Politico, cinema
Per cinema politico si intende un cinema che racconta e analizza la condizione umana di fronte al Potere e alla Storia e che si oppone alle verità imposte dalla 'storia ufficiale', offrendo, grazie alla forza stessa del suo linguaggio, altri e inediti punti di vista, altre modalità di narrazione e di rappresentazione del reale. Un cinema cui spesso sono state assegnate varie etichette, come quelle di cinema di impegno civile o di denuncia, e una cui ulteriore accezione è il cosiddetto cinema militante, un'espressione che in senso stretto fu coniata in riferimento ai movimenti cinematografici legati alle rivolte politiche della fine degli anni Sessanta, ma che connota anche il cinema legato alle lotte di indipendenza dei Paesi del Sud del mondo, di impronta prevalentemente documentaristica e ideologica. La grande tradizione del cinema documentario (sin dagli anni Trenta e dalle opere di John Grierson e Joris Ivens) ha offerto luminosi esempi di un cinema che esplora antropologicamente e 'politicamente' le sofferenze umane; ma è solo attraverso la finzione che il cinema ha saputo condurre a un livello di autenticità e di incandescenza espressiva la materia, spesso tragica, della cronaca e della storia, in virtù anche di una forte tensione verso la ricerca e l'innovazione stilistica, nello sforzo ‒ più o meno dichiarato ‒ di rendere coerenti visione (del mondo e del cinema), forma, contenuto.In questo senso, la tradizione del c. p. innerva profondamente il corpo e la storia dell'arte cinematografica ‒ invero soprattutto di quella europea ‒ tracciando un filo rosso che si dipana compiutamente, sin dagli anni Venti, dai grandi autori e teorici dell'avanguardia sovietica, su tutti Sergej M. Ejzenštejn, Lev V. Kulešov, Dziga Vertov, e, parallelamente, attraverso i percorsi incrociati, tra teoria e sperimentazione, delle avanguardie europee (v. avanguardia cinematografica). Fu però l'esperienza del realismo poetico francese (v. realismo) degli anni Trenta e, in modo ancor più evidente, la scuola del Neorealismo italiano a portare sullo schermo una diversa e sincera attenzione per le classi subalterne e per le differenze sociali e una vibrante denuncia della violenza ideologica e del militarismo: si ricordano solo alcune opere come La grande illusion (1937; La grande illusione) di Jean Renoir, Roma città aperta (1945) e Paisà (1946) di Roberto Rossellini. La lezione del realismo poetico francese e del Neorealismo italiano era del resto destinata a essere proseguita e al tempo stesso superata ‒ sul finire degli anni Cinquanta ‒ dall'avvento delle 'nuove onde' del cinema europeo, dal Free cinema inglese, nato in prima battuta come movimento attivo nel campo del documentario sociale, alla Nouvelle vague francese, che ebbe in Jean-Luc Godard il suo autore più scopertamente attento alla dimensione politica. Certamente non estranei all'avvento di una nuova era cinematografica, soprattutto nel contesto europeo, furono, oltre alle dinamiche socio-culturali, la riflessione e l'impatto sulle tragiche vicende della Storia ‒ il secondo conflitto mondiale, la Shoah, la divisione del mondo in blocchi contrapposti ecc. ‒ e il legame sempre più forte tra la narrazione cinematografica e le suggestioni di altri linguaggi.
