna Verde), che permise a C., unica fra le città greche, di disporre di carri di guerra in unità tattiche e che le procurò celebrità negli agoni olimpici e pitici. Di recente A. Rowe ha ristudiato, alla luce di nuovi documenti, i rapporti fra Cirenaica ed Egitto a cominciare da quelli fra le tribù libiche ed i Faraoni prima della venuta dei Greci di Batto, ch'è contemporaneo di Psammetico I, della XXVI dinastia, saitica. Secondo il menzionato archeologo, C. sarebbe stata chiamata dagli Egizî Abydos (forse per una confusione col nome degli ᾿Ασβῦται o ᾿Αρβῆται o ᾿Ασᾶύσται cioè degli Asbisti, tribù libica occupante il territorio dove poi fu fondata Cirene), sacra alla dea Neith (= Atena). Tuttavia i rapporti con l'Egitto, almeno per l'epoca anteriore ai Lagidi, benché accertati dalle fonti letterarie, non si riflettono nei monumenti dell'arte di C. finora a noi noti, dato che qui forme di edifici, di statue, di vasi e di manufatti d'ogni genere nulla hanno di egiziano o di egittizzante, ma sono assolutamente greche.
Architettura. - Di questo periodo poco è visibile sul terreno, sia per le distruzioni causate dalla continuità della vita sociale sul territorio, sia perché in varî settori lo scavo non è andato oltre lo strato romano. I più arcaici avanzi architettonici sono costituiti dai resti dei due primitivi templi di Apollo e d'Artemide, di stile protodorico, in tufo locale.
Il primo era un periptero esastilo con 11 colonne a 16 sfaccettature piuttosto che scanalature (si noti questo carattere di arcaismo ricorrere anche in altri. esemplari, come il Metròon d'Olimpia). Il muro del naòs, consistente in una compagine di mattoni d'argilla cruda, consolidata mediante un assito ligneo, poggiava sopra uno zoccolo rinforzato da lastroni lapidei (ortostati), allineati sopra un plinto livellato direttamente sulla roccia vergine tufacea. La cella era divisa in tre navate da due stilobati, sorreggenti ciascuno nove colonne, sormontate a loro volta da altrettante più piccole. Frammenti di tali colonne, dipinti in rosso e azzurro, documentano che il tempio era policromo. Le favisse, scavate nella roccia, erano chiuse con lastroni di tufo. Il tetto era di legno, come si desume dal rinvenimento di elementi fittili di coronamento della cornice. Non sappiamo quanto tempo durarono i muri primitivi con zoccolo in pòros e pareti in argilla. Alla fine del VI o ai primi del V sec. a. C. furono aggiunti ornamenti marmorei, dei quali un cospicuo avanzo è un acroterio. Davanti alla fronte orientale del tempio fu costruito, sempre in blocchi di tufo, un grandioso altare, lungo oltre 22 metri. Il tempio d'Artemide, più piccolo e parimenti orientato ad E, era un sacello di tipo molto arcaico (òikos) a vano unico, di pianta quasi quadrata (m 8.65 × 8,40), del quale sussiste la parte inferiore dei muri a rozzi sassi che, forse, sopportavano uno zoccolo a blocchi squadrati di pòros, reggente, a sua volta, pareti di mattoni in argilla cruda. La fronte del tempio aveva due porte laterali larghe un metro ed una porta centrale larga poco più del doppio delle precedenti, suddivisa da una colonna nel mezzo (come nel tempio A di Prinià in Creta). Allineate con questa su di un'unica fila lungo l'asse dell'edificio, altre due colonne ne sorreggevano il soffitto all'interno. Anche queste colonne sono sfaccettate. A questo primitivo òikos appartiene una base in pòros con iscrizione dedicatoria: forse il piedistallo del simulacro di culto, che in una delle successive ricostruzioni del tempio fu sepolto sotto al portico, aggiunto in età romana. La copiosa stipe votiva, trovata dentro e intorno all'edificio, attesta che fino a circa la metà del V sec. a. C. durò il tempio in questa sua prima forma. È presumibile che, del pari che ad Apollo, anche ad Artemide i coloni therei abbiano elevato un altare all'aperto davanti alla fronte dell'òikos; ma i più antichi resti di quello esistente in situ sono del periodo successivo.
Una strada in pendio, nel suo tratto inferiore intagliata nella roccia del fianco settentrionale della collina occidentale, nel suo tratto superiore lastricata, collegava il tèmenos di Apollo con l'agorà. Nel punto in cui la via si dipartiva dall'agorà trovavasi lo Heròon, cioè il tempio funerario dell'archegeta fondatore Batto, come fondatore di città ed associato nel culto ai Tritopateri, cioè ai remoti antenati; Heròon da identificarsi, probabilmente, col maggiore di due edifici circolari nel lato O dell'agorà, costruito al di sopra di un recesso sotterraneo. La tomba di Batto I è ricordata esplicitamente da Pindaro (Pyth., v, 93-95) e si pensa sia rappresentata dall'effigie d'un tumulo circolare impressa nel conio di un'emissione di monete cirenee. L'altro edificio circolare credesi fosse venerato come la tomba di Onimasto di Delfi, ricordato accanto a Batto nell'iscrizione della stele dei Fondatori, già menzionata. Forse subito ad O del tempio funerario di Batto, che poggia proprio sulla roccia, finiva l'agorà e cominciava l'acropoli: Pindaro (Pyth., iv, 8) la chiama ἀργινόεις μαστός cioè bianco-lucente mammella. Probabilmente qui sorse il primitivo villaggio fortificato dei coloni therei provenienti da Aziris e qui furono le case di Batto e dei Battiadi, mentre la rimanente area del pianoro della collina dovette esser recintata precipuamente per ripararvi il bestiame di notte e all'annunziarsi di tempeste: al centro un'ampia radura serviva per le transazioni commerciali con gli indigeni, che venivano dall'interno del territorio, e per le adunate dei coloni (la futura agorà o piazza del villaggio).
Più tardi, forse già prima della seconda immigrazione di coloni greci, alla quale parteciparono soprattutto Peloponnesi, al tempo di Batto II (circa 570), l'abitato dovette estendersi a S-E dell'acropoli, sulla medesima collina, intorno all'agorà. È presumibile che durante questo periodo arcaico della storia culturale di C. sia stata intrapresa, sulla collina orientale, la costruzione del tempio di Zeus (detto dagli Inglesi "il Gran Tempio" per antonomasia a causa della grandiosità delle rovine).
L'edificio, che ha pianta rettangolare di m 69,65 × 31,80 alla linea d'euthyntéria, è un octastilo periptero con peristasi di 46 colonne doriche alte m 8,94 (fusto m 7,59 + capitello m 1,35) e largo (ambulacro esterno) m 5,95. L'interno è suddiviso, secondo il tipo canonico, in pronao, cella e opistòdomo; la cella a sua volta era tripartita per mezzo di due colonnati, la navata mediana era larga (m 5,70) più del doppio delle laterali (m 2,40). Il pronao ha due colonne in antis mentre l'opistodomo ne ha tre: è ciò che il Pesce crede il residuato d'un più antico naòs bipartito. Il materiale è in calcare conchiglifero locale. La dimensione colossale degli ortostati (m 5 × 2) è impressionante, come si esprime il Buttle. Le metope non avevano decorazione scultorea e nulla sappiamo di quella dei frontoni. Un martoriato frammento di rilievo, riadoperato in un rifacimento romano nell'interno della cella, può provenire dalla costruzione più antica, ma è troppo poca cosa per inferirne che esistevano un fregio a rilievo sul muro della cella o metope scolpite interne. Gli archeologi non sono d'accordo circa la data da assegnare alla costruzione del Gran Tempio, che oscilla fra il 540 a. C. (Dinsmoor), il 520-490 a. C. (Chamoux) e il 450-440 a. C. (Pesce). Oggi, dopo più matura meditazione sul profilo del capitello e sulle proporzioni del fusto della colonna, anche il Pesce si orienta verso una datazione non successiva alle guerre persiane, concordando sostanzialmente con lo Chamoux.
Non è impossibile che questo santuario rappresenti la continuazione, in forma ellenizzata, della tradizione di un culto di Ammone, già venerato dai Libî su quella stessa collina, prima dell'arrivo dei Greci.
Scultura. - Non sappiamo che forma avessero la statua "d'oro" (o di metallo o di legno dorato?) d'Afrodite inviata dalla cirenea Ladice sposa del faraone Amasis (658-525 a. C.), e quella, pure dorata, di Atena (o di Neith?) e la statua-ritratto policroma (o un ritratto dipinto su tavola?) inviate dallo stesso Amasis, come informa Erodoto (ii, 182). Il più antico monumento di scultura trovato in C. è la statuetta di un koùros: Apollo o un mortale dedicante la propria effigie al dio (secondo il Pernier sarebbe una figura muliebre del tipo delle kòrai, arcaicissima), proveniente dall'Apollonion e databile alla fine del VII sec. o al principio del VI sec. a. C., in ferro fuso.
La sua importanza è dovuta non tanto ad intrinseco pregio artistico quanto alla sua qualità di rarissimo documento di una tecnica, la cui esistenza è testimoniata da antichi scrittori: infatti Pausania (iii, 12) ne attribuisce l'invenzione a Theodoros di Samo, cioè a Theodoros il Vecchio (VII sec.). Ricordiamo a tal proposito che, secondo Erodoto (i, 25; cfr. Pausan., x, 16, 1-2), Glaukos di Chio fece i sostegni in ferro fuso del cratere argenteo d'Aliatte di Lidia, la cui cronologia (circa 605 a. C.) potrebbe essere la stessa della statuetta cirenea. Questa, pertanto, ci illuminerebbe circa relazioni esistite fra la C. arcaicissima e le isole ioniche dell'Egeo, a meno che non sia da ritenersi importata un po' più tardi dalla seconda immigrazione di coloni (575). Una testa di koùros, alta m 0,29, in marmo grigio azzurro, è stata anche essa trovata nel tèmenos di Apollo. Stretta e lunga su largo collo che si svasa in giù, capelli scendenti sulla nuca dietro le orecchie in lunghe ciocche perliformi; sulla fronte una frangetta di riccioli elicoidali, al di sopra dei quali una benda si perde sotto le ciocche retrostanti. I padiglioni piatti delle orecchie sono raffigurati secondo uno schema geometrico: dal lobo in forma di pastiglia rotonda montano due curve concentriche. Gli occhi sono a mandorla con palpebre spesse, la bocca piccola e sorridente. Questa testa va adeguata a una serie di sculture, trovate in varie località dell'Egeo (Thera, Taso, Milo, Samo, Perinto), esprimenti un comune ideale estetico di eleganza, aliena dal secco e dal massiccio e distinta, nello stesso tempo, dai rudi prodotti continentali, dalla stringata calligrafia attica e dalla mollezza delle figure create nella Ionia anatolica. Il koùros, cui apparteneva questa testa cirenea, può essere stato scolpito nel decennio 600-590, cioè durante il primo periodo della storia di C., quando la πόλις era ancora composta solamente dai primi immigrati therei, e potrebb'essere stato dedicato dallo stesso Batto archegeta o dal suo figlio e successore Arcesilao I e, comunque, mostra che la nuova città, benché confinata alla periferia del mondo greco, manteneva attivi contatti con la civiltà delle Cicladi. Il koùros n. 99, acefalo, in marmo a venature bluastre a grossa grana, proviene anch'esso dal tempio d'Apollo. Delle gambe (che sono adesso spezzate fino al ginocchio), la sinistra era mossa in avanti; le braccia pendevano inerti aderenti ai fianchi e non esistono più. Il rilievo dell'osso iliaco sulle anche si prolunga direttamente verso il pube, delimitando il ventre con un disegno a V, la cicatrice ombelicale è un'ellissi incisa. In alto al dorso sussiste l'arresto orizzontale della capigliatura a piccole ciocche separate. Per lo stile fluido d'un'eleganza un po' molle questo koùros è tanto simile a quello samio dedicato da Leukios da indurci a vedere, nell'esemplare cireneo, una più tarda creazione dello stesso artista, 550-540 a. C.
La presenza in C. d'un koùros di tipo samio, databile agli anni 550-540, conferma la storicità di quei rapporti fra C. e Samo, già testimoniati dalle fonti letterarie per l'epoca di Policrate e di Arcesilao III (530-525).
Due torsi acefali di koùroi, nn. 95 e 98, in marmo pentelico, sono stati trovati nel tèmenos d'Apollo presso l'altare d'Artemide. Ambedue muovono in avanti la gamba sinistra. Il n. 95 è lavorato sul dorso e sui fianchi solamente con la gradina, senza essere rifinito con lo scalpello. Il modellato dei pettorali e del ventre è come nel già descritto koùros 99, ma meno accentuato; l'arcata epigastrica è più alta e più acuta, le intersezioni sono in numero di quattro; il disegno dell'ombelico è ad arco superiore acuto; la chioma arrestavasi in linea orizzontale sulle spalle. Del n. 98 s'indovina l'accurata rifinitura nonostante la corrosione della superficie. Pettorali e addome sono modellati decisamente, le intersezioni aponevrotiche sono tre da una parte e dall'altra della linea alba; ben accentuata è l'arcata epigastrica e l'ombelico è ad arco pieno superiore. Sul dorso, rifinito come il davanti, sussiste l'estremità della chioma ricadente sulle spalle e annodata orizzontalmente. Elegante, pur senza escludere l'espressione del vigore, lo stile di questi due koùroi, scolpiti con notevole sicurezza e con precisione di disegno, sembra richiamare l'arte attica. Niente sappiamo delle relazioni fra C. ed Atene. al tempo in cui possono datarsi i due koùroi in esame: 540-530 a. C. (età di Pisistrato e di Batto III o Arcesilao III).
La presenza in C. di sculture attiche dimostrerebbe fino a qual punto la metropoli greco-libica fosse aperta agli influssi culturali provenienti da Atene.
