Palestinese, cinema
Dopo i primi cortometraggi realizzati in maniera pionieristica tra il 1935 e l'inizio degli anni Quaranta dall'operatore Ibrahim Hasan Sarhan ‒ fondatore peraltro della prima casa di produzione palestinese ‒, la storia del c. p. è stata di fatto per molto tempo paralizzata dagli sconvolgimenti storico-politici successivi alla creazione dello Stato di Israele (maggio 1948) e dal conseguente endemico conflitto politico, militare e sociale tra i due popoli. Dopo quella data, si registra infatti la totale assenza del cinema ‒ quindi di una memoria e di un immaginario filmico ‒ palestinese. Solo nel gennaio del 1968 (dopo la sconfitta del fronte arabo nella Guerra dei sei giorni, con la creazione dei Territori occupati) venne costituita ad Amman (Giordania) una 'Unità del cinema palestinese', sotto l'egida di al-Fatah e la guida dei cineasti Hani Jawhariyya (che sarebbe morto in Libano nel 1976 mentre filmava uno scontro armato), Mustafa Abu Ali e Sulafa Jadallah, destinata a fiancheggiare le attività militari dell'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Per molti anni le realizzazioni cinematografiche ‒ frutto spesso di un lavoro collettivo ‒ hanno riflesso un'idea di cinema militante e propagandistico, con una produzione articolata in registrazioni filmate, sul modello dei cinegiornali, collage di materiali d'archivio e documentari veri e propri. Scevro da preoccupazioni formali, questo cinema ha avuto per obiettivo quello di testimoniare le lotte sociali e militari contro Israele e di preservare la memoria della 'diaspora' palestinese. A questa produzione cinematografica di natura esclusivamente documentaria ‒ che scontava la mancanza di strutture e competenze tecniche oltre che di mezzi finanziari ‒ si sarebbero peraltro idealmente affiancate opere di finzione o di docufiction realizzate da affermati registi del mondo arabo, che portavano così alla ribalta internazionale la questione palestinese: tra gli esempi più acclamati vanno ricordati al-Mah̠du῾ūn (1972; Gli ingannati), produzione siriana del regista egiziano Tawfik Saleh, ispirata a un celebre romanzo di Ġassān Kanafānī, e Qafr Qāsim (1974), produzione siro-libanese del regista libanese Bohrane Alaouié, che rie-voca il massacro di un villaggio palestinese a opera dei soldati israeliani nel 1956.
Bisognava attendere l'inizio degli anni Ottanta per vedere infine emergere quello che sarebbe stato poi definito il 'nuovo cinema palestinese'. Un cinema per lo più ideato e finanziato in Europa, a opera di giovani cineasti di origine palestinese ormai da tempo in esilio, tuttavia da questi realizzato ‒ quasi sempre in condizioni di clandestinità oppure di libertà vigilata, e ricorrendo molto spesso, essenzialmente per ragioni economiche, al più agile supporto del video ‒ nei set reali della madrepatria: i suoi scenari privilegiati sono infatti i campi profughi dei Territori occupati, o del Libano del Sud, ma anche le città oggi israeliane, con una forte componente di origine araba, come Nazareth o Haifa.
Caposcuola unanimemente riconosciuto del nuovo corso, Michel Khleifi era emigrato appena ventenne a Bruxelles ‒ dove si diplomò all'INSAS (Institut National Supérieur des Arts du Spectacle et Techniques de Diffusion) ‒ nel 1977. Dopo alcuni reportage per la televisione belga, Khleifi, tornato in Palestina, ha realizzato al-Ḏākira al-h̠iṣba (1980, La memoria fertile), il primo lungometraggio documentario palestinese, che intreccia i ritratti di due donne palestinesi ‒ una vedova cinquantenne costretta a fare l'operaia per mantenere i figli, e una giovane scrittrice divorziata ‒ che incarnano il conflitto tra tradizione e modernità all'interno della cultura palestinese, ponendo così in maniera esplicita al centro della riflessione la difficile condizione sociale della donna nel mondo arabo. Il cinema di Khleifi rivela subito un'evidente modernità espressiva che si riverbera anche nella continua tensione tra documento e fiction (una cifra stilistica e narrativa che da allora connoterà gran parte del nuovo cinema palestinese), ma anche una libertà e una spregiudicatezza culturali e ideologiche del tutto inedite nel trattare i problemi sociali e della vita quotidiana. In questo senso appare illuminante il successivo percorso del regista e in particolare ῾Urs al-Ǧalīl (1987; Nozze in Galilea), primo lungometraggio di fiction palestinese che ha raccolto numerosi premi nei festival e ha consacrato il suo autore a livello internazionale. Nel raccontare una cerimonia di nozze in un piccolo villaggio dei Territori occupati dove vige la legge marziale e il coprifuoco, Khleifi si sofferma sui rapporti di dominio e sottomissione tra palestinesi e israeliani ma al tempo stesso su quelli esistenti all'interno della società, tra uomini e donne, adulti e ragazzi, tra il marito e la sposa. Attraverso una grande mobilità della macchina