Durante tutti gli anni Sessanta, culminati nelle rivolte del 1968 e, a Est, nei tragici fatti di Praga, il rinnovamento cinematografico avrebbe interessato un po' tutta l'Europa, a Ovest come a Est, seguendo ‒ e qualche volta anticipando ‒ i grandi mutamenti socio-politici e del costume. Il movimento di rivolta sociale che caratterizzò nel 1968 il Maggio francese fu sentito dai cineasti, anzitutto da Godard, come un evento in piena sintonia con il lavoro di rivoluzione dei linguaggi attuato dalla Nouvelle vague, al punto da radicalizzare il lavoro dei registi, accanto agli studenti e ai lavoratori, inventando la forma di cinema militante dei Cinetracs, sorta di cinegiornali politici autoprodotti e girati in forma collettiva.Godard con la formazione del Gruppo Dziga Vertov avrebbe intensificato il carattere politico-militante, già presente nel suo cinema, realizzando film come Pravda (1969), Vent d'Est, noto anche come Vento dell'Est (1970), Lotte in Italia (1971). Ma anche un film a più mani come Loin du Vietnam (1967; Lontano dal Vietnam) di Godard, Ivens, William Klein, Alain Resnais, Agnès Varda, Chris Marker, Claude Lelouch testimoniò di una tensione e di un impegno politico tradotti nel linguaggio del cinema d'autore in senso militante.Nell'Europa dell'Est, il cinema ungherese ebbe il suo alfiere in Miklós Jancsó che diresse una celebre tetralogia sui rapporti tra storia, politica, religione (Szegénylegènyek, 1964, I disperati di Sandor; Scillagosok katonák, 1967, L'armata a cavallo; Csendès kiáltás, 1968, Silenzio e grido; Ėgi bárány, 1970, Agnus Dei); il cinema polacco conobbe il talento di Andrzej Wajda che fin da Popiół i diament (1958; Cenere e diamanti), epica e romantica ricostruzione dell'ambigua transizione della Polonia post-nazista, ha riflettuto nel suo cinema sui destini politici dei Paesi dell'Est europeo nell'ambito del blocco sovietico, arrivando a film che hanno la forma del pamphlet politico come Człowiek z marmuru (1977; L'uomo di marmo) e Człowiek z želaza (1981; L'uomo di ferro); il nuovo cinema cecoslovacco rivelò, tra gli altri, autori come Miloš Forman e Jiří Menzel, regista, nel 1969, di Skřivánci na niti (Allodole sul filo), ispirato ai racconti di B. Hrabal, satirico apologo sulle assurdità della burocrazia stalinista, rimasto censurato per oltre venti anni. Gli intrighi del potere e la corruzione sociale e politica sono temi di indagine privilegiati del cinema politico. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta un cinema di 'impegno civile' attraversò in Italia un'ineguagliata stagione, acclamata dal pubblico e dalla critica a livello internazionale: di Francesco Rosi Salvatore Giuliano (1962), che rivela gli intrighi di Stato nella morte del mitico bandito, e Le mani sulla città (1963), tagliente documento, privo di spettacolarizzazioni, sulla grande stagione della speculazione edilizia meridionale; di Elio Petri A ciascuno il suo (1967) e Todo modo (1976), entrambi ispirati alle pagine di L. Sciascia, passando per un film premonitore sull'impunità del potere come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970). E accanto agli evidenti risvolti politici riversati nella metaforicità dei film di Paolo e Vittorio Taviani o in alcune opere di Pier Paolo Pasolini come Teorema (1968) e Porcile (1969), importante fu anche il film a episodi Amore e rabbia (1969) di Pasolini, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Carlo Lizzani e Godard, vibrante riflessione di gruppo che si faceva specchio della coscienza politica dei suoi autori. In quel periodo in Italia si sviluppò anche un cinema di intervento