Un Gorgonèion alto m 1,34 in marmo bianco, costituiva l'acroterio centrale del tempio d'Apollo. È conforme al tipo tradizionale arcaico, ma senza le zanne, inscritto in un cerchio e incorniciato da volute e palmette. Le teste di serpente in metallo erano di riporto. La base consta di due grandi spirali tangenti, ciascuna delle quali si sviluppava in alto in tre spirali minori: di esse solamente la più alta è conservata. Anche le due spirali superiori sono tangenti al disco gorgonico e al punto del loro incontro nasceva una palmetta a coronamento dell'insieme, mentre altre palmette completano la decorazione al nascimento d'ogni spirale. Ai centri di queste ultime erano applicate rosette metalliche. La parte posteriore, solamente sbozzata, è tagliata a piano obliquo per assicurare la stabilità dell'acroterio nella sua messa in opera. In epoca bizantina questo Gorgonèion fu utilizzato come mascherone da getto di fontana, la bocca e il naso furono mutilati e le quattro spirali laterali e la palmetta apicale furono asportate. Malgrado le manomissioni questa scultura è ancora ammirevole per la nobiltà del lavoro coscienzioso e preciso. Il tipo della Medusa non è più quello dell'alto arcaismo, come si rileva dal fatto che gli occhi e la bocca non sono di grandezza smisurata; ma più che i particolari del volto, conformi a un modello tradizionale, son quelli della chioma e della decorazione a consentire una datazione tra gli ultimi anni del VI e i primi del V secolo a. C.
L'acroterio, che il re Arcesilao III fece elevare sul fastigio del tempio più importante della πόλις doveva produrre un grandioso effetto di contrasto fra il vetusto motivo della maschera apotropaica ravvivata dai serpentelli dorati e l'elegante ornato che l'incorniciava con le sue spirali policrome.
Da un ipogeo prossimo alla città lungo la via d'Apollonia proviene la metà superiore di stele funeraria, alta m 0,79, larga m 0,605, spessa m 0,20, dov'è rappresentato a bassorilievo un guerriero stante, nudo, imberbe, visto di profilo a destra, con le braccia leggermente piegate all'altezza delle anche, reggente nella mano destra (tuttavia a palma aperta) un giavellotto in posizione quasi verticale. Sul cranio rotondo i capelli sono ordinati a zone concentriche, delle quali la periferica, passante sulla fronte e sulla nuca, è più spessa ed ha un ricciolo davanti all'orecchio. La corrosione della superficie ha fatto perdere il modellato del nudo. Questo monumento appartiene alla categoria delle stele funerarie alte e strette, tipiche della seconda metà del VI sec., specialmente in Atene: la sua altezza totale doveva essere di circa m 1,70. Tagliata in calcare locale conchiglifero a grossi nummuliti (materiale della maggior parte degli edifici di C.), è questa stele uno dei primi documenti attestanti l'esistenza di officine locali di scultori ed è confrontabile con rilievi attici arcaici: più tarda della stele di Aristione questa cirenea è simile, per i caratteri stilistici, alla base della Palestra e databile al 510 circa. Due kòrai acefale, in marmo pentelico, trovate nell'Apollonion, avevano le stesse misure (altezza attuale un metro), sono dello stesso tipo e della stessa tecnica e dovevano in origine essere collocate simmetricamente l'una di fronte all'altra, perché muovono in avanti l'una l'avambraccio destro e la gamba sinistra, l'altra l'avambraccio sinistro e la gamba destra. Vestono costume ionico. Le forme sono pienamente modellate dal chitone cinto ai fianchi e chiuso alle spalle ed alle braccia da fibule metalliche di riporto. Inferiormente alla cintura, dal punto in cui una delle mani regge la veste, s'irradia a ventaglio una serie di pieghe, espresse con semplici incisioni. Al di sopra del chitone indossano una sciarpa, di traverso da una spalla all'ascella opposta, con largo risvolto a pieghe verticali: due lembi ricadono lungo le cosce formando due serie di piegoline piatte a zig-zag. Tre ciocche increspate di capelli scendono d'ambo i lati del collo, due inquadranti ciascun seno, la terza sul braccio; sul dorso la chioma scende fin quasi alla cintola. Si datano nel decennio 490-480, epoca in cui la plastica mira ormai ad esprimere sobriamente i volumi del corpo, anche se li subordina ai calcoli d'una sottile simmetria.
Durante il regno di Batto IV, nel campo politico lo stato si piega alla Persia, ma vivo rimane l'influsso artistico dalla Grecia in una serie di sculture di stile severo.
Dal thesauròs del secondo Artemision proviene una testina muliebre in pòros corrosa alla superficie e scheggiata, alta m 0,069, policroma ed imperniata in un busto (che manca). Capelli diademati e spartiti nel mezzo scendono sulla fronte con sette e sette ondulazioni mentre la massa dietro è del tutto liscia. Occhi a mandorla sporgenti e strette labbra allungate e carnose che si sollevano agli angoli, zigomi e mento molto pronunciati. È databile tra la fine dell'arcaismo e gli inizî dello stile severo (primi decennî del V sec. a. C.). Al primo ventennio del V sec. a. C. si riporta una statua funeraria alta m 0,51 in calcare bianco locale a grana fine ed omogenea. È un busto muliebre acefalo, con ambo le mani raccolte sul petto. Veste peplo con apòptygma fluttuante, che forma pieghe piatte sull'addome. Al di sopra del peplo un manto a scialle copre le spalle, ricadendo d'ambo i lati in due lembi eguali, da cui escono gli avambracci. La parte di dietro non è lavorata, e quindi non doveva essere visibile. È questo il più antico esemplare di una numerosa serie di consimili mezze figure, proprie di C., lo sviluppo delle quali si può seguire ininterrottamente lungo i secoli fino all'età romana.
Notevolissima una testa di koùros di stile severo, alta m 0,19, in marmo bianco a media grana, pertinente ad una statua meno grande del vero. Nonostante lo stato precario di conservazione si può riconoscere nello stile di questa scultura una somiglianza con quello del celebre Efebo di Kritios. Pur tenendo conto della differenza nel modo di rappresentare la parte anteriore della chioma (nella scultura cirenea i riccioli chioccioliformi son retaggio di una più antica tradizione, mentre le lunghe trecce a corona intorno al capo dell'Efebo biondo, dello Zeus di Histiaea e dell'Apollo dell'omphalòs corrispondono ad una moda ben nota in Attica), possiamo attribuire questa scultura ad un artista di prim'ordine, formatosi nella stessa cerchia dello scultore attico Kritios.
Fra le sculture del V sec. a. C. ricordiamo una testa muliebre diademata alta m 0,2 in marmo bianco leggermente ferruginoso, che ha preso una bella patina color rosa cupo. Ai lobi delle orecchie forellini per le inaures. Occhi con le palpebre superiori spesse, bocca larga, mento forte; il viso ha una rara purezza di linee. Il tipo della chioma, quadripartita in masse regolari leggermente ondulate e simmetriche, scendenti verticalmente dietro le orecchie, fornisce un preciso dato cronologico, poiché ricorre nella ceramografia attica del 475-460 con l'Amazzone vinta del Pittore di Pentesilea e con l'Artemide che uccide Atteone del Pittore di Pan. Altri elementi stilistici, come a dire pienezza di forme, nobiltà di proporzioni, gusto per la "calligrafia" tracciata in linee rigorose e pur su volumi perfetti, concorrono a far classificare quest'opera nella corrente attica. Forse la statua appartenne ad un simulacro di culto o a una sfinge. Notevole un rilievo alto m 0,50, in marmo pentelico, scolpito in ambedue le facce a bassorilievo. Faccia A, scena a a sinistra: una figura virile imberbe, ammantata, siede, vista di profilo, su un klismòs; posa le mani sulle spalle di un'altra figura virile - barbata, seminuda -, che gli siede quasi di fronte e che ha in mano un bastone. Scena b a destra: un efebo nudo, visto di profilo a destra sta in piedi e tende la mano destra verso una figura virile ammantata, assisa su klismòs (le parti superiori di queste figure non esistono più). Faccia B: tutto il campo è occupato per lungo da una sola figura virile seminuda, sdraiata a banchetto, la testa a destra, il gomito sinistro appoggiato a un pulvinare, e reggente nella sinistra una phiàle. Inferiormente un alto listello contiene un'iscrizione dedicatoria di L. Orbios, πυλοκλειστής (qualifica di funzionario subalterno) del tempio d'Apollo, alle Horai, in onore dei sacerdote eponimo Pausania, durante la cui carica gli dèi concessero ai Cirenei la vittoria in una guerra contro i Libî. Di queste scene sono state proposte varie interpretazioni, la più recente delle quali sarebbe la seguente. Aa: un medico cura, mediante un massaggio, un malato che accusa un dolore alle spalle. Ab: un medico (probabilmente lo stesso, cioè il mortale dedicante o un Asklepios imberbe?) esamina la mano d'un malato. Questo rilievo appartiene al periodo 470-450, opera vigorosa ed armoniosa d'un maestro d'educazione attica. B: il sacerdote Pausania è raffigurato sul suo letto conviviale. Opera piatta di stile arcaistico d'età augustea o giulio-claudia di un mediocre artefice che, per commissione di L. Orbio, riutilizzò, lavorandola a tergo, la lastra già scolpita circa quattrocentocinquant'anni prima, forse come ex-voto o ad Asklepios o ad Apollo Pean (si ricordi che la medicina fioriva a C. nel V sec., come canta Pindaro (Pith., v) mentre Erodoto afferma che i medici cirenei eran secondi solo a quelli di Crotone).
A proposito della scultura cirenea in marmo di questo periodo: anzitutto è da notarsi che le opere artisticamente pregevoli (e non son poche, a prescindere da quelle in metallo non conservatesi fino a noi) sono in marmo, materiale inesistente nella regione cirenaica, la quale dava solamente quel calcare conchiglifero friabile giallastro, così poco adatto alla scultura e perciò usato precipuamente per decorazioni architettoniche e per prodotti d'artigianato (stele funerarie, piccoli ex-voto, ecc.). Il marmo era importato sia dalle Cicladi sia dall'Attica e non poca spesa doveva costare il trasporto dei pesanti blocchi dallo scalo in su per venti chilometri ed a seicento metri di quota, onde basterebbe già questa sola considerazione a darci un'idea dell'opulenza della città. In secondo luogo rileviamo che C. fu nei primi tempi della sua vita in relazione con la madrepatria e con le altre isole Cicladi, ma che, a decorrere da circa la metà del VI sec., vi prevalse l'influenza attica e questa continuò ininterrotta anche dopo la fine dei Battiadi, benché C. fosse colonia dorica. Influenza attica dovuta in partenza, probabilmente, alla politica d'espansione commerciale di Pisistrato, ma poi svoltasi indipendentemente dalle vicissitudini politiche e spiegabile solamente in virtù dei rapporti economici, che legarono per lungo tempo il Pireo e Atene a Cirene.
Merita ancora di essere ricordata una singolare statuetta terzina in marmo pario policroma, rappresentante una figura muliebre stante, in atteggiamento rigidamente ieratico (inguainata in un costume funerario press'a poco egittizzante, al di sopra del quale indossa un ampio manto aperto sul davanti) e attributi isiaci. Al momento della scoperta i colori eran conservati con una freschezza straordinaria. Fra le varie interpretazioni e datazioni sembra più convincente la tesi del Ferri: la statuetta rappresenterebbe Iside, adorata in C. fin dall'età arcaica con un culto misterico epicorio greco-libico, attestato da Erodoto ed i cui lineamenti ci sono ignoti. Come in genere le divinità titolari di misteri (che sono d'origine agraria), anche questa era soggetta ad una morte e ad una rinascita periodiche, relative all'avvicendarsi delle stagioni, e che realizzavansi tangibilmente davanti agli iniziandi, deponendo in autunno l'idolo nella tomba cultuale e traendolo fuori ad ogni primavera; ogni "risurrezione" implicava una nuova tinteggiatura della statua. Questa sarebbe d'arte arcaica locale, "idolo coloniale", usata per il culto fino al IV sec. d. C., epoca documentata dalle monete trovate nel sacrario dell'acropoli, dove quest'Iside era conservata. Così spiegherebbesi l'ottimo stato di conservazione della policromia, sebbene per altri l'Iside debba scendere al tardo ellenismo. È infine degno di menzione un pregevole bronzetto (una testina barbata e diademata alta m 0,102), trovato nel tempio di Apollo. Dei bulbi oculari, ch'erano di riporto, sussiste la scierotica dell'occhio sinistro, ch'è una foglia di bronzo. Malgrado la superficie sia corrosa, è ancora visibile il lavoro accurato del cesello. L'impressione singolare di vita di questo bronzetto fa ritenere che esso sia un ritratto, creato apportando sottilissime modifiche a un tipo ideale (capelli e barba corti, lieve asimmetria delle guance, zigomi accentuati, sguardo diretto a sinistra, labbra grosse e volitive, forma intenzionalmente banale delle orecchie), per cui questa testina può classificarsi fra gli incunaboli del ritratto greco in pieno V sec. D'importanza decisiva è il diadema, in forma di benda di stoffa non annodata ma cucita, senza lembi e ornata sul davanti da una grossa gemma, sormontata da un oggetto verticale scomparso (cfr. il diadema di Cadmo su cratere di Bologna). Il carattere regale di questo diadema (di tipo orientale), associato al carattere individuale del viso e al dato di scavo (la testina fu scoperta presso l'angolo S-O del tempio a una profondità tale da far dedurre che là fosse stata gettata prima della costruzione del secondo Apollonion) hanno consentito al Pernier di proporre di riconoscere in quest'opera il ritratto di Arcesilao IV, ultimo re di Cirene. Lo stile è simile a quello della testa di centauro della metopa IV del Partenone, il profilo a quello d'un ipparca del fregio del medesimo edificio e si può quindi ammettere che l'influsso attico continuasse ad esercitarsi in C., almeno in questo campo dell'arte, ancora alla fine della monarchia. Questo ritratto mostrerebbe dunque il re verso il 440, fra i quaranta e i cinquant'anni.
Fra i monumenti della scultura architettonica è degna di nota la meglio conservata delle spalliere in pòros dell'altare di Artemide, decorata a rilievo con la raffigurazione di Apollo che, incitato da Artemide, saetta i Niobidi; di questi resta uno solo che, caduto in ginocchio, si ripara col manto. L'esame di questa composizione, oltre che dello stile dell'ornato vegetale e della sagoma della lastra, hanno indotto lo Anti a datare il rilievo al 450 a. C.
