cinici
Seguaci dell’indirizzo filosofico che nelle ‘successioni dei filosofi’ degli eruditi alessandrini – per lo più riconsiderate criticamente dalla storiografia contemporanea – si vuole avviato da Antistene, l’allievo di Socrate che alla morte del maestro prese a insegnare presso il ginnasio alla periferia di Atene detto Cinosarge («cane agile»). Di qui secondo alcuni deriverebbe la denominazione di c. attribuita ai membri della scuola; più probabile è invece che il termine derivi dall’appellativo «il cane» (ὁ κύων) riferito dapprima a Diogene di Sinope, l’esponente più celebre di questo indirizzo filosofico e successore di Antistene, e poi a tutti i seguaci della scuola. Oltre a designare la vita randagia e indifferente ai bisogni condotta dai c., l’appellativo evidenzia un aspetto del loro stile di vita – quello legato al vagabondaggio, alla scarsa cura del corpo e dei vestiti, all’atteggiamento aggressivo – che dovette colpire profondamente la sensibilità dei contemporanei: il cane è infatti per i Greci simbolo di sfrenata spudoratezza.
Animato da scarsi interessi teoretici e da una prepotente vocazione pratica, più che una scuola filosofica in senso stretto, il cinismo sarebbe secondo alcuni semplicemente uno «stile di vita» (ἔνστασις βίου, come si legge in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 103), consistente soprattutto in un costante esercizio pratico (ἂσκησις) alla ricerca della virtù. Le fonti antiche parlano di ἀναίδεια, la «svergognatezza» cinica, l’assoluta mancanza di pudore nell’agire che si mostrava nel rifiuto di ogni convenienza sociale, e spingeva alla provocante ostentazione di uno stile di vita animalesco e privo di ogni filtro morale. Un altro aspetto della vita pratica del cinico sul quale si sofferma la dossografia antica è la παρρησία, l’abitudine di parlare senza riguardi, con eccessiva libertà, che fu parallelamente scuola di dura sincerità morale. E nel perseguire tale παρρησία, molti c. finirono paradossalmente per diventare scrittori: di qui l’apparente incongruenza di una corrente filosofica che ostenta il più grande disprezzo di ogni forma specifica di cultura (fino quasi a giustificare l’analfabetismo) e che insieme crea una ricca tradizione letteraria: dialoghi, satira giambica, parodie dell’epos, poesia parenetica, memorie biografiche, lettere, fino al tropos classico della diatriba, genere semiserio in cui il dialogo socratico si contamina con il discorso sofistico, in un intreccio continuo di citazioni poetiche, racconti e aneddoti, dove cinismo e stoicismo si incontrano nel solco della tradizione della conferenza popolare su temi etici.
La scuola c., cui Diogene Laerzio dedica l’intero 6° libro delle Vite dei filosofi, fu attiva fino al 5° sec. d.C. Tra i discepoli di Diogene si ricordano Onesicrito, Monimo e Cratete di Tebe, che convertì al cinismo la moglie Ipparchia e il fratello di questa Metrocle e fu maestro di Zenone di Cizio, il fondatore della scuola stoica; alle generazioni successive (4°-3° sec. a.C.) appartennero Menedemo, Menippo di Gadara, Bione di Boristene, Cercida e Telete; gli ultimi quattro legarono il loro nome allo sviluppo del genere letterario della diatriba, quello che meglio esprime la carica polemica e dissacrante dell’argomentare cinico. Dopo un lungo periodo di declino la scuola tornò in auge nel 1° sec. d.C., condividendo con i filosofi stoici valori come la libertà interiore e l’austerità dei costumi. Oltre a Dione Crisostomo (1° sec. a.C. - 1° sec. d.C.), vanno ricordati Demetrio, Demonatte, Peregrino ed Enomao. Nel 4° sec. Massimo di Alessandria, stando alle contemporanee testimonianze di Girolamo e Gregorio Nazianzeno, tentò una conciliazione tra il rigorismo c. e il cristianesimo. L’ultimo rappresentante della scuola conosciuto per nome è un tale Salustio, vissuto nel sec. 5°.
Sorto da una riduzione dell’insegnamento socratico al suo puro motivo etico, la ricerca del filosofo c. è incentrata esclusivamente sulla soluzione del problema pratico, di cui il sapiente è signore in quanto sa che, quanto più riuscirà ad allontanare da sé bisogni e desideri, tanto più avrà conquistato libertà e tranquillità spirituale. Per il saggio non esiste altra conoscenza al di là di questa; cade così ogni interesse per il sapere propriamen- te teoretico. Unico ideale è quello dell’εὐδαιμονία quale si realizza nella virtù, e cioè nell’autarchia (αὐτάρκεια, non αὐταχία), nell’autosufficienza dello spirito che considera ogni bene esterno come «indifferente», e quindi tale che non possa mai allontanare l’animo dalla sua assoluta ἀπάϑεια («apatia»). L’ascesi c. è perciò ascesi nel senso antico della parola, esercitazione faticosa del volere alla libertà: di qui il disprezzo del piacere e l’esaltazione dello sforzo, del πόνος. Di qui, ancora, il rifiuto di tutto ciò che comporta accrescimento di bisogni, e cioè di ogni cultura e civiltà, nonché degli istituti sociali, quali famiglia, patria e religione, che – recuperando una distinzione già diversamente impiegata dai sofisti – vengono stigmatizzati come «convenzioni» contrapposte alla «natura», limite irriducibile oltre il quale sarebbe impossibile la vita stessa.