politico diretto che rispecchiava la condizione operaia e di cui restano esempi importanti i film di Ugo Gregoretti Apollon: una fabbrica occupata (1969) e Il contratto (1970).Anche il nuovo cinema tedesco, negli anni Settanta, impose internazionalmente temi sociali e politici con i suoi autori forse più geniali, eclettici, e 'maledetti', Rainer Werner Fassbinder e Werner Herzog. Del primo esemplare è risultato Angst essen Seele auf (1974; La paura mangia l'anima), amarissimo melodramma sull'impossibilità, anche per l'amore, di superare le barriere del razzismo, e la partecipazione al film collettivo Deutschland im Herbst (1978; Germania in autunno), impietosa e autocritica riflessione tra documento e finzione sulla cupa stagione terroristica (cui nel 1981 Margarete Von Trotta dedicherà, da un'ottica prevalentemente femminile uno dei suoi film più riusciti, Die bleierne Zeit, Anni di piombo); di Herzog opere di ambizione universale come Aguirre ‒ Der Zorn Gottes (1972; Aguirre furore di Dio) e Fitzcarraldo (1982) che riflettono sulla follia mistica dell'imperialismo coloniale e capitalistico, ma anche Jeder für sich und Gott gegen alle (1974; L'enigma di Kaspar Hauser), lettura profondamente politica (molto più di quella effettuata in L'enfant sauvage, 1970, Il ragazzo selvaggio, da François Truffaut) di un caso di emarginazione sociale (un giovane ritardato, trovato in stato di abbandono) nella Germania dell'Ottocento. Anche il cinema d'autore statunitense a sua volta aveva saputo offrire importanti esempi dei modi di riflessione critica sull'identità nazionale e sulle follie della guerra e della logica imperialista. E se un americano come Stanley Kubrick con Dr. Strangelove: or how I learned to stop worrying and love the bomb (1964; Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba) aveva regalato agli spettatori uno dei pochi capolavori di satira politica ispirato al clima della guerra fredda, due registi non catalogabili nel mainstream hollywoodiano come Michael Cimino (The deer hunter, 1978, Il cacciatore) e Francis F. Coppola (Apocalypse now, 1979) avrebbero elaborato con grande sapienza narrativa e stilistica il profondo trauma sociale rappresentato dalla sconfitta USA nel conflitto con il Vietnam del Nord.
Costitutivamente intessuto di paura e desiderio, ma anche, sul piano collettivo, di immaginario e di ideologia, il cinema ha da sempre incarnato i sogni e le istanze degli individui e dei popoli. La natura stessa del suo dispositivo tecnico enfatizza sin dall'origine la sua funzione collettiva di rito, narrazione, rappresentazione e di inesauribile deposito di storie e di metafore, dunque di memoria; esso è tuttora uno dei serbatoi più capaci e significativi della memoria popolare, specialmente nei Paesi del cosiddetto Terzo mondo, dove lo sviluppo autoctono del cinema ha coinciso con la conquista dell'indipendenza (per es. nei Paesi africani, v. Africa), svolgendo un'opera efficacissima in quanto strumento di recupero del passato e dell'identità. Appare del resto sin dall'inizio privilegiato il rapporto che il cinema instaura con il territorio ‒ dunque con i suoi set ‒ e che lo lega indissolubilmente all'idea di nazione e di immaginario nazionale. Al tempo stesso, il cinema nacque in un periodo di perdurante espansione del colonialismo, assumendo ben presto una vocazione strategica internazionale, e incarnando il mito della 'nuova frontiera', tenacemente perseguito ‒ sin dai primi decenni di vita del nuovo mezzo ‒ come investimento al tempo stesso economico e sociale. Dapprima arte 'migrante'‒ di cui Hollywood avrebbe rappresentato