Ceramografia. - Per un certo tempo gli archeologi hanno assegnato a C. la produzione dei vasi riconosciuti ora come laconici in considerazione del fatto che figurazioni di argomento cirenaico appaiono su alcuni di essi (si veda il "quadro storico" del re Arcesilao, la ninfa che strangola il leone, la ninfa con il silfio, le Esperidi). Ora quella che è stata chiamata l'eresia cirenaica non ha più sostenitori. La scarsa ceramica rinvenuta a C. presenta importi greco-orientali e laconici in misura praticamente equivalente a quanto s'incontra a Naukratis.
Monetazione. - In alcune delle più antiche monete cirenee appare, per la prima volta nella storia dell'arte greca, il profilo di Zeus Ammon: testa umana barbata con corna d'ariete.
Il culto del dio egiziano, e propriamente tebano, Ammone, erasi diffuso, al tempo dei sacerdoti-re della XXI dinastia (sec. XI a. C.), nelle regioni finitime dell'Egitto, quali la Nubia e le oasi libiche, fra cui specialmente Siwah (detta poi dai Greci Ammonion), dove il dio dava responsi oracolari. La celebrità nel mondo greco di quest'oracolo fu dovuta specialmente alla propaganda fattane dai Greci di C., i quali avevano adottato tale culto assimilando al loro Zeus il dio egizio-libico Ammone. In Egitto il dio era associato all'ariete (cfr. la parola libica amün pecora) e raffigurato o con testa d'ariete o con testa antropomorfa ma con corna d'ariete. Da questa seconda variante del tipo egizio dovette derivare il tipo greco del dio, la cui prima creazione sarà stata fatta, si presume, a C. almeno cent'anni prima che Kalamis scolpisse la statua del dio dedicata da Pindaro in Tebe di Beozia. Non abbiamo idea del tipo statuario arcaico né sappiamo chi sia stato l'artefice della statua di Ammone su carro dedicata dai Cirenei a Delfi (Paus., x, 13).
Altro simbolo proprio della monetazione di C. di questo periodo è la figura del silfio, sia come pianta sia come frutto, in forme stilizzate, s'intende, secondo il gusto greco arcaico. Altri simboli sono: Eracle con una delle Esperidi; la mèta dell'ippodromo. Verso la fine di questo periodo appare una testa virile imberbe con corna d'ariete e con o senza diadema, forse un dio libico, già associato nel culto ad Ammone nel santuario di Siwah, poi assimilato dai Greci ad Hermes.
C) Periodo repubblicano (440-322 a. C.). - Per la nostra conoscenza di questo periodo, che va dalla caduta della monarchia all'epoca di Alessandro Magno, non esistono fonti letterarie. Da documenti epigrafici desumiamo che C. si diede una costituzione democratica e che fu travagliata da lotte interne di partiti oltre che da guerre esterne contro i Libî. Varie iscrizioni ricordano vittorie di capi militari cirenei. I monumenti archeologici attestano la continuità del benessere materiale. Anzi durante il IV sec. la floridezza economica di C. raggiunse il più alto livello, documentato dalla stele detta dei Donatori, datata a circa il 390 a. C., da cui risulta che, in occasione d'una grave carestia di cereali, C. inviò 400.000 ettolitri di grano a 41 città della Grecia, fra cui figura per prima Atene. Questo periodo coincide col fiorire del pieno classicismo nella storia dell'arte greca. In C. ha vita la scuola filosofica d'Aristippo. Cireneo è pure Teodoro il matematico, che figura nel Teeteto platonico. C. raggiunse nel IV e III sec. a. C. il massimo splendore.
Architettura. - Il vetusto tempio d'Apollo fu ricostruito in base ad un piano più grandioso. La cella conservò, sembra, la sua primitiva disposizione. Fu costruita una peristasi esterna, di circa un metro più alta dell'interna che fu interrata, formata di 6 × 11 nuove colonne a 20 sfaccettature. Il muro perimetrale non fu soppresso del tutto ma radicalmente restaurato, e le vecchie parti in mattoni e legno sostituite con pilastri in muratura. Due gradinate sorsero nella parte mediana della facciata: ascendente l'esterna, discendente l'interna, le quali permettevano d'accedere comodamente alla cella, il cui piano pavimentale fu mantenuto al livello primitivo. Più tardi, ai piedi della gradinata interna fu disteso, a guisa di tappeto, un mosaico policromo.
L'altare d'Apollo fu ampliato e rivestito di marmo pario. Lungo alla base m 22,88, largo m 4,95, alto m 1,934, consta di un podio, cui accedesi per tre scalini da O, e di una mensa, aperta dalla parte che guarda il tempio. Degli scalini, i due inferiori sono limitati a N e a S da piccole fiancate, terminanti in pilastrini, su ciascuno dei quali si ripete la dedica Φίλον ᾿Αννικέριος ᾿Απόλλονι ἀνέϑηκε (probabilmente trattasi di quello stesso Anniceri, il ricco cittadino cireneo, che riscattò Platone venduto come schiavo). Tali pilastrini dovevano sostenere oggetti fissati con grappe, delle quali si vedono gli incavi. Lo scalino al sommo del podio ha la larghezza dell'intero altare. La mensa, alta m 1,224, consta d'uno zoccolo massiccio a gola diritta e rovescia, di un filare d'ortostati e d'una elegante cornice; era inoltre sormontata da una spalliera continua che la chiudeva sul lato orientale; sui lati brevi: spalliere (cornua) sollevate a triangolo e sporgenti agli angoli con volute. Sulla spalliera orientale è incisa la massima delfica Γνώϑι σαυτόν῾. A mezzo, fra altare e tempio, è incastrato nel terreno un blocco di marmo, cui era fissato un anello metallico per legare le vittime dei sacrifici.
Anche l'Artemision fu ampliato. Il secondo Artemision conserva la forma e perfino la lunghezza dell'òikos arcaico (m 8,65) nella nuova cella, ma ne riduce la larghezza a m 5,70 riguadagnando l'area perduta nella cella con l'aggiunta di un vestibolo profondo m 4,50. Una sola porta si apre sia nella facciata, sia fra vestibolo e cella. Le fondamenta del secondo Artemision poggiano sui ruderi del primo solamente nei punti d'intersezione e all'angolo S-O del vestibolo, dove poteva trovarsi la sostruzione d'una colonna dell'òikos primitivo. Quanto resta della costruzione originaria basta ad assicurarci che il tempio non era in antis.
L'assenza d'ogni traccia di colonne in pòros o delle loro basi esclude, inoltre, che esso fosse prostilo o che avesse sostegni per il tetto nell'interno della cella. Questa, essendo più stretta dell'òikos primitivo, non aveva bisogno di colonne interne. Il secondo Artemision conservava quindi la forma d'un òikos, ma a due vani, tipo che in C. ritrovasi anche nel santuario di Demetra sull'agorà. Portale marmoreo con köma eolico e fascia ad ovuli finemente scolpiti: sull'architrave sussistono le prime parole della dedica ΤΑΝ ΟΠΑΝ (= τὴν ὀπήν, accusativo retto da un verbo dedicare o costruire). Questa era forse un'apertura praticata nel soffitto per illuminare l'interno quando la porta d'ingresso era chiusa. Il pavimento era di lastre quadrangolari ben squadrate, di grandi dimensioni (media m 1,50 × 0,95). Varie basi in pòros di statue sono state rinvenute in diversi punti del tempio. All'angolo N-E del vestibolo, esternamente, è appoggiato un cassone di lastre di tufo poste di coltello mentre un'altra lastra faceva da coperchio: era un piccolo thesauròs che si trovò pieno di offerte votive. Alla distanza di circa m 32 dalla facciata orientale dell'Artemision, e a questa parallelo, fu costruito l'altare a blocchi di pòros, che non ebbero mai un rivestimento marmoreo. Era in origine lungo circa una quindicina di metri. Per quattro scalini accedesi alla mensa, formata da tre filari di blocchi sovrapposti, dei quali l'inferiore fa da zoccolo ed è sagomato a köma lesbico non intagliato ma forse, in origine, dipinto. Il sommo filare fa da piano della mensa ed ha l'orlo superiore aggettante in funzione di cornice arrotondata. Alle due estremità sui lati corti ergevansi spalliere (o cornua come le chiama Vitruvio, De arch., iv, 8) in pòros, delle quali si è ritrovata una lastra quasi intera e frammenti delle altre tre, che accoppiavansi in ciascun lato.
A quest'epoca sembra risalire la costruzione d'un donario appoggiato al muro meridionale del secondo Artemision, col quale forma infatti un unico complesso. Ancora nel tèmenos d'Apollo fu costruito nel IV sec., con la decima del bottino d'una vittoriosa campagna militare (forse contro i Libî?), un piccolo edificio votivo di stile dorico in tufo, detto Strateghèion, perché dedicato da tre strateghi, Aristide figlio di Bakal, Autobio figlio di Anioco e Aristofane figlio di Paraibatas (quest'ultimo ricordato in altra iscrizione come triacatiarca, cioè comandante di una squadra di 300 giovani). Ricordiamo a tal proposito che in questo medesimo periodo i Cirenei dedicano a Delfi un thesauròs. Nel medesimo sacro recinto forse risale a questo periodo la prima costruzione del Ploutonion, di cui sussiste l'alto krepìdoma di ottimo lavoro in tufo giallo-biancastro ben compatto, sul quale lungo il lato meridionale conservasi anche l'ordine degli ortostati. La facciata attuale appare rifatta in età romana. È presumibile che contemporaneo al Ploutonion sia il tempietto di Persefone benché le strutture di questo si presentino del tutto romane, sotto di esse si vedono avanzi di altre più antiche costruzioni. Il Ploutonion doveva comprendere ambedue i tempietti. Davanti al tempietto di Persefone e ad esso parallelo è un altare in tufo a tre scalini e mensa. Nel IV sec. a. C. fu eretta, a S della fronte dell'Apollonion, la colonna votiva di Pratomedes figlio di Polymnis, in forma di caule di acanto (o forse silfio?) in marmo pario sopra un basamento quadrangolare, nelle cui facce sono scolpite le immagini dell'offerente con la sua famiglia ed alcune divinità, di lavoro corrente. A questo periodo risale, forse, la costruzione del teatro, ad O del Piazzale d'Apollo.
Nell'agorà è databile al IV-III sec. la parte più antica del tempio di Demetra, nobilitato da un bel portale di marmo, elegantemente decorato ad ovuli e palmette (davanti all'àgalma della dea è stato trovato il grosso blocco marmoreo, contenente la celebre iscrizione dei conti dei Demiurgi). La forma architettonica di quest'agorà è tra il tipo classico preippodameo (esempio la vecchia agorà d'Atene) e il tipo delle agorài ellenistiche di Priene e di Pergamo.
Scultura. - Non sappiamo che aspetto avesse il monumento dedicato dai Cirenei a Delfi, in cui era rappresentato un carro sul quale il re Batto I eroizzato era incoronato da Libia mentre la ninfa Kyra guidava i cavalli, opera di Amphion di Cnosso (attivo tra il 428 e il 424), come ci informa Pausania (x, 15, 6).
Forse acroterio del tempio di Zeus può essere stato un gruppo di Borea che rapisce Orizia, del quale fu ricuperato un torso acefalo marmoreo sulla collina orientale. Il tipo è quello già ricostruito dal Furtwängler in base al frammento di Delo.
Numerose basi in marmo bianco o azzurro, con iscrizioni a bei caratteri del V e del IV sec., attestano la ricchezza dei cittadini, che potevano far venire d'oltremare piedistalli tanto costosi per le statue. Una di queste basi contiene un iscrizione databile alla fine del V sec.: dopo una dedica ad Apollo leggesi un "ηλ ...ς ἠργάσσατο" in cui il Ferri propone di leggere il nome di Alkamenes (ipotesi contrastata dall'Oliverio, dal Picard e dallo Chamoux).
È in questo periodo che si fanno frequenti le famose statue muliebri marmoree a mezzo corpo, panneggiate e in atto di svelarsi, alcune delle quali presentano al posto del volto una superficie liscia o addirittura una forma cilindrica priva di ogni accenno anatomico. Queste figure aprosope sono tipiche della necropoli di C. e rappresenterebbero, secondo un'ipotesi del Ferri, il defunto assimilato alla dea Demetra o ad una divinità incerta, che ha di femminile solamente quell'intonazione esteriore, che sembra dovuta al fatto dell'esser Demetra la dea preponderante e all'essere considerato "femmina", nella concezione mistica, l'iniziando che muore per poi rinascere a novella vita.
Tali statue rappresenterebbero il punto d'arrivo di tutto un processo evolutivo, all'inizio del quale starebbe la tomba a tumulo (simbolo dell'utero cioè della terra come madre) accogliente su di sé un oggetto di una data forma (menhir o stele o colonna o vaso), il quale, per progressiva antropomorfizzazione, giungerebbe a concretarsi artisticamente nell'effigie dello stesso defunto assimilato a Γῆ Μήτηρ, cioè alla Terra Madre personificata, cioè a Demetra che ha accolto il morto nel suo ventre: ventre che, corrispondendo all'interno della terra stessa nella sua immensità, non è rappresentato plasticamente, per cui la statua appare solamente dall'addome in su. Secondo lo Chamoux la figura aniconica, in origine, era destinata ad appoggio dell'anima del defunto errante per l'aria mentre il corpo giaceva sotterra. Partecipe dell'essenza soprannaturale dell'anima, questo sostituto (kolossòs) era oggetto di culto: lo si vestiva, lo s'imparruccava e gli si offrivano cibo e bevanda. L'antropomorfismo, proprio della mentalità greca, determinò un'assimilazione fra il kolossòs aniconico e l'immagine d'una dea funeraria, forse Persefone. Ma, fino alla fine, statue senza faccia attestano il persistere tenace di un rito antichissimo e tradizionale.
Una statuetta acefala marmorea, trovata nel tempio d'Apollo, un frammento di statuetta in marmo pentelico trovato sull'agorà, un grande altorilievo marmoreo anche esso proveniente dall'agorà, una testa marmorea di tartaruga più grande del naturale, documentano il ripetersi d'un tipo statuario d'Afrodite Urania (stante, panneggiata, un piede poggiato sulla tartaruga, un braccio poggiato sopra un'erma arcaizzante), segno, secondo l'Anti, che l'originale, una statua attica degli ultimi decenni del V sec. a. C., era in Cirene.
