Circe
. Figura della mitologia classica, la maga C. era, secondo la tradizione, figlia del Sole e dell'oceanina Perse, o di Iperione ed Aërope, e sorella (o secondo alcuni figlia) di Eetas, re di Colchide.
Universalmente nota attraverso l'Odissea (libro X), dove spesso è considerata dea, abitava l'isola di Eea, dove la trovò Ulisse con i suoi compagni, dopo esser fuggito dal paese dei Lestrigoni. Attirati dal canto melodioso e lusingati dalla gentilezza della maga, alcuni compagni di Ulisse, guidati da Euriloco, entrano nel marmoreo palazzo custodito da lupi e leoni, dove vengono trasformati, per mezzo di filtri malefici, in porci. A Ulisse che si avvia nel palazzo di C. si fa incontro Mercurio, sotto le spoglie di un giovinetto, che lo informa della sorte dei compagni e gli dà una pianta magica, l'erba " moli ", che ha il potere di rendere innocuo il filtro della maga, e gl'insegna come comportarsi. Ulisse ottiene così che i suoi compagni siano restituiti alla forma umana. Egli resta poi presso C. per un anno, godendo l'abbondanza dell'isola e l'amore della dea, fino a quando i compagni non lo inducono a chiedere alla dea di riprendere il mare. C. acconsente, ma rivela all'eroe che prima deve discendere nell'oltretomba e interrogare Tiresia sul destino che l'attende.
D. ignorava i poemi omerici e forse non ne conosceva nemmeno i tardi compendi medievali, allora in voga nelle scuole, che potevano informarlo sulle vicende attraversate da Ulisse durante il ritorno in patria. È molto improbabile, ma non è da escludere assolutamente, che egli abbia conosciuto la Ephemeris belli Troiani attribuita a Ditti Cretese e la Historia de excidio Troiae di Darete Frigio, nonostante quest'ultima sia ricordata qualche volta nei commenti dell'Inferno, come anche il Roman de Troie di Benoît de Sante-Maure (sec. XII) e le altre elaborazioni romanzesche dei fatti di Ilio (tra cui la Historia destructionis Troiae, compiuta il 1287) dove l'ampio svolgimento dei fatti e il gusto del fantastico e dell'avventura assumono un' impronta spiccatamente medievale. Una narrazione assai dettagliata ne faceva Giovanni di Salisbury, che in un passo del Policraticus (VI 18; ediz. Webb, II 326), derivato con molta probabilità da Igino (Fab. 125), elenca i pericoli da cui Ulisse si salvò per l'intervento di Minerva.
D'altra parte occorre notare che le numerose, anche se sparse, citazioni dei poemi omerici negli autori latini letti da D. creano, ove si voglia stabilire con certezza le fonti tenute presenti dal poeta, complessi problemi, talvolta di difficile soluzione.
C. è ricordata in If XXVI 90-93, nell'episodio di Ulisse dove l'eroe greco, assurto a simbolo dell'uomo che aspira a seguir virtute e conoscenza, " esordisce dal momento più decisivo dell'atto ultimo e più glorioso della sua vita, dal giorno cioè in cui, detto addio alle voluttà dei sensi, che ancora avrebbe potuto godere presso Circe, risolve di mettersi per un nuovo cammino, lui che ne aveva già percorsi tanti " (Pietrobono, ad l.): Quando / mi diparti' da Circe, che sottrasse / me più d'un anno là presso a Gaeta, / prima che sì Enëa la nomasse... C. aveva dunque trattenuto presso di sé Ulisse per più di un anno (" tolse me a me stesso, mi fece dimentico di me medesimo per più di un anno ", commenta il Pietrobono) presso il monte Circello non lontano da Gaeta, dimora di C. prima che Enea la chiamasse così, a ricordo della sua nutrice di nome Caieta, ivi morta e sepolta. D. teneva certamente presente Virgilio (Aen. VII 1 ss. " Tu quoque litoribus nostris, Aeneia nutrix, / aeternam moriens famam, Caieta, dedisti; / et nunc servat honos sedem tuus, ossaque nomen / Hesperia in magna, si qua est ea gloria, signant ") e Ovidio (Met. XIV 157 " litora adit [scil. Aeneas] nondum nutricis habentia nomen "). In Ovidio, Macareo, il cui nome non s'incontra in Omero, narra come Ulisse ordina ai compagni vecchi e stanchi (Met. XIV 436-437 " resides et desuetudine tardi / rursus inire fretum, rursus dare vela iubemur "; cfr. If XXVI 106 vecchi e tardi) di riprendere il mare. Ivi leggiamo ancora: " annua nos illic tenuit mora " (Met. XIV 308), e " talia multa mihi longum narrata per annum " (XIV 435).