la massima espressione ‒ il cinema si trasformò, con l'ascesa dei regimi totalitari, drammaticamente, in arte dell'esilio, però generatrice di rilevanti processi di contaminazione e 'ibridazione' tra le culture. Basti pensare ai cineasti europei riparati negli Stati Uniti in fuga dalla morsa del nazismo, o per converso alle 'liste nere' del periodo del maccartismo e agli autori che dagli Stati Uniti si rifugiarono in Europa per sottrarsi alle inquisizioni anticomuniste. Ma l'esilio era spesso imposto non solo da ragioni politiche, ma anche economiche; così molti cineasti dei Paesi in via di sviluppo dovettero formarsi in Occidente per la mancanza di strutture e mezzi cinematografici. In molti casi, questo ha portato all'innesto di correnti cinematografiche ‒ quasi dei veri e propri generi ‒ nel corpo dei Paesi di accoglienza: il cinema beur in Francia (con il termine beur si indicano in questo Paese i figli degli emigrati dalle ex colonie nordafricane), che sceglie come set privilegiato le periferie parigine, dando poi vita alla formula del banlieu film; il black cinema britannico, espressione apertamente politica delle rivendicazioni sociali ed economiche delle comunità africane e caribiche; il cinema della comunità turca in Germania. A volte, le atrocità della Storia hanno spinto intere cinematografie a riprodursi, artisticamente e produttivamente, fuori dai confini della propria terra: è il caso del cinema cileno, azzerato dal colpo di stato del 1973 e rinato in quindici Paesi diversi o del cosiddetto 'nuovo cinema palestinese' (v. palestinese, cinema) pensato e finanziato in Europa, da autori in esilio ma che sarebbero riusciti a girare i loro film ‒ in condizioni di estrema difficoltà, e spesso in clandestinità ‒ nella propria terra espropriata. Sul finire del Novecento, denominato il 'secolo dei profughi', sono emersi autori e opere senza nazionalità e senza patria, un cinema che alcuni critici e registi hanno definito apolide, ma che spesso è in realtà un cinema meticcio, in grado in molti casi ‒ grazie a formule produttive indipendenti ‒ di mettere in crisi, e dall'interno, il concetto stesso di nazionalismo (si pensi al lavoro svolto dall'israeliano Amos Gitai e dal palestinese Elia Suleiman); di lavorare sullo spaesamento spaziale e temporale dei suoi set, tendendo a scavalcare sul piano stilistico la rigida e mistificante barriera tra documento e fiction, a mescolare generi e linguaggi. Spesso, d'altra parte, i suoi stessi autori sono rappresentanti di identità multiple e danno vita a un cinema di grande valenza poetico-politica nell'analisi del rapporto dialettico tra fenomeni sociali e specificità culturali e nella messa in evidenza delle potenzialità umane, civili e sociali e dei fermenti di trasformazione del Sud del mondo. È un processo questo che, iniziato negli anni Sessanta, testimonia la sua straordinaria vitalità nei decenni successivi. I nomi degli autori più significativi vanno dal padre del cinema africano il senegalese Ousmane Sembène, all'egiziano Youssef Chahine, dagli indiani Satyajit Ray e Ritwik Ghatak, ai brasiliani Glauber Rocha e Nelson Pereira dos Santos, dall'etiope Haile Gerima al maliano Souleymane Cissé, dal burkinabé Idrissa Ouedraogo al cinese Chen Kaige, dall'iraniano Abbas Kiarostami al filippino Lino Brocka, dal turco di origine curda Yilmaz Güney all'argentino Fernando Solanas. Autori che (spesso a rischio della propria vita, come nel caso di Brocka, Güney e Solanas) attraverso la loro intera opera cinematografica si sono resi interpreti della Storia e delle istanze, culturali e di libertà, dei propri popoli.