da presa, il film restituisce la molteplicità degli sguardi dei diversi personaggi, svelandone, nel passaggio dal giorno alla notte, la loro vera essenza e usando la sensualità delle immagini e la nudità dei corpi maschili e femminili in modo scopertamente provocatorio rispetto ai canoni estetici e ai tabù ideologici e religiosi del cinema arabo. Dopo aver rievocato la stagione della prima intifāḍa ('rivolta delle pietre' scoppiata nel dicembre del 1987) in Našīd al-ḥaǧar (1990, Cantico delle pietre) e girato un film in Europa, L'ordre du jour (1993), che attraverso le vicende di un grigio burocrate richiama in chiave metaforica la tematica dell'esilio, Khleifi ha raggiunto esiti di alta espressività con Conte des trois diamants (1994), ancora una volta ambientato sul set palestinese, a Gaza. Seguendo la storia d'amore tra due adolescenti che nel loro vagabondare amoroso sfidano le dure regole del coprifuoco e scoprono la violenza e il sangue della guerra, Khleifi racconta una fiaba antica trasportata nel presente, mescolando sapientemente la denuncia politica e la lucida analisi delle contraddizioni sociali all'interno della società palestinese con la dimensione surreale e favolistica propria della millenaria tradizione araba. I contrasti culturali che caretterizzano il 'puzzle identitario' della regionesarebbero stati poi al centro dell'interessante documentario Forbidden marriages in the Holy Land (1995), che tra Israele e i Territori palestinesi segue gli amori di otto coppie di etnie e religioni diverse.Sempre a Gaza, sin dalla seconda metà degli anni Ottanta, aveva compiuto il suo apprendistato tecnico Ra-shid Masharawi. Dopo aver diretto alcuni cortometraggi documentari molto apprezzati nei festival internazionali, Masharawi ha realizzato nel 1993 il suo primo, pluripremiato, lungometraggio di fiction Ḥattā iš῾ār Āh̠ar, noto anche come Curfew, una coproduzione tra la casa palestinese Aylūl (fondata dallo stesso Masharawi) e l'olandese Argus, che racconta con intenso realismo l'interminabile giornata di una famiglia di Gaza segregata in casa per un coprifuoco di ventiquattro ore ordinato dall'esercito israeliano. Il contrasto tra la forza fisica e morale delle donne della famiglia e l'immobilismo rassegnato del padre e del fratello maggiore costretti alla disoccupazione dal conflitto e dal coprifuoco torna anche nel successivo Ḥayfā (1995), che mette in scena le fragili speranze del popolo palestinese nei confronti del processo di pace attraverso una galleria di personaggi scopertamente simbolici che incarnano la memoria e la coscienza del popolo, a cominciare dal protagonista Ḥayfā, una sorta di scemo del villaggio depositario della verità (interpretato dal celebre attore e regista palestinese Mohammad Bakri), e dalla vecchia zia. Decidendo di vivere e lavorare a Ramallah (il centro più importante dei territori dell'Autorità palestinese), Masharawi si è distinto anche per la sua attività di produzione e di formazione tecnica attraverso il Cinema Production Center da lui creato, realizzando diversi cortometraggi, come Rabab (1997), prima opera interamente prodotta con capitali e tecnici palestinesi, e l'originale opera video priva di dialoghi Tension (1998).
I primi anni Novanta hanno visto affermarsi, a seguito di ben altri percorsi personali e artistici, il talento visionario e iconoclasta e la verve ideologicamente provocatoria (anche rispetto alla stessa nozione di identità palestinese) di Elia Suleiman, partito giovanissimo alla volta di New York dove, introdotto nell'ambiente cinematografico dallo scrittore John Berger, ha potuto assimilare il cinema d'autore europeo (in particolare di Michelangelo Antonioni, Jean-Luc Godard, Wim Wenders e Aleksandr N. Sokurov) e americano (John Cassavetes). Già distintosi, dopo alcuni lavori in video, con Takrīm bi῾l-qatl (Omaggio dall'assassino), episodio del film collettivo Ḥarb al-H̠alīǧ wa ba῾d, (1991; La guerra del Golfo… e dopo!), e amara riflessione sul senso di profondo isolamento dei cittadini arabi all'estero, Suleiman ha spiazzato tutti, dentro e fuori il mondo arabo, con il suo primo lungometraggio di fiction Waqā᾽i῾ ih̠tifā᾽ (1996, Cronaca di una sparizione), presentato nella sezione Finestra sulle immagini della Mostra del cinema di Venezia. Il ritorno del regista (anche attore protagonista, come nei suoi altri film) a Nazareth, l'incontro con la sua famiglia e con i suoi amici, la fragilità delle speranze legate al processo di pace nato dagli Accordi di Oslo del 1993, sono descritti con ironico e surreale distacco e con un linguaggio modernissimo sul piano estetico e narrativo (nella seconda parte del film il set si sposta bruscamente a Gerusalemme, e Suleiman non risparmia i suoi strali ironici verso i metodi oppressivi della polizia israeliana).
L'interruzione del processo di pace, lo scoppio della seconda intifāḍa nel settembre del 2000