In tale periodo fu forse creato in C. il tipo artistico di Aristeo (dio preomerico dei venti e delle piogge, venerato in molte regioni della Grecia e importato dai Therei di Batto o dai Peloponnesi a C., dove fu adorato come divinità ctonia e dove la sua leggenda s'innestò a quella di Apollo e della ninfa Kyra): figura stante, seminuda, simile all'Asklepios giovane, con in più la corona turrita. Questo attributo deriva forse da una tradizione (collaterale a quella erodotea di Batto fondatore), che indicava Aristeo come fondatore di Cirene.
Il tipo statuario è documentato da varî frammenti e statuette (torsi, teste) trovati per la maggior parte in C. (di un bronzetto della Bibliothèque Nationale di Parigi si ignora la provenienza) e databili lungo un lasso di tempo, che va dal V sec. a. C. all'epoca romana. Una testa di statua marmorea d'Artemide giovinetta, con alto nodo sul vertice, tipo del IV sec., attesta l'identificazione del secondo Artemision, dove fu trovata. Al IV sec. son databili varî rilievi marmorei, dov'è raffigurata una quadriga al galoppo veduta di scorcio; trattasi di ex-voti per vittorie riportate in agoni ippici, ma non è impossibile che qualcuno sia stato destinato ad ornare il sepolcro del vincitore.
Originale del pieno IV sec. a. C. è una bella testa bronzea, che lo Smith e il Porcher portaron via da C. e che trovasi nel British Museum. È il ritratto di un ignoto nobile libio, nel quale l'artista osservò i caratteri etnici: fronte obliqua, occhio a mandorla, labbra tumide con pelurie rada e lanosa, che s'estende alle guance.
Pittura. - Al IV sec. a. C. sono state datate recentemente dal Rumpf alcune metope dipinte, pertinenti alla facciata d'una tomba rupestre in forma di naìskos e conservate nel Museo del Louvre. È una serie di quadretti, nei quali son forse raffigurati varî momenti della vita (terrena o ultraterrena) della defunta, questa sempre accompagnata da un'altra figura di giovinetta (di vecchio nell'ultima metopa) in varî atteggiamenti. I colori si sono scuriti per ossidazione, onde le figure furono malamente interpretate come donne di razza negra. Gli atteggiamenti e le proporzioni ed, in generale, il modo di dipingere posson confrontarsi a quelli delle figure dipinte sui vasi attici e italioti del IV sec. La rappresentazione del paesaggio consiste tutta in un nudo albero.
Ceramografia. - Gran numero di vasi attici, fra cui anfore panatenaiche ed altri vasi, decorati nello stile detto di Kerč, trovati nella necropoli, concorrono a testimoniare l'esistenza di relazioni assai strette che legavano C. ad Atene anche in questo periodo.
Monetazione. - Dopo la caduta della monarchia la monetazione forse s'interrompe, poi si riprende, ma con due notevoli mutamenti. La bella testa d'Ammone di stile severo, già adottata dai due ultimi re, è sostituita da un tipo più evoluto ma meno bello. Inoltre all'unità attica di peso, usata per il tetradracma al tempo della monarchia, succede una minore unità, detta asiatica o milesia. A prescindere da questi particolari, la monetazione diventa la più ricca ed abbondante e rivela legami con altre città e la costituzione d'una lega fra C. e la sua quasi perpetua rivale Barce, roccaforte dell'elemento libico. Continua l'emissione della moneta con la testa dello Hermes cornuto. Altri simboli, come ad esempio, la quadriga, il granchio di mare (indicante che la zecca trovavasi in un centro portuale, in questo caso ad Apollonia), sono simili a quelli delle monete di altre città greche. Frequente nelle emissioni cirenee di questo periodo è anche uno Zeus stante, panneggiato, reggente lo scettro con la sinistra e la phiàle con la destra abbassata in atto di libare accanto ad un thymiatèrion o candelabro. La finezza dell'incisione raggiunge il suo più alto grado di perfezione e riflette, sia pure in proporzioni minuscole, i valori formali del rilievo greco d'età classica. Comincia ad apparire la leggenda: prima il nome della città, di solito abbreviato ΚΥΠΑ (ναιῶν), poi anche i nomi dei magistrati supremi, sotto il cui governo avveniva l'emissione: Akesios, Aristomeles, Euphrios, Iason, Kydias, Nikias, Polianthes, Timagoras e tutti gli altri di solito al genitivo, cui sottintendesi preposta la preposizione epì.
D) Periodo ellenistico (322-30 a. C.). - Nel 331 C. spontaneamente s'era sottomessa ad Alessandro Magno; cavalieri cirenei avevano guidato Alessandro all'oasi d'Ammone. A decorrere da questa epoca abbiamo di nuovo una documentazione più storica, più precisa.
Dopo la disgregazione dell'impero macedone, la Cirenaica, benché nominalmente pertinente al territorio soggetto ai Lagidi, è preda successivamente di varî condottieri di ventura, miranti a liberarsi dal controllo politico dei re d'Egitto. Che si chiamino Tibrone, Ofella o Magas, che la dittatura dei due primi sia breve e finisca tragicamente e quella del terzo sia lunga e prospera, è comune a tutti costoro il metodo di governo adottato: assolutismo fondato su una fazione e sulla forza militare. Questa situazione cessa quando la giovane principessa Berenice, figlia di Magas, si sbarazza d'un fidanzato impostole ma non gradito, facendolo assassinare, e sposa l'erede al trono dei Lagidi, il futuro Tolomeo III Evergete, portandogli in dote la Cirenaica, che così viene politicamente riannessa all'Egitto non più soltanto di nome, ma anche di fatto.
C. passa alla dinastia dei Lagidi. La traccia più vistosa e durevole del governo di questi rimasta in Cirenaica è il ribattezzamento di varie città, che ora assumono nomi dinastici: Evesperide diventa Berenice, Teuchira diventa Arsinoe, lo scalo portuale di Barce diventa Tolemaide. Assegnata da uno degli ultimi Lagidi al proprio bastardo Tolomeo Apione come feudo indipendente, la Cirenaica è da costui legata in eredità al senato e al popolo romano (96 a. C.).
I Romani, pure accettando il testamento, non riducono subito la regione a provincia, ma si limitano a prender possesso della proprietà fondiaria regia, lasciando le città libere di autogovernarsi. Abbandonato a se stesso, il paese cade in preda allo scompiglio per violenze di tiranni e per guerre forse con gli indigeni. Nel 74 è costituito in provincia romana sotto il questore T. Cornelio Lentulo Marceilino ma, nel 34, è donato da Antonio come feudo alla piccola Cleopatra Selene, figlia di lui e della regina Cleopatra VII. Durante questi trecento anni C. gode d'una assai larga autonomia, concessa dall'amministrazione dei Lagidi.
Ma la metropoli greco-libica viene progressivamente eclissata da Alessandria, la brillante capitale del nuovo reame greco-egizio, nel cui raggio d'influenza è ora attratta anche la Cirenaica, di modo che, per questo periodo, la storia della civiltà di C. devesi intenderla non più come sviluppo autonomo, bensì come parte del più ampio panorama della cultura alessandrina.
Architettura. - I tre più importanti templi, l'Apollonion, l'Artemision e l'Olympieion non subiscono modificazioni. All'ingresso del tèmenos d'Apollo si costruiscono i propilei, in uno stile che interpreta il dorico con nuovo spirito. Alcuni edifici di più antica epoca son ricostruiti o restaurati in questo periodo, come, per esempio, il tempietto d'Afrodite, nel Piazzale d'Apollo. In questo tèmenos, probabilmente nel III sec., fu costruito un sacello ad Iside, del quale ci si presenta la ricostruzione nel I sec. d. C. con restauri dei tempi di Adriano e di Caracalla. È importante per la presenza delle semicolonne, corrispondenti ad un gusto locale, che si ritrova nel thesauròs dei Cir enei in Delfi, del IV sec. a. C., oltre che in molti templi minori in Cirene. Nel medesimo sacro recinto è costruita una fontana policroma a pianta rettangolare, con un bacino di distribuzione ed uno sottostante di raccolta.
Attraverso un foro nella parete di destra, da una canaletta incavata in blocchi di pietra ben conservati l'acqua affluiva nel bacino superiore, chiuso anteriormente da un portichetto dorico di cinque colonne, collegate fra loro da quattro plutei a duplici lastre di tufo. Più tardi dietro alla parete di fondo fu costruito un serbatoio, dal quale l'acqua defluiva attraverso due protomi leonine. Quattro buchi nel mezzo dei plutei facevano versare l'acqua nel bacino di raccolta, chiuso lateralmente ed incassato per tutta l'altezza dei tre scalini, che permettevano di raggiungere l'acqua.
Un inconfondibile tratto ellenistico specifico si nota nelle colonne doriche rudentate (cioè con listello piatto tra una scanalatura e l'altra) chiara espressione di una tendenza a rianimare con la grazia dei modi ionici le forme ormai irrigidite del dorico canonico. Questo particolare stilistico ci riporta all'ellenismo pieno, cioè al II secolo. L'architettura dorica ellenistica di C. sembra avere amato siffatti eleganti compromessi stilistici, sia nei grandi edifici, sia nei prospetti architettonici delle tombe rupestri. I listelli fra le scanalature delle colonne doriche son frequenti in monumenti dorici cirenei, come, per esempio, i portici settentrionale ed occidentale dell'agòrà, la tomba dei Mnesarchi, una tomba a 4 porte lungo la strada, a poche centinaia di metri fuori Porta Apollonia. Nei due suddetti portici ed in altre tombe esiste anche una modanatura che corona l'orlo superiore dell'abaco, altra infiltrazione ionica nel dorico ellenistico.
Nel quartiere dell'agorà sono di questo periodo le parti più antiche delle strutture del Ginnasio ad O del tempio di Demetra, del Pritaneo con peristilio e con lungo portico a colonne di stile corinzio, di un tempio a colonne doriche in marmo ritenuto il Capitolium del periodo romano; di due case private trasformate nella grande casa di Giasone Magno, del muro di cinta dell'acropoli (epoca di Magas). Può darsi che altri edifici, le cui strutture attuali sono d'epoca romana, fossero stati già costruiti in età ellenistica, ma non ne sappiamo niente di positivo. Del III sec. è il più grandioso dei tre altari dell'agorà, quello dedicato a Zeus Sotèr. Al I sec. a. C. risale l'originaria costruzione della bella piazza cinta di portici, detta Foro di Proculo o Cesareo e che sembra opera di un architetto venuto dalla Grecia, poiché essa non riflette il gusto locale.
Scultura. -Iscrizioni dedicatorie su basi di marmo, trovate nell'agorà, attestano che su di esse elevavansi statue (non ritrovate) di re e di regine d'Egitto: Tolomeo Evergete II (dopo il 145 a. C.), Cleopatra III (fra il 128 e il 116 a. C.), Tolomeo Sotere II (dopo il 115 a. C.). Fra le opere di scultura, trovate nel sacrario delle divinità alessandrine sull'acropoli, è una testa muliebre in marmo pario, interpretata dall'Anti, in base al confronto con le monete auree di Berenice II coniate in C., come un ritratto della stessa Berenice quando non era ancora sposata, quindi fra il 258 e il 240 a. C. L'ovale affilato e l'acconciatura a spicchi richiamano a modi prassitelici, ma la tenuità del modellato rivela una nuova tendenza pittorica. Capelli e sopracciglia erano dorati per riprodurre il colore biondo, occhi e labbra eran colorati, nelle carni il marmo è tirato ad estremo pulimento, al punto da conferire alla figura un colore latteo e quasi un'apparenza di finissima porcellana.
Al 240 circa è stata datata recentemente la testa marmorea di principe ellenistico, scoperta (dal Guidi) nel tempio di Zeus. Forse è il ritratto di Tolomeo III (secondo il Poulsen); comunque l'aria di famiglia con i Lagidi è evidente e lo stile pittorico alessandrino si avverte nella morbidezza del modellato. Notevole il particolare tecnico, consistente nell'essere eseguita in marmo solamente la parte anteriore della testa, mentre la calotta cranica e la regione occipitale dovevano essere di stucco o di altro materiale facilmente plasmabile e uno strato di pittura doveva dissimulare la differenza. Questa tecnica, tipicamente ellenistica, è documentata da numerosi monumenti per Alessandria ed anche per altri centri, quali Seleucia, Tarso, ecc.
Lavoro proto-ellenistico è un leone in marmo greco a grana fine, trovato nel Piazzale d'Apollo presso il tempietto dedicato da Giasone Magno. La sinistra anteriore doveva esser sollevata. La testa è di maniera, il tronco artisticamente più pregevole, è lavorato egualmente in tutti i lati, dunque ideato per esser collocato isolatamente. Della fine del IV o dei prirni del III sec. doveva esser quell'Asklepios marmoreo, dedicato da Themison (Θεμίσων ᾿Αρίστιος ᾿Ασκλα[•]ῶι ἀνήϑηκε) sul torso del quale fu poi scolpito, in epoca romana, un Apollo Pitio (v. sotto).
Questo frammento dell'Asklepios è quindi da registrarsi fra gli originali plastici greci pervenuti fino a noi. Notiamo il forte effetto pittorico, ottenuto mediante le poche pieghe del panneggio dal piede destro alla profonda concavità densa d'ombra lungo la gamba stante, effetto che non si ritrova nelle frequenti copie romane del tipo. Questo Asklepios, dal manto senza risvolto e triangolare sull'addome, doveva esser simile alle repliche Torlonia e di Berlino. Sull'agorà fu trovato un altorilievo marmoreo, nel quale sono riprodotti tipi statuarî, quali l'Afrodite Urania tipo Dafne, l'Eros di Parion, le Oranti prassiteliche su fondo neutro, come nei rilievi della base di Mantinea. E poiché si tende a datare questa base al III sec. a. C. e attribuirla al Praxiteles nipote del grande omonimo, così riteniamo assegnabile ad età proto-ellenistica anche il rilievo cireneo, lavoro di un mediocre imitatore del grande Prassitele. Dal Piazzale d'Apollo proviene una statua muliebre acefala panneggiata, del tipo della Artemisia, in marmo greco delle isole, di grandezza naturale. La testa era lavorata a parte. La lavorazione trascurata del dorso indica che la statua era destinata ad esser collocata contro un muro; fu restaurata forse dopo il tumulto giudaico del 115-117. Il lavoro, della fine dell'ellenismo, non è privo di slancio e di freschezza. Al tardo ellenismo è assegnabile anche un gruppo terzino in marmo pario, trovato a circa metà del pendio N-E della collina dell'agorà: Afrodite nuda (acefala) regge con una mano sollevata una treccia di capelli mentre con l'altra abbassata si copre il pube. Alla sua destra è un Tritone dallo sguardo patetico, dall'altro lato è un delfino guizzante; la base è stata sagomata in epoca più recente. Il gruppo doveva esser collocato, con l'angolo sinistro molto sporgente, in una nicchia. Per intrinseco valore artistico questa scultura è inferiore all'altro gruppo, tipologicamente simile, proveniente da Alessandria d'Egitto e conservato a Dresda. In C. questo soggetto era forse allusivo al culto della Dea nell'isoletta di Θλά nella Palude Tritonide (Τριτονὶς λίμνη, Strab., xvii, 836); sfumato e patetico corrispondono agli orientamenù stilistici in voga nella scultura alessandrina e confermano la comunanza di caratteri fra questa e la scultura in Cirene. Notiamo inoltre la fusione, tipicamente ellenistica, di due motivi originariamente distinti, quali il gesto proprio dell'Anadiomene e quello proprio della Pudica.
Torna qui acconcio sbarazzare il campo dal pregiudizio di ritenere, in linea di massima, assegnabile ad epoca preromana la produzione scultorea in pòros di Cirene: è bensì vero che alcune sculture indiscutibilmente d'età greca sono in pòros (a quelle sopra menzionate si possono aggiungere, come non certamente ma solo probabilniente ellenistiche, l'Ecateo con le mirabili teste di fanciulle, trovato nel tempio d'Ecate del Piazzale d'Apollo; una grande statua, forse raffigurante una Tyche regale, proveniente dalla basilica giudiziaria e poi distrutta nella seconda guerra mondiale; una statua d'Aristeo; una statua muliebre assisa nel Piazzale d'Apollo), ma, d'altronde, non si può dimenticare che le più pregevoli statue trovate in C. e databili a tutti i periodi della storia dell'arte greca, dall'arcaismo all'ellenismo, sono in marmo. Non vi fu dunque in età preromana un uso esclusivo del pòros, così come si deve ritenere che non vi sia stato successivamente un uso esclusivo del marmo, dato che la scelta dei materiali dipende sempre molto dalle possibilità economiche del committente. Forse in C. fu creato il tipo della capricciosa acconciatura muliebre detta a riccioli attorti, libera e naturalistica traduzione della geometrica acconciatura rituale egizia a boccoli calamistrati, con probabile influenza dell'acconciatura delle donne libiche della Cirenaica. Questo tipo di acconciatura ricorre nella testa di Libia di monete tolemaiche di C. del III sec., in monete seleucidiche, nel ritratto di Cleopatra Thea, figlia di Tolomeo II Filometore e regina di Siria, in un incisione di gemma firmata da Lykomedes già nella Collezione Tyskiewicz (ritratto di regina lagide della fine del III sec. con attributi isiaci), in una testa marmorea agli Uffizî, riconosciuta dall'Amelung come ritratto d'una principessa dei Lagidi con acconciatura isiaca, nella ben nota testa bronzea ercolanese, infine nella figura di Libia del tardo rilievo con la ninfa Cirene del British Museum. Documenti epigrafici attestano l'esistenza di artisti in C. anche per questo periodo.
Una dedica (della prima metà del III sec.) a ῟Ωρος è seguita da un ᾿Αγαϑω[ν ᾿Αγαϑ?] οκλεῦς ἐποίησε. Un frammento di base, riutilizzato davanti alla fonte d'Apollo, ha una segnatura, di cui sussiste la fine del nome con l'etnico d'un artista straniero. Una base di marmo nero ha pure conservato parzialmente una firma. Ma degli scultori cirenaici il meglio noto è quel Polyanthes che, nella prima metà del II sec. a. C., lavorò a Milo e specialmente a Delo, dove ben sei iscrizioni ne documentano l'attività. Nativo di C. fu forse anche quell'Arkesilaos, menzionato da Plinio il Vecchio come autore di Centauri nymphas gerentes, della Venus Genetrix per il tempio del Foro di Giulio Cesare a Roma e di proplasmata, cioè bozzetti, e che può considerarsi come l'ultimo grande maestro dell'antico "rococò".
Ceramografia. - Abbondano sia la ceramica a vernice nera lucida con - o senza - sobrî ornati vegetali a ritocchi bianchi, sia la ceramica decorata a figure rosse su fondo nero con ritocchi d'altro colore, simile a quella tardo-italiota. Impossibile affermare se siano tutti vasi importati o anche prodotti di fabbriche locali.
Monetazione. - Sotto i Lagidi, C. conserva il diritto di battere moneta. Si allarga il repertorio dei tipi: Zeus Lykaios, Apollo Karneios, Artemide, Atena Nike, Alessandro Magno, la quadriga degli agoni, la ruota, il cavallo e il cavaliere, la palma, il triplice silfio, la testa della ninfa Cirene, quella della Libia personificata con i riccioli calamistrati oltre all'emissione delle monete autonome, cioè coniate per ordine dei magistrati della pòlis, esiste in questo periodo anche una emissione regia, consistente in monete coniate in Cirenaica per ordine dei re d'Egitto. Tipi e leggende su tali monete non sono diversi, in generale, da quelli delle monete dei Tolomei coniate in Egitto, a parte le sigle speciali, che indicano la provenienza da zecche cirenaiche. A questa emissione appartengono le belle monete auree col profilo della regina Berenice II, coniate in Cirene. I particolari dello stile e della tecnica sono quelli osservati dallo Svoronos a proposito delle monete tolemaiche.
E) I primi tre secoli dell'Impero romano (31 a. C.-304 d. C.). - Tramontato, con la fortuna e con la vita dei parenti di Cleopatra Selene, l'effimero regno di quest'ultima regina ellenistica di C., Augusto recuperò a Roma anche questa provincia la quale, unita in un sol governo a quella di Creta, adottò l'anno della battaglia d'Azio (2 sett. del 31 a. C.) come sua nuova èra. In Cirenaica la vita è ormai quella d'una provincia appartata.
Vita vegetativa, tra lo sfruttamento delle ricchezze naturali da parte dei pochi italici colà installatisi e gli sforzi degli imperatori per dare al territorio pace e sicurezza esterna (cioè dalla parte S contro le popolazioni del deserto) e benessere materiale all'interno delle città. Una delle antiche fonti di ricchezza naturale dello stato cireneo, il silfio, era stata convogliata come tributo verso il tesoro pubblico di Roma; infatti Giulio Cesare ne aveva qui trovato un quantitativo di 1500 libbre. Ma cent'anni dopo a Nerone fu presentato come cosa rara un sol piede della stessa pianta! Contrariamente alle affermazioni di scrittori antichi e (sulle loro orme) di studiosi moderni, che sogliono attribuire la decadenza economica di C. alla scomparsa del silfio dal suolo della Cirenaica (scomparsa variamente spiegata da Strabone, da Plinio e da Solino, ma la cui causa principale dovett'esser la bonifica graduale del paese già intrapresa sotto i Tolomei), il Rostovzev sostiene che tale scomparsa dev'essere stata di poca importanza per il complesso della popolazione, che mai aveva tratto guadagno dal coltivare questa pianta, perché nasceva spontanea e la sua raccolta ed esportazione erano state sempre monopolio dello Stato. La decadenza economica di C., come la trovò Augusto, è spiegata dal Rostovzev con le deplorevoli condizioni degli ultimi tempi dopo la morte di Apione ed anche con una grande guerra libica, il bellum Marmaricum, terminata nel 2 d. C. e documentata da un iscrizione scoperta a Cirene. Tuttavia, sotto la pace stabilita da Augusto, C. riprese a fiorire.
La maggior parte degli edifici rimessi in luce dagli scavi furono in questo periodo, costruiti ex novo o sovrapposti a preesistenti costruzioni o in sostituzione di esse, o restaurati. Nel 116, al tempo di Traiano, una rivolta dei Giudei scoppiata nelle province orientali dell'Impero, cioè in Egitto, in Cipro e in Cirenaica (già preceduta da altra consimile, ma meno grave, sotto Vespasiano) causò un'ingente devastazione di edifici, i quali furono poi restaurati grazie alle cure di Adriano che, nello stesso tempo, inviava in Cirenaica nuovi coloni a colmare i vuoti della popolazione decimata dalla repressione. Tale ripopolamento fu forse seguito da nuova ripartizione di terre. Tuttavia (sempre a giudizio del Rostovzev) neanche la guerra giudaica sarebbe stata un colpo mortale per Cirene. Qui, insomma, come in altre province dell'Impero, si alternarono periodi di progresso a periodi di regresso. La rovina vera e propria, cioè quella continua, progressiva e definitiva, comincia solamente nel III sec. d. C.
Architettura. - Da Augusto a Traiano. Un'iscrizione monumentale, scolpita su dieci blocchi di tufo, rinvenuta davanti alla porta dell'acropoli, dice che il proconsole L. Lucanio Proculo rimise in efficienza le mura (muros arcis reficiendos curavit). Questo restauro è stato posto in relazione con la guerra libica, terminata il 3 d. C., essendo sacerdote Pausania figlio di Eufane adottato da Filisco, come dichiara il pylokleistes (custode della porta) Lucio Orbio figlio di Lucio, il quale, ritornata nell'animo di tutti la tranquillità, dedicava ad Apollo Lyszipòlemos (= che ha ben risolto la guerra) un bassorilievo a compimento di un voto. In questa prima fase lo stile dorico nelle sue forme tradizionali è quasi costantemente il solo usato in C.: esempio insigne ne è il cosiddetto Cesareo.
Questo complesso monumentale consiste in una vasta piazza rettangolare (m 82,50 × 94,50) chiusa verso l'esterno mediante un muro cieco, nei cui lati meridionale e orientale si aprono due porte, decorate ciascuna da un propileo di quattro colonne. Sul propileo ad E un'iscrizione ricorda la restituzione dell'edificio da parte di M. Sufena Proculo (epoca di Tiberio). Sul propileo a 5 era la tarda iscrizione porticus C[ae]saris da cui è stato denominato l'edificio. Internamente la piazza è cinta da un portico a colonne doriche. Sull'asse dei due propilei, ma non al centro di quest'ampia corte, elevasi un tempietto, che alcuni ritengono sacro a Bacco e che il Buttle assegna ad epoca più antica della costruzione del Foro, ma che, secondo il Romanelli, devesi pensare destinato al culto imperiale. Sul lato N-E apresi una grande basilica giudiziaria, databile, secondo il Buttle, ad un ventennio dopo la ricostruzione del Cesareo dovuta a Proculo. Trattasi di un Foro, sorto come centro della vita pubblica e amministrativa della provincia. Importante è la sua planimetria, che prelude a quella del Foro Traiano di Roma; ma lo stile architettonico e il gusto decorativo sono ancora ellenistici. Non sembra da condividersi l'opinione secondo cui sarebbe stato introdotto in C. col Cesareo un tipo d'edificio sconosciuto al mondo greco, poiché il tipo del Cesareo ricorda le agorài ellenistiche.
Lo Strateghèion è trasformato e dedicato a Tiberio ancora principe da M. Sufena Proculo (lo stesso personaggio che restaurò il Cesareo), il cui nome è scritto sull'architrave monumentale della porta. Nel settore N del Piazzale d'Apollo il tempietto di Ecate, composto di pronao, cella e cripta, fu costruito, come sembra, nel 107 d. C., in memoria della definitiva vittoria di Traiano sui Daci. Insieme con questo tempietto, ed immediatamente ad esso attiguo ad E, fu elevato dai sacerdoti di Apollo un portichetto a colonne, fornite di basi ioniche e capitelli dorici. Un altro degli edifici costruiti ex novo e che meglio rappresentano la nuova epoca è quello delle terme, erette da Traiano nel settore E del Piazzale d'Apollo.
Esse sorgono sopra un'area che, secondo il Ferri, sarebbe già stata occupata da un'agorà degli dèi come a Thera (infatti avanzi di altari sono stati rinvenuti sotto il pavimento di alcuni vani dell'edificio termale attualmente visibile), poi caduta in abbandono già prima che s'intraprendesse la costruzione delle terme romane. Con questo motivo è stato spiegato perché mai gli ambienti costitutivi di questo balineum non siano disposti secondo quello schema che, proprio al tempo di Traiano, diventò canonico dei maggiori edifici termali. L'ingresso principale pare fosse a S-E, poco discosto dai Propilei romani, quindi accedevasi a destra alle Piccole Terme (forse eran le "terme femminili", costruite più tardi al tempo di Adriano), a sinistra scendevasi in un corridoio con portico, che adduceva alle Grandi Terme maschili. Si riconoscono facilmente i portici, ma difficile è stabilire se gli sferisterî (la cui esistenza apprendiamo dalla epigrafe relativa al restauro adrianeo: ... balineum / cum porticibus et sphaeristeris / ceterisque adiacentibus restitui / iussit) fossero congiunti con i primi oppure se fossero sovrapposti alla parte centrale, come potrebbero far supporre i grossi muri centrali a grandi blocchi squadrati. La disposizione dei locali delle Grandi Terme si ripete, in gran parte, in quelle dette Palais du Sultan di Cherchel e nelle Grandi Terme del Nord di Timgad, onde si può ritenere, con l'Oliverio, che le terme traianee di C. siano state di modello alle due suddette e forse anche ad altre delle province africane dell'Occidente.
Da Adriano alla fine del III sec. d. C.: dopo la devastazione giudaica del 116, il balineum fu restaurato lussuosamente: mosaici policromi nei pavimenti, lastre di marmo bianco e colorato alle pareti di tutti gli ambienti e gran numero di statue marmoree. Durante la seconda metà del II sec., epoca di vivace rinnovamento religioso, il cui spirito animatore è il sacerdote d'Apollo Tiberio Claudio Giasone Magno, vengon rifatti e risantificati tutti gli edifici religiosi. Ma l'esecuzione risulta fredda, apatica, frettolosa. Fra gli edifici incendiati durante il tumulto giudaico fu anche l'Apollonion, alla cui ricostruzione Adriano provvide prima che a quella degli altri templi.
Il crepidoma esterno rimase, ma tutte le colonne furono rifatte a tamburo liscio; forse parecchi dei tamburi delle colonne precedenti furon rilavorati e riadoperati. La cella fu radicalmente trasformata: fu costruito un nuovo muro perimetrale a grossi blocchi di tufo, aderente allo zoccolo del tempio primitivo, che fu lasciato ancora al suo posto, mentre gli ortostati furon disposti sopra gli stilobati della parte anteriore della cella e sopra di essi furono distese le colonne, che precedentemente avevano diviso la cella in tre navate. Nella parte posteriore della cella fu elevato un basamento, nel quale furono conglobati i tronconi delle ultime quattro colonne. Sopra la soglia primitiva fu elevato un muro poderoso aderente al mosaico e quest'ultimo fu interrato insieme con la scalinata discendente. Il tempio continua ad esser periptero esastilo ma tutto è trasformato: frontoni e cella nulla più serbano del tempio precedente. La soglia vien basata sul muro aderente al mosaico, il portale riceve stipiti marmorei, dove sono incisi nomi di sacerdoti. Dall'ingresso accedesi ad un vestibolo, cui seguono la cella, poi l'àdyton contenente il piedistallo, presso il quale fu rinvenuta una statua d'Apollo lyricine. La gradinata esterna, che per l'innanzi doveva essere stata più piccola e compresa fra due monumenti addossati al crepidoma, è ora ampliata fino ad occupare tutta la facciata, sovrapponendosi ai monumenti suddetti. I lavori che, secondo la volontà dell'imperatore, si sarebbero dovuti fare a spese dello stato, andarono per le lunghe ed infine dovettero esser terminati col generoso contributo di privati cittadini, i cui nomi son ricordati sopra alcune colonne.
Analogamente fu restaurato l'Artemision in epoca adrianeo-antoniniana.
La terza fase della storia edilizia di questo sacrario è caratterizzata precipuamente dall'aggiunta d'un portico marmoreo davanti al vestibolo, poi dal carattere trascurato di tutte le parti restaurate ed aggiunte, in cui furono reimpiegate membrature architettoniche di edifici preesistenti (due triglifi del secondo Apollonion inseriti nel muro settentrionale presso l'angolo di N-O della cella; l'adattamento di un terzo triglifo della medesima provenienza come base dell'àgalma nell'interno della cella). Un'iscrizione ricorda che il proconsole Numisio Marcelliano (ultimi decennî del II sec. d. C.) dedicò una statua di Artemide con i doni votivi offerti alla dea dalle sacerdotesse, i cui nomi figurano nella stessa epigrafe.
Nel 119 d. C. è ricostruito, con l'intervento di Adriano, il tempietto ad Artemide Ecate che era stato distrutto nel 117 dai Giudei: la ricostruzione è fatta anche a spese dell'attiguo portichetto dorico-ionico. Il sacerdote Tiberio Claudio Giasone Magno restaura, al tempo di Commodo, un tempietto, a S dell'Apollonion: pronao e cella sopra un crepidoma di 7 scalini. Un altro sacello, adiacente al primo e circa la stessa epoca, è dedicato ad Apollo Nymphagètes da Tiberio Claudio Batto. Tre altri tempietti vengono sovrapposti ad una molto antica fontana a S del tempio d'Apollo. Nuovi Propilei, già costruiti forse nel I sec. dell'Impero, sono stati restaurati sotto Adriano o sotto immediati successori di lui: facciata con quattro grosse colonne corinzie di tufo, pròthyron rettangolare con ante corinzie, portale a pilastri in mezzo alla parete di fondo e scalinata esterna. Al disopra del gran muraglione arcaico di sostegno della terrazza del tèmenos d'Apollo fu costruita (o ricostruita?) una loggia colonnata, dalla quale dominavasi il panorama della piana sottostante. Probabilmente in questa medesima fase adrianeo-antoniniana il decumano dell'agorà fu ornato da un porticato di cariatidi. Di fronte al portico delle cariatidi il già più volte mentovato Giasone Magno fece sistemare una vasta dimora quasi un palazzo, trasformando e unificando due case preesistenti, la cui forma planimetrica è sensibilmente diversa da quella che si riscontra, ad esempio, in Campania.
Circa la stessa epoca è costruita anche la Casa del Mosaico di Dioniso, e forse anche le altre adiacenti, sul versante N della collina dell'agorà presumibilmente al posto di più antiche fabbriche.
Altro importante edificio costruito (o ricostruito) in questo periodo è un tempio, cui si accede da quel tratto del decumano che tocca il lato S dell'agorà: cella di m 11,70 × 8,70 preceduta da pronao a 4 colonne doriche fornite di basi ed elevata su podio alto m 1,6o; in fondo alla cella è un basamento lungo m 3,60, sulla cui fronte era una lastra con epigrafe dedicatoria ad Adriano e ad Antonino Pio. L'idea generalmente diffusa che trattisi del Capitolium (in questo caso di uno dei rari Capitolia delle province greche dell'Impero) è stata posta in dubbio dallo Chamoux, che ritiene il tempio più probabilmente dedicato a Zeus Sotèr e ad Atena Sotèira, tanto più che a poca distanza, all'angolo S-E della stessa piazza, si trovano le fondamenta di due grandi are gemelle, una delle quali era dedicata (III sec. a. C.) a Zeus Sotèr, il quale figura poi unito nel culto con Roma e con Augusto nella grandiosa dedica del portico a colonne ioniche, elevato sul lato N della stessa agorà.
Analogamente munite di basi sono le due colonne doriche in antis del tempietto di Iside, con cella e pronao, costruito in quest'epoca a S dell'Apollonion. Fu ricostruito il Ploutonion: la gradinata d'accesso ridotta a tre scalini e la facciata rifatta con quel rozzo ordine, ibrido di tuscanico e di corinzio, che sembra caratteristico delle costruzioni cirenee della fine del II e del III sec. d. C.: esile nelle colonne, pesante nelle trabeazioni. In mezzo al pronao, che è in antis, è posta una piccola ara, un'altra è nella cella, la quale appare come incassata nel crepidoma, particolare tipico dei templi di Plutone e simboleggiante il sottosuolo infernale, regno di Ade. Interamente d'età romana è l'attiguo tempietto di Persefone, prostilo con pronao e cella, struttura a blocchi di proporzioni non grandi, lavorati alla svelta e fondati sopra uno strato di minuto bloccame e ciottoli, sotto cui s'intravedono avanzi di più antiche costruzioni; il livello della scala e della cella è superiore a quello del Ploutonion. A N-O di questo è un piccolo tardo òikos, forse di Serapide. Ancora più a N fu costruito un altro tempietto, cui si accedeva per una scalinata di otto gradini; è costruito con materiale raccogliticcio ed è sovrapposto ad un edificio più antico, rettangolare, che sembra fosse stato un heròon. Il muro di fondo della cella (la quale si apre a S) poggia sul lato S dell'altare di Artemide, appositamente tagliato.
Sulla collina E il tempio di Zeus, anch'esso danneggiato, fu restaurato sotto Commodo.
L'interno della cella fu totalmente modificato, in quanto, abolite le due navate laterali, queste furono sostituite da due stretti porticati a colonne corinzie con fusti di cipollino su alti basamenti tufacei e capitelli di bardiglio; una colossale statua di Zeus, che doveva essere copia quasi esatta del simulacro olimpico di Fidia, dedicata da un certo Menandro, fu collocata sul vecchio piedistallo, ingrandito, posto in fondo alla cella, il cui pavimento venne abbassato. Anche l'esterno appare rifatto, come si può desumere dalla presenza d'una nuova serie di triglifi di tipo tardo, con scanalature di taglio rettilineo (cioè diverse da quelle greche a taglio superiore tondeggiante e sottosquadro a becco di civetta) e dal fatto che alcuni capitelli della peristasi, segato l'echino, furono riadoperati in modo che la faccia superiore dell'abaco si presentasse come fronte di metopa. Ma le colossali colonne della peristasi, abbattute da terremoto, non furono mai risollevate. Un'iscrizione in eleganti caratteri del III sec. d. C., ivi trovata, ricorda un voto dell'architetto Aurelius Rufus a Giove Olimpico. L' Oliverio ritiene che il voto consistesse in un restauro. Nel III sec. d. C., come sembra, il vetusto teatro greco ad O del tèmenos d'Apollo fu trasformato in anfiteatro: demolito l'edificio della scena, il sito da essa occupato, insieme con quello dell'orchestra, fu sistemato ad arena ellittica ad un livello superiore a quello dell'originaria orchestra, la scena fu poggiata a valle su muri di sostruzione, venne ridotta la cavea delle gradinate più basse.
Scultura. - Non si può stabilire con sicurezza, in linea generale, se le opere di scultura in marmo trovate nella zona archeologica di C. e databili a questo periodo siano state lavorate sul posto o se siano state importate. In questa provincia romana (come in tante altre) romani saranno stati i funzionarî di governo, la guarnigione militare, pochi privati immigrati; ma la popolazione urbana nel suo insieme avrà continuato ad esser quella di prima, cioè greca; pertanto l'attività delle officine d'arte, già documentata per le precedenti epoche, non poteva essersi spenta. Infatti la trasformazione dell'Asklepios nell'Apollo (vedi più avanti) non può essere stata che di un'officina locale. Un rilievo di soggetto tipicamente cirenaico come quello dedicato da Karpos con la scena relativa al mito della ninfa Cirene (British Museum) difficilmente sarà stato commissionato all'estero. Invece si hanno resti di varî sarcofagi attici del tipo a klìne. Di nomi di artisti di questo periodo conosciamo Zenion figlio di Zenion, che figura su d'una delle più belle statue cirenee, lo Zeus Egioco, colosso di marmo, trovato nel supposto Capitolium. I dati epigrafici permettono di datare la dedica precisamente all'anno 138 d. C. Resta aperto il problema se trattisi d'un maestro della scuola d'Afrodisiade (v.) o se d'un maestro attivo in come sostiene lo Chamoux, il quale gli attribuisce anche la paternità dell'Alessandro-Dioscuro trovato nelle Grandi Terme, tipo atletico risalente a Policleto con aggiunta di elementi recenziori (il Laurenzi giudica creazione tardo-ellenistica questo Alessandro e ne interpreta il cavallo come l'effigie del Bucefalo). Caratteri proprî d'una locale "bottega" di scultori sono stati riconosciuti dal Ferri: i varî tipi statuarî, creati in Grecia e importati in C., ebbero qui uno svolgimento interno tutto proprio, al quale dobbiamo applicare non il concetto di copie ma quello di rielaborazioni, realizzate componendo insieme forme proprie di periodi diversi dell'arte greca, saldando arcaismi a neologismi.
Così, per es., lo Hermes maggiore, una delle più belle statue che C. ci abbia reso, sopra il corpo, lisippeo per proporzioni (cfr. Sisifo II di Delfi), ha la testa che deriva dai tipi di Mirone. Lo Hermes minore presenta il caso inverso di una testa d'un tipo del IV sec. a. C. su un tronco quasi arcaico. L'Afrodite B sopra un corpo di proporzioni del II sec. d. C. erge una bella testa di tipo quasi prassitelico puro. Per rendere maestosa e ieraticamente severa la nuova statua del patrono della città Apollo Pöthios (quello ricavato dall'Asklepios, vedi sopra), uno scultore cireneo dell'epoca di Marco Aurelio o di Commodo prese a modello per il tronco un Apollo del tipo di quello di Cassel, per la testa una scultura di Kalamis; aggiunse alla statua lussuosi calzari dionisiaci e un manto (forse in omaggio ad una tradizione del culto locale?); il dio in una mano doveva reggere la lyra o l'alloro, mentre ai suoi piedi era il serpente delfico.
La più celebre delle statue marmoree trovate nelle Grandi Terme (scolpite, forse, appositamente e quindi del II sec. d. C.), è l'Afrodite Anadiomène, nota come la Venere di Cirene (Roma, Museo Naz. Romano). La dea strizzava forse con ambo le mani la chioma bagnata oppure reggeva le estremità d'una benda con cui legava i capelli. Quest'opera rappresenta il ritorno dello spirito greco ad una concezione casta del nudo statuario, dopo il fiorire del sensualismo barocco. E stato notato (Picard) che questa forma plastica presuppone un modello vivente, con i suoi pregi e i suoi difetti: dunque variazione classicheggiante d'un ideale classico.
Una terza Afrodite marmorea, scoperta nel medesimo edificio termale e detta La Venere maliziosa per il suo sorriso, è ritenuta dall'Anti copia romana di un originale del "rococò" micrasiatico del II sec. a. C.; per il Ferri, che la data al I sec. a. C., è una delle creazioni cirenaiche di seconda mano. Prodotti della statuaria cirenea di questo periodo sono anche altre opere trovate nelle Grandi Terme, quali: un Eros arciere, nervosa elaborazione d'un originale lisippeo; una statua terzina acefala di danzatrice in marmo pentelico, vestita di un leggero chitone che le scivola da una spalla: presenta una sola veduta principale, impostata su di un solo piano, quasi fosse un rilievo staccato dal fondo, mentre il tergo è sommariamente lavorato; due repliche del gruppo delle Tre Grazie (ricordiamo a tale proposito che C. è chiamata dal suo poeta Callimaco "collina delle Cariti"), concepite con effetto a traforo, che occupavano le serliane del salone del balineum, esempio tipico di sculture ideate in relazione ad un'architettura a scopo decorativo, con ripetizione del soggetto per ragioni di simmetria ornamentale.
Copia d'epoca antoniniana da un originale fidiaco (lo Zeus d'Olimpia?) è ritenuta dal Rizzo la testa marmorea, trovata nella cella del Gran Tempio, e pertinente forse ad un acrolito, dalla policromia largamente conservata. Nello stesso tempio è stata rinvenuta una copia marmorea della testa della Atena Parthènos di Fidia. Altra insigne scultura, anch'essa trovata nel Gran Tempio, è una testa di marmo del tipo dello Zeus di Aigeira che ha barba e capelli dorati. Di questa epoca, all'incirca, sono i pezzi della statua di Hades Plutone trovati nel Ploutonion: testa, mani e piedi in marmo pentelico, corpo (seduto sul trono) e Cerbero in tufo. Dall'attiguo tempiettò di Persefone proviene una statua muliebre acefala colossale, stante, panneggiata in marmo pentelico, tipo della fine del V o del principio del IV sec. a. C., quasi nuovo nel repertorio a noi noto (cfr. statuetta di Corfù ed altra statuetta di Cirene). Buona copia (di recente edita) da un originale, attribuito al celebrato scultore Pythagoras, è una statua marmorea di un atleta, della cui testa già conoscevasi una replica, trovata a Perinto e di lì portata al museo di Dresda. Fra i ritratti si ricordano: un busto di Demostene, da un archetipo del 280 a. C.; un Antonino Pio (trovato nel Gran Tempio) concepito quasi come uno Zeus; un altro simile trovato nel Cesareo; un ritratto, tipo dello "Ignoto romano" (Pertinace?) del Vaticano (dal Gran Tempio); la testa di Agrippina Maggiore (dal tempietto di Persefone), che è uno dei più belli fra i ritratti muliebri del periodo giulio-claudio, dovuto ad ignoto maestro classicista. Ritratti di dame e di sacerdotesse d'epoca antoniniana sono stati trovati nella cella del Gran Tempio. In tutte queste sculture le forme fisionomiche sono attenuate e sfumate con quella morbidezza idealizzante, caratteristica dei ritratti di età romana creati da "botteghe" artistiche attiche (in questo caso potrebbe trattarsi d'una bottega della greca Cirene. Su modello attico, largamente diffuso nel mondo greco, fu esemplata una statua loricata di Adriano con la rappresentazione del Palladio sopra la lupa (trovata nel Cesareo dagl'inglesi Smith e Porcher e conservata nel British Museum). Una testa marmorea, edita dallo Chamoux (Cyrene ecc., p. 48 e tav. 1, 4), che la data al tempo di Antonino Pio, riproduce i tratti fisiognomici d'un berbero: sono in sostanza gli stessi caratteri già notati nelle figure dei Libî Temehu, dipinte nella tomba del faraone Sethos I (1318-1298 a. C.), nella figura di Anteo dal cratere di Euphronios al Louvre (Anteo era considerato nel mito come libio), nel bronzo del British Museum, già menzionato.
La statua di un ignoto personaggio barbato, della quale esistono due repliche, di qualità diversa, una delle quali scoperta nel Gran Tempio, per il senso della plasticità è assegnabile ancora ad epoca antonino-severiana, pur sembrando anticipare forme di età tarda. Un tale anticipo si spiega con la posizione di C. nell'orbita artistica orientale, che sviluppò precocemente nell'Africa greca elementi, i quali rinnovarono, disgregandoli, i vecchi schemi classicistici. Nella produzione dei sarcofagi marmorei decorati, d'età imperiale, predominano tipi e forme greche. In qualche esemplare è evidente la derivazione da centri egiziani, in qualche altro vedesi la contaminazione tra forme greche e romane. Finora non è apparso alcun esemplare del tipo architettonico microasiatico. Quindi anche in questo ramo dell'arte C., benché politicamente provincia romana, mostra di dipendere dal mondo greco. Il Pietrogrande, cui devesi il primo studio d'insieme dei sarcofagi cirenaici, è incline a credere che tali monumenti fossero lavorati in Grecia sui luoghi d'estrazione del marmo e che arrivassero già bell'e decorati a Cirene. Ciò è certo per i sarcofagi attici; ma le teste delle figure dei defunti forse erano completate nel luogo di destinazione, dopo che il sarcofago era stato comprato.
Pittura. - Il Pacho ricorda un dipinto di una tomba di C., rappresentante ludi scenici dati in onore del defunto. Nella Casa di Giasone Magno s'intravede appena la decorazione dipinta d'una parete della sala col mosaico delle Stagioni: ripartizione a pannelli, come nelle case ostiensi del II-III sec. d. C. e come nella casa venuta alla luce sotto la Stazione Termini a Roma. In un ipogeo cristiano un affresco, riprodotto dal Pacho, rappresenta il Buon Pastore con la pecorella sulle spalle e il gregge inquadrati da due alberi; intorno guizzano sette pesci.
Mosaici. - Fra i mosaici pavimentali, che non scarseggiano in C., il più pregevole è quello in vermiculato delle Stagioni nella già menzionata Casa di Giasone Magno all'agorà: un emblema tondeggiante con Anfitrite su ippocampo apresi al centro d'uno scudo, formato di zone concentriche con ornato a treccia ed inscritto in un quadrato, nelle cui quattro lunette sono i busti delle Stagioni. La successione cronologica dei mosaici si può studiare bene nell'edificio termale del Piazzale d'Apollo, dove si nota la sovrapposizione di pavimenti di epoche diverse.
Monetazione. - Per qualche tempo ancora dopo la ricostituzione della provincia i governatori batterono moneta, associandovi tipi romani (fra cui l'effigie dell'imperatore) a tipi cirenaici, con leggenda in latino. L'ultima di tali emissioni è del tempo dell'imperatore Tiberio ed ha i ritratti di Druso Minore con i suoi due figli Tiberio e Germanico. Poi, pur non escludendosi che le zecche cirenaiche abbiano continuato a funzionare, la monetazione di C. perde la sua individualità tipologica. Fra le monete raccolte intorno al Grande Tempio eravi un medio bronzo di Adriano col profilo dello Zeus Ammone nel retro, segno evidente di coniazione locale: l'incisione era di spiccato gusto classicheggiante.
F) Periodi tardo-romano, proto-bizantino e proto-islamico (IV-XI sec. d. C.). - La riforma amministrativa di Diocleziano si estese anche alla Cirenaica la quale, cessato il suo abbinamento amministrativo con l'isola di Creta, passò a far parte della diocesi d'Oriente insieme con l'Egitto e con la Marmarica. Per qualche tempo ancora C. continuò ad esser residenza di governatori, ma poi, nel corso dello stesso IV sec., per la ubicazione quasi al margine del territorio infestato dai popoli del deserto sempre più aggressivi, dovette apparir poco sicura, onde la residenza governatoriale fu spostata giù al mare, a Tolemaide. Mentre Tolemaide e le altre città della costa (Apollonia, Berenice, Teuchira) diventano gli estremi rifugi dell'ellenismo cristianizzato che vi erige chiese, C. comincia a diventare l'urbs antiqua sed deserta di Ammiano Marcellino (xxii, 16, 4). Il cristianesimo trionfante, verso la fine del IV sec., imperversò con implacabile volontà flagellatrice contro tutto ciò che rappresentava la civiltà pagana, anche nelle sue più nobili manifestazioni.
A proposito di cristianesimo ricordiamo che un monogramma cristiano in caratteri greci ed ebraici attesta la presenza in C. d'una comunità di Giudei cristiani (cfr. la menzione di cristiani cirenei in Atti degli Apostoli, xi, 20 e xiii, 1). Che in C. e in altri luoghi della Cirenaica (Barce, Tocra) esistessero Giudei non cristiani si deduce da iscrizioni in lingua e caratteri ebraici, distribuite lungo un lasso di tempo che va dal I sec. a. C. al 300 d. C.
Architettura. - Forse per effetto di terremoto crollarono le colonne e il tetto dell'Apollonion adrianeo; le rovine furono spianate e livellate con terra e pietrame e ciò che rimase della cella fu trasformato in cappella cristiana, forse al tempo di Giustiniano. A quest'epoca, infatti, appartengono gli archi e le vòlte, rinvenuti durante i saggi di scavo inglesi dell'Ottocento, e gli elementi marmorei, come colonnine tortili in marmo ceruleo, frammenti di plutei, basette, trovati durante gli scavi italiani. Un mosaico a grosse tessere bianche fu disteso sul nuovo pavimento. L'àdyton fu trasformato in una cripta, accessibile mediante una gradinata poggiata alla parete N. L'ingresso era ad O. Nel balineum del Piazzale d'Apollo sono state riconosciute 6 fasi ricostruttive, succedutesi lungo un lasso di tempo che va dal restauro adrianeo al VII sec. Le molteplici trasformazioni, sovrapposizioni, riduzioni e i molti rifacimenti rendono quanto mai difficile lo studio delle fasi più antiche, ma documentano in modo interessantissimo la storia della decadenza della città. Abbandonati alcuni ambienti, altri furon lasciati ad uso di bagni ed appartengono a quell'insieme che gli archeologi italiani distinguono col nome di Piccole Terme dalle Grandi Terme, che sono i grandi saloni più a N. Atrio e portichetti laterali, apoditerio e frigidario delle Piccole Terme furono lastricati, nel IV sec., con i marmi dell'altare di Apollo. Blocchi di architravi di templi con iscrizioni del IV sec. a. C. furono utilizzati come soglie. In seguito gli intercolumni dei portichetti furono murati con materiale raccogliticcio e, durante il VI e VII sec., forse continuarono a sussistere come casette fuori della città. Su due colonne di granito, trovate distese sopra una costruzione rettangolare ad O delle Piccole Terme, sono incise iscrizioni in caratteri del IV sec. invocanti la protezione del Signore. Da ultimo la presenza dei nuovi invasori è attestata, in questo edificio, da un'iscrizione in caratteri arabi sopra un blocco di pilastro del frigidario delle Piccole Terme.
Interi quartieri della città sono evacuati: da una lettera di Sinesio del 405 d. C. sembra che l'abitato di Cirene siasi ristretto alla parte più alta, dove, infatti, l'esplorazione ha trovato l'area del Cesareo e delle adiacenti case ellenistico-romane ingombra di miserabili abituri d'epoca bizantina; nei muri frettolosamente allestiti sono stati ritrovati frammenti di colonne e lastre di marmo appartenute a monumenti del glorioso passato. Nel settore E della città emergono il muro perimetrale e l'abside d'un tardo edificio di tipo basilicale, chiamato basilica bizantina. Rimangono parti del pavimento in mosaico con composizioni di repertorio (fra le quali una scena nilotica) simili, seppure qualitativamente inferiori a quelli della basilica di Qasr el-Lebia (Olbia ?) datati al 536. Al tempo di Giuliano l'Apostata è datata la costruzione di quel sacrario detto delle divinità alessandrine, addossato all'esterno di un tratto del muro di cinta dell'acropoli, donde proviene l'Iside policroma già descritta. Questa fabbrica ha notevole interesse per la storia delle religioni. Secondo il Ghislanzoni, tratterebbesi d'un tempio dove praticavasi un culto sincretistico a divinità orientali. La presenza delle numerose immagini di divinità in esso trovate (Afrodite, Ecate, Mitra, Cibele, Libia, Cariti, ecc.) ed anche di ritratti, fra i quali quello di Berenice, è spiegata col sincretismo religioso, proprio del tardo paganesimo. Secondo il Ferri, tutte queste statue vi sarebbero state trasportate occasionalmente da altri edifici e qui accantonate, forse per nasconderle; al suo posto sarebbe stata solamente l'Iside policroma. La presenza del bòthros (tomba cultuale di una divinità misterica) dimostrerebbe che l'edificio era stato un telesterio isiaco. Senonché il bòthros è orientato diversamente dall'ambiente circostante, onde non è impossibile che quest'ultimo sia stato costruito sul sito d'un più antico sacrario. A questo periodo risalgono le piccole rozze costruzioni cilindriche, trovate in molti edifici di C.: sono fornaci per trasformare i marmi in calce.
Scultura. - È l'epoca in cui le statue, specialmente degli dèi, sono abbattute e spezzate, perché credute ricettacoli di demonî. Positivi dati di scavo, specialmente nelle terme del Piazzale d'Apollo, hanno dimostrato che non i terremoti, di cui parla Sinesio, bensì gli uomini si adoperano contro le opere d'arte in C.: la testa del Dioniso minore fu spaccata di netto verticalmente e così pure la spalla dell'altro Dioniso; altre teste sono state ricuperate spaccate nel mezzo con colpi precisi bene assestati; altri pezzi di statue furono dispersi intenzionalmente, fatti precipitare nel condotto sottostante alle Terme donde l'acqua, tempestosa d'inverno, li trasportava giù nel vicino uadi Bu Turchia. Di prodotti d'arte di contenuto cristiano ricordiamo un marmoreo agnello accosciato, trovato nella cappella bizantina dell'Apollonion insieme con i frammenti architettonici coevi già menzionati.
Bibl.: Per la storia politica e per le antichità, oltre alle opere generali di storia greca: J. P. Thrige, Res Cyrenensium, Copenaghen 1828; A. E. Gottschick, Geschichte der Gründung und Blüte des hellenischen Staates in Kyrenaika, Lipsia 1858; A. Nieri, La Cirenaica nel sec. V giusta la lettera di Sinesio, in Riv. di Filologia, XXI, 1893, p. 220 ss.; R. M. Smith, R. E. Murdoch, E. A. Porcher, History of the Recent Discoveries at Cyrene, Londra 1864; U. v. Wilamowitz, Kyrene, Berlino 1928 (trad. it., Bergamo 1930); D. Comparetti, Iscrizione cristiana di C., in Annuario della R. Scuola ital. di Atene, I, 1914, p. 161 ss.; R. Norton, The Excavations at Cyrene, 1910-11, in Bull. of Arch. Inst. of America, 1911; R. Norton - Fairbanks, Travaux de la mission américaine aux environs de Cyrène, in Rev. des Quest. Hist., XCII, 1912; D. M. Robinson, Inscriptions from the Cyrenaica, in American Journ. of Arch., 1911, p. 157 ss.; articoli di L. Mariani, G. De Sanctis, A. Ferrabino, V. Arangio-Ruiz, E. Ghislanzoni, G. Oliverio, S. Ferri, L. Pernier, C. Anti, e altri in Notiziario Archeol. Ministero delle Colonie, I-IV, in Libya, III e IV, Milano-Roma 1927-28; in Africa Italiana, I, Bergamo 1928 e ss.; Rend. Acc. Lincei (Cl. scienze mor.), Roma 1914, 1915, 1918, 1925, 1926-30; in Aegyptus, IV, Milano 1923; in Rivista di Filologia, n. s., VI e ss., Torino 1927, 1928, 1930; in Abhandlungen d. Preuss. Akad., Berlino 1925, n. 5; in Sitzungsber. Preuss. Akad. Wiss., 1927, p. 155 s.; in Abhandlungen d. Bayer. Akad., XXXIV, II, 1928; Stroux-Wenger, Die Augustus-Inschrift von Kyrene, in Abhandl. der Bayer. Akad., XXXIV, II, 1928. Delle scoperte immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale una prima notizia è stata data in: Guida della Libia, del TCI, Milano 1937; Arch. Anz., 1938, c. 730 ss.; 1941, c. 207 ss. Per la preistoria: C. Petrocchi, Ricerche preistoriche in Cirenaica, in Africa Italiana, VII, 1940, p. i ss.; L. Di Caporiacco - P. Graziosi, Le pitture rupestri di Ain Dona (el-Auenat), Firenze 1934. Per l'età classica: Docum. ant. dell'Africa Italiana - Cirenaica, voll. I e II; G. Oliverio, La stele di Tolomeo Neóteros re di C., Bergamo 1932; id., I conti dei demiurgi, ivi 1933; id., La stele dei nuovi comandamenti e dei cereali, ivi 1933; id., Il decreto di Anastasia I su l'ordinamento politico-militare della Cirenaica, ivi, 1936 (i singoli volumi contengono, oltre al testo principale che dà loro il titolo, anche molte altre iscrizioni della regione); L. Pernier, Il tempio e l'altare di Apollo a C., Bergamo 1935; L. Vitali, Fonti per la storia della religione cirenaica, Padova 1932; F. De Visscher, Les édits d'uguste découverts à Cyrène, Lovanio-Parigi 1940; P. ROmanelli, La Cirenaica romana, Verbania 1943. Nella stessa collezione della Storia della Libia, di cui fa parte questo volume, è stata ristampata nel 1940 l'opera classica di J. P. Thrige, Res Cyrenensium, con trad. di S. Ferri. Pubblicazioni successive alla seconda guerra mondiale: C. G. C. Hyslop, Cyrene and Ancient Cyrenaica. A Guide Book (stamperia del Gov., Tripoli 1945); Fr. Chamoux, Un sculpteur de Cyrène, ecc., in Bull. Corr. Hell., LXX, 1946, p. 67-77; G. Pesce, Il Gran Tempio in C., in Bull. Corr. Hell., LXXI-LXXII, 1947-48, p. 307-358; LXXIV, 1950, II, p. 378-380 (errata-corrige); A. Rowe, New Light on Aegypto-Cyrenaean Relations, in Annales du Service des Antiquités de l'Égypte, Suppl. n. 12, 1948; Fr. Chamoux, L'Hellénisme en Cyrénaïque, in Phoibos, III-IV, 1948-1950, p. 1-15; G. Pesce, Una statua perduta di C., in Archeologia Classica, I, 1949, p. 184-187; A. Rumpf, Classical and Post-Classical Greek Painting, in Journ. Hell. Stud., LXIX, 1949, p. 10-21; G. Pesce, La documentazione epigrafica ecc. del Gran Tempio in C., in Bulletin de la Soc. Royale d'Alexandrie, n. 39, 1951, pp. 83-129; Fasti Arch., II, 1949, 2121-2123; III, 1950, 1352-54, 2442. Degli edifici più importanti tre soli sono illustrati in modo esauriente: L. Pernier, Il tempio e l'altare di Apollo, in Africa Italiana, vol. V, Bergamo 1935; id., L'Artemision, in Africa Italiana, IV, 1931, pp. 173-234; il tempio di Zeus è illustrato nelle due op. cit. di G. Pesce. Per le terme: E. Ghislanzoni, Gli scavi delle terme romane a C., in Notiziario del Min. d. Colonie, II, 1916, pp. 7-626; G. Guastini, Prime note sulla struttura e architettura delle Terme di C., ibidem, pp. 129-151; G. Oliverio, in Africa It., III, 1930, pp. 141-229. Restano inediti: tutto il quartiere dell'agorà compreso il Cesareo, gli edifici isolati sparsi per i versanti, le mura, la necropoli. Lo stesso valga per le grandi sculture, parzialmente edite, in singoli articoli, ma non raccolte in un catalogo. Bronzetti, mosaici, vasi, ecc. sono essenzialmente inediti ai fini scientifici, anche se le relative riproduzioin son pubblicate qua e là. Le più recenti pubblicazioni su C. sono: F. Chamoux, Cyrène sous les Battiades, Parigi 1953; J. Cassels, in Papers Br. Sch. Rome, XXIII, 1955, p. i ss.; A. Rowe, Cyrenaican Expedition, Manchester 1956. Il libro di L. Polacco, L'atleta C.-Perinto, L'Erma, Roma 1955, riferiscesi a C. in quanto colà è stata trovata la più importante replica del tipo statuario studiato in detto libro. Sulla comunità giudaica: S. Applebaum, A Lamp and Other Remains of the Jewish Community of Cyrene, in Israel Expl. Journ., VII, 1957, pp. 154-162. Infine il modo come fu salvato il patrimonio archeologico di C. è narrato nell'art. di G. Pesce, In margine alla storia dell'ultima guerra, ecc., in Annali della Facoltà di Lettere di Cagliari, XXI, I, 1953, pp. 1-16.
(G. Pesce*)
Iconografia. - Cirene, figlia del re dei Lapiti Ipseo, viveva cacciando sul monte Pelio. Apollo la scorse mentre ella riusciva a domare, pur senza le armi, un leone, e la rapì. La condusse in Libia, di cui divenne regina e dove dette alla luce il figlio di Apollo, Aristeo. Nell'arte è rappresentata soprattutto come vincitrice nella lotta col leone.
Il più antico monumento con questo soggetto è stato riconosciuto dallo Studniczka in un rilievo proveniente dal Tesoro dei Cirenaici ad Olimpia (cfr. Paus., vi, 19, 10). Un frammento di esso ha lasciato ricostruire una robusta figura di donna, vestita di un peplo dorico con corto apòptygma, che tiene immobilizzato contro il petto un leone: la mancanza della parte inferiore del rilievo non permette di stabilire con esattezza se la donna sia inginocchiata, o se essa cammini sollevando la fiera: per quest'ultima opinione opta il Treu, basandosi sull'esempio offerto dal tipo dell'eroe assiro che cammina reggendo un leone (v. G. Smith, Chaldean Genesis, p. 168). Con questa interpretazione del Tesoro dei Cirenaici di Olimpia concordano i versi di Pindaro, Pyth., ix, 17, 26.
In base a questa testimonianza del mito di C. in Grecia, la scena del frontone può essere completata anche dal carro di Apollo. Il Malten, invece, suppone la rappresentazione della Libia. Non resta peraltro che un gallo, la cui presenza non si oppone però all'interpretazione di tutta la scena, poiché lo troviamo rappresentato in molti vasi di origine cirenaica. La costruzione del Tesoro dei Cirenaici ad Olimpia è fatta risalire agli inizî del VI sec. a. C.
Rappresentano il mito della lotta della ninfa C. col leone, anche alcuni monumenti romani provenienti dalla stessa Cirene: un gruppo statuario e un rilievo al British Museum, ed un altro gruppo statuario al Louvre. Questo ultimo mostra C. che ha sotto i piedi il leone domato. I due monumenti al British Museum, per la somiglianza del loro gruppo centrale, fanno supporre invece un originale comune. Il rilievo rappresenta la ninfa nell'atto di strozzare un leone, mentre la Libia personificata la incorona. La scena è incorniciata dai rami di vite che ritroviamo anche in monete cirenaiche. Per l'epigramma iscritto nel rilievo v. Kaibel, Epigr., n. 842 a. La statuetta ripete il gruppo centrale del rilievo.
Lo Studniczka riconosce la ninfa C. anche in una gemma romana all'Ermitage: in essa Apollo, su un carro tirato da due cigni, rapirebbe C. raffigurata con le vesti svolazzanti.
C. ed Apollo avranno forse costituito il soggetto di pitture vascolari.
Il Malten e il Broholm (in Pauly-Wissowa, xiv, c. 155), a parte il dono votivo dei Cirenaici a Delfi (Paus., x, 15, 6), costituito da un gruppo di bronzo, in cui C. guida il carro del re Battos I, non riconoscono la ninfa in altre rappresentazioni in cui non sia raffigurata la scena della lotta col leone: lo Studniczka, invece, la riconosceva nella figura centrale di una coppa laconica, in base alla supposizione che essa reggesse in una mano un ramo di σίλϕιον, pianta che costituì la ricchezza e una sorta di monopolio della Cirenaica (Strabo, 17, 836) e il cui scopritore fu il figlio stesso di C., Aristeo.
C. accanto alla pianta di silfio si trova in alcune monete arcaiche della città omonima.
Il Malten (Kyrene, p. 206 s.) non condivide neppure l'identificazione come C. di una statua trovata nel tempio dedicato alla ninfa nella città omonima, poiché essa non corrisponde alla descrizione della statua di culto di questo tempio fatta da Pindaro (Pyth., iv, 260: la statua descritta era χρυσόϑρονος, mentre qui la figura di donna è rappresentata in piedi).
Bibl.: Tesoro di Olimpia: Fr. Studniczka, Kyrene, eine altgriechische Göttin, Lipsia 1890, p. 28 ss., tavv. 20-21; W. Dörpfeld, Olympia, Berlino 1892, testo II, i, p. 48 ss.; tavole, 1, 32; G. Treu, ibidem, 1897, III, pp. 19-23, tav. 111, 4; L. Malten, Kyrene, Berlino 1911, p. 57, 4. Gruppo del Louvre: W. Fröhner, Notice de la sculpture antique, Parigi 1889, p. 478. Rilievo del British Museum: R. H. Smith-E. A. Porcher, Discoveries at Cyrene, Londra 1864, tv. 76; Studniczka, op. cit., p. 31. Statuetta del British Museum: R. M. Smith-E. A. Porcher, op. cit., pp. 43-99; Studniczka, op. cit., p. 30. Gemma dell'Ermitage: Studniczka, in Roscher, II, c. 1727; J. Overbeck, Kunst. Myh., V, 495, 24. Pitture vascolari: K. O. Müller - F. Wieseler, Denkmäler, II, Gottinga 1854, 13, p. 140. Dono votivo di Delfi: Ath. Mitt., XXXIV, 1909, p. 335. Coppa laconica: Studniczka, op. cit., p. 18; J. P. Doop, in Ann. of the Br. Sch., XIV, p. 45. Monete: Revue Num., 1885, tav. 12, 5, p. 398; Num. Chron., 1886, tav. 1, 6, p. 9; cfr. B. V. Head, Hist. num., Oxford 1911, pp. 865-66. Statua dal tempio di Cirene: Studniczka, op. cit., p. 171.
(G. Sgatti)
Musei. - Mentre il suolo di C. ha continuato a restituire con ininterrotta generosità serie e serie di sculture e di altri pregevoli documenti artistici, sia nelle regolari campagne di scavo che in scoperte occasionali avvenute anche in questi ultimi anni, è da ammettere che gli uomini non hanno ancora provveduto a sistemare e a organizzare queste ricchezze in un vero e proprio museo. Causa, almeno in parte, di questo stato di cose è stata appunto la ricchezza stessa del materiale che veniva ad affluire senza tregua ai centri di raccolta, stagione per stagione. Mentre, d'altra parte, si volle in qualche caso applicare il principio di conservare, quando fosse possibile, sul luogo alcuni gruppi di monumenti. Così le sculture delle Terme che rappresentano uno dei nuclei più vistosi e tra i primi ad esser rivelati, sono attualmente ancora conservati in una sala delle Terme stesse appositamente restaurata. Analogamente alcune tra le più antiche e preziose sculture rinvenute nel Santuario di Apollo vennero raccolte nel restaurato Strateghèion e altri nuclei ospitati in un piccolo ambiente non lontano dalla basilica cristiana.
Al momento attuale il museo vero e proprio comprende le più monumentali e complete tra le sculture greco-romane, quali lo Zeus del Capitolium, i gruppi delle Charites, la Isis Mummia e numerose altre. Le sculture più incomplete o non ancora restaurate e valorizzate si trovano, invece, in un magazzino adiacente. Annesso è anche il Museo Epigrafico che raccoglie i documenti più importanti per la storia di C. e per le istituzioni religiose e civili dell'antichità. In locali separati hanno trovato invece posto un piccolo museo di frammenti architettonici e decorativi e un Antiquarium in cui sono conservati alcuni piccoli bronzi, il medagliere, in verità assai scarno, e alcuni vasi isolati tra cui le note anfore panatenaiche di Barce e di C. e il frammento di coppa laconica con una figurazione dei Sette contro Tebe.
Le terrecotte non numerose e senza confronto meno notevoli delle serie cirenaiche del British Museum e del Louvre, sono raccolte in un magazzino insieme con i frammenti di ceramica, anch'essi assai poveri. È sorprendente quanto poco abbiano reso per ora le tombe della necropoli, da cui ad esempio si sarebbero potuti aspettare dati di estrema importanza per le datazioni della ceramica corinzia (le controversie sulla data di fondazione di C. sono infatti minime). Anche gli strati profondi del santuario esplorati hanno reso relativamente pochi frammenti di ceramica in confronto all'enorme ricchezza di marmi che in una regione priva di materia prima dovevano rappresentare delle importazioni ben più difficili e costose.
Oltre ai nuclei sopradetti, una serie ininterrotta di stele, statue iconiche e statue funerarie, per lo più mezze figure, è allogata all'aria aperta nei giardini e anche nella necropoli.
Da un punto di vista di importanza storico-artistica, il museo di C. offre un gruppo assai notevole di sculture arcaiche, che riflettono l'origine mista della colonizzazione. e in cui è possibile riconoscere affiancate le tradizioni figurative delle Cicladi e di Sparta. Nell'età ellenistica è notevole un gruppo di sculture votive e di ritratti riferibili al sempre crescente influsso alessandrino. Al seguito di documenti che sembrano doversi ricondurre all'ultimo ellenismo classicizzante quali la famosa Afrodite e lo Zeus del Capitolium, si sviluppa il mondo delle copie romane sia nella classe di marmi minuti da giardino o votivi, sia in quelle di tradizione accademica.
Le collezioni antiche di C. hanno sofferto a causa della guerra: e non è facile calcolare con precisione tali perdite, vista la nostra conoscenza assai incompleta delle consistenze esatte del museo e dei magazzini. Sculture e bronzi, taluni di grandissimo pregio, non sono stati più ritrovati. Mentre il fatto che i materiali minori o frammentarî sono stati per lo meno sconvolti in conseguenza della distruzione delle impalcature lignee dei magazzini, non lascia tranquilli sul fatto che essi ci siano arrivati integri e in ogni modo ha fatto perdere dati di provenienza e associazioni per questi ultimi. Delle sculture del museo sono in preparazione i cataloghi dei soggetti mitologici (a cura di E. Paribeni) e dei ritratti (a cura di A. Rosenbaum).
(E. Paribeni)