Il c. p. continua a cercare uno sguardo diverso sugli uomini e sulle cose e sulle relazioni tra uomini e cose opponendosi all'omologazione televisiva planetaria come pure a un'immagine cinematografica sempre più autoreferenziale, che si accontenta di sé stessa e della propria valenza tecnologica; un cinema che nel margine e nel 'fuori campo' insegue il nesso dialettico tra fenomeni sociali e culturali. Del resto, è sempre più evidente la volontà di imporre uno sguardo e un pensiero unico, possibilmente da una condizione di monopolio economico.Nonostante i condizionamenti, repressivi ed economici, il cinema contemporaneo continua a raccontarci la cultura dei popoli e le sue contraddizioni. Vanno isolati, per segnalarli, film realizzati in diversi continenti nell'arco degli ultimi dieci anni che affrontano alcuni dei fondamentali problemi aperti del mondo contemporaneo: la multiculturalità e il razzismo, i temi del lavoro e del suo ruolo sociale, la violenza delle istituzioni, la corruzione e il degrado sociale. Un discorso a parte merita poi il tema delle sfide ‒ tanto sul piano dell'etica individuale che collettiva ‒ portate dagli sviluppi scientifici e tecnologici. Una riflessione profonda, tra intimismo e respiro epico ‒ stimolata dall'onda emotiva suscitata dai massicci sbarchi di profughi albanesi sulle coste pugliesi nell'estate del 1991 ‒ sulla memoria 'coloniale', sul mito della 'terra promessa' (l'Italia per gli albanesi così come l'America era stata per gli italiani) e sulla fragilità dell'identità nazionale è certamente Lamerica (1994) di Gianni Amelio. Un atto d'accusa tagliente, anche sul piano dello stile, contro il traffico di lavoratori clandestini nel civile Belgio è La promesse (1996) dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne. La violenza e l'intolleranza per motivi etnici e razziali e i genocidi di massa sono al centro anche di opere dure e vibranti come Bure baruta (1998; La polveriera) di Goran Paskaljević e Günese yolçuluk (1999; Viaggio verso il sole) della giovane regista turca Yesim Ustaoǧlu, sulla drammatica sorte del popolo curdo.Diverse opere in questi ultimi anni hanno analizzato come i paradigmi della complessità e della flessibilità abbiano trasformato il mondo del lavoro, sostituendo alla realtà marxiana dell'alienazione collettiva nuove forme di isolamento individuale e acuendo i conflitti familiari e generazionali. Se la scuola inglese di Ken Loach (da Riff-raff, 1991, Riff-raff ‒ Meglio perderli che trovarli a Raining stones, 1993, Piovono pietre, sino al più recente Sweet sixteen, 2002) e di Mike Leigh (Naked, 1993) ha fatto da apripista, altri autori europei, dal Laurent Cantet di Resources humaines (1999; Risorse umane) al giovane spagnolo Fernando León de Aranoa di Los lunes al sol (2002; I lunedì al sole) a Francesc Comencini regista di Mi piace lavorare (2004) hanno mostrato coraggio e lucidità nell'affrontare temi complessi e molto rischiosi sul piano narrativo come quello delle nuove condizioni lavorative, della vita in fabbrica, della disoccupazione e del mobbing. Anche dal rivitalizzato cinema argentino sono giunte opere di giovani autori che indagano con uno sguardo attento e nuovo sul degrado delle condizioni umane e lavorative e sulla crescente sperequazione economica, da Mundo Grúa (1999) di Pablo Trapero a La ciénaga (2001) di Lucrecia Martel.
Si può dire infine che il cinema abbia segnato momenti altissimi della sua storia proprio in quanto c. p., forma espressiva che ha saputo meglio di altri media riprodurre criticamente la realtà e interpretare i fenomeni storici e sociali attraverso il documento, ma ancor più grazie all'invenzione poetica, svelando le pulsioni e i meccanismi più segreti dell'oppressione da parte del potere e denunciando le violazioni dei diritti umani fondamentali, tanto civili e politici che sociali ed economici.
M. Estève, Le pouvoir en question, Paris 1984.
G. Fofi, M. Morandini, G. Volpi, Storia del cinema, Milano 1988, pp. 361-88.
Utopia e cinema, a cura di A. Martini, Venezia 1994.
S. Di Giorgi, Fantasmi della libertà. Il cinema d'autore tra censura ed esilio, Torino 1995.
Il cinema europeo del métissage, a cura di G. Spagnoletti, Pesaro 2000.
M. Challouf, G. Gariazzo, A. Speciale, Un posto sulla terra. Cinema per (r)esistere, Milano 2002.