C. svolge un ruolo assai efficace nella concezione dantesca, in quanto esprime il fascino del falso piacere che porta alla bestialità, e si contrappone alla brama di conoscere dei magnanimi, all'eroica tensione dello spirito indagatore del vero, all'ansia dell'eterna vita ideale e del mistero.
In Pg XIV 37 ss. D. volendo significare l'estrema corruzione degli abitanti della valle dell'Arno " per disgrazia del luogo, o per reo abito fatto al vizio, che li fruga, li molesta e sollecita al mal fare " (Vellutello), fa dire a Guido del Duca che essi hanno mutato la loro natura umana, sì da dare l'impressione di essere piuttosto bestie, come se la maga C. li avesse mutati in animali con i suoi filtri (che par che Circe li avesse in pastura, Pg XIV 42: cfr. Virg. Aen. VII 19-20 " quos hominum ex facie dea saeva potentibus herbis / induerat Circe in vultus ac terga ferarum ", e Orazio Epist. I II 23-26). Assai opportunamente è stato richiamato il passo di Cv II VII 3-4 quando si dice l'uomo vivere, si dee intendere l'uomo usare la ragione, che è sua speziale vita e atto de la sua più nobile parte. E però chi da la ragione si parte e usa pur la parte sensitiva, non vive uomo, ma vive bestia; sì come dice quello eccellentissimo Boezio: " Asino vive " (cfr. Boezio Cons. phil. IV III 11 e a proposito di Asinum vivit l'osservazione del Nardi in " Giorn. stor. " XCV [1930] 82).
Che D. abbia evocato C. indirettamente - come ha osservato il Renucci - è solo probabile, non certo; specialmente se si considera che i tre versi di Pd XXVII 136-138 (Così si fa la pelle bianca nera / nel primo aspetto de la bella figlia / di quel ch'apporta mane e lascia sera) sono destinati con ogni probabilità a restare un enigma. I tentativi d'interpretazione hanno portato alle conclusioni più diverse. Nella bella figlia i commentatori hanno creduto di riconoscere di volta in volta l'Aurora (Torraca, per il quale è nera la fase anteriore al suo apparire, la cui interpretazione è difesa e accolta da P. Nai per il quale " il cielo, di bianco che era al mattino, diventa nero la sera " [cfr. Pd XXII 91-93], interpretazione precisata successivamente nella sua rec. al commento Scartazzini-Vandelli); la Luna (Buti, ripreso da Antonelli); la Chiesa (Lana, la cui interpretazione è accolta e difesa dallo Scartazzini); la luce solare (B. Catalani, che si richiama a Cicerone Orat. 2; M. Porena, per il quale vale " la visione diretta della luce solare "); la natura umana figlia del Sole (detto in Pd XXII 116 padre d'ogne mortal vita); la specie umana (F. Romani: " il candore morale della più bella delle viventi specie generate dal sole, cioè della specie umana, in poco tempo si annera "); e infine Circe.
Quest'ultima interpretazione è stata prospettata da molti, dal Galanti al Filomusi Guelfi (la cui ipotesi è condivisa dal Pellegrini) al Lanzalone (cfr. Filomusi Guelfi, Studi su D., pp. 561 e 563; " Bull. " XVIII [1911] 219), e poi ripresa e precisata dal Barbi (e condivisa dal Casini), che vede nella figlia del Sole C. e interpreta: " in questa guisa, ai primi allettamenti dei beni mondani (al primo aspetto de la bella figlia del sole) gli uomini cedono e perdono la loro natura di esseri ragionevoli per diventare bestie ". In realtà, come già notato dal Filomusi Guelfi, C. è detta solis filia da Virgilio (Aen. VII 11) e Ovidio (Met. XIV 346). Peraltro è molto probabile che D. tenesse presente anche Boezio (Cons. phil. IV III), dove C. è detta ‛ pulchra... dea Solis edita '.
Il Barbi ricorda inoltre, a sostegno della sua interpretazione, le parole pronunciate da Beatrice (Pg XXXI 34-36 e 43-45) dopo che D. ha ammesso d'essersi lasciato vincere dal falso piacere dei beni terreni, il valore simbolico che C. acquista in Pg XIV 37-42 e il sogno del canto XIX del Purgatorio. Il Pellegrini aveva già notato che l'interpretazione del Filomusi Guelfi " riesce chiara e attraente " specialmente per chi è propenso a riconoscere C. nella femmina balba del canto XIX del Purgatorio, in quanto " i due passi si illustrano a vicenda ". Ma quanto all'interpretazione di Pd XXVII 136-138 l'unica cosa sicura è, come ha osservato il Petrocchi, " l'immagine della pelle che da bianca si fa nera "; e nelle parole lo volsi Ulisse del suo cammin vago / al canto mio (Pg XIX 22-23), pronunciate dalla dolce serena nel sogno simbolico, è discusso se si debba riconoscere Circe. Tuttavia, una sirena non poteva vantarsi di aver trattenuto Ulisse presso di sé, perché Ulisse riuscì a sfuggire al canto melodioso delle sirene; poteva ben farlo C. che lo trattenne presso di sé più di un anno. D'altra parte D., che non conosceva i poemi omerici, avrebbe potuto considerare benissimo C. come una sirena (come ha già notato il Lana). Un passo di Cicerone (Fin. V XVIII 49; cfr. Moore 1264) non gli consentiva di distinguere con chiarezza tra l'una e l'altra (per il significato che hanno entrambe in Cicerone, vedi sub v.). Infine, D. non conosceva soltanto, come nota il Vandelli, l'ambiguo passo del De Finibus, giacché delle sirene si parla nelle Epistole di Seneca a Lucilio (XXXI 1-2, LVI 14, CXXIII 11-12), fonte ben nota al poeta. Ad accrescere il dubbio di un possibile scambio in D. delle sirene con C., sta inoltre il fatto, già notato (cfr. " Bull. " XXIII [1916] 45) che secondo Servio (ad Aen. V 864) e Igino, Ulisse disprezzando le sirene ne abbia causato la morte. Per l'interpretazione del passo si veda, oltre al Barbi, il Vandelli e il Sapegno (ad l.), che cita anche Pg XXXI 45. Vedi anche SIRENE.
Bibl. - B. Catalani, La figlia del Sole nella D.C., in " L'Alighieri " I (1889-90) 139 ss.; F. Pellegrini, in " Bull. " I (1893-94) 23 ss.; E.G. Parodi, La lettura di D. in Orsammichele..., ibid. XI (1904) 193 n. 2; ID., rec. a D.A., La D.C. commentata da G.A. Scartazzini, settima edizione in gran parte rifatta da G. Vandelli..., ibid. XXIII (1916) 65; F. Romani, Lectura Dantis: il Canto XXVII del ‛ Paradiso '..., Firenze 1904; M. Barbi, Problemi I 292 ss.; H.-D. Austin, " Black but comely ", Par. XXVII 136-138, in " Philological Quarterly " XV (1936) 352-357; P. Nai, Dieci passi controversi della D.C., in " Rivista Rosminiana " XXXII (1938) 142 ss.; A. Renaudet, D. humaniste, Parigi 1952, 450-452 n., 454, 468; P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, ibid. 1954, 45, 145 ss., 231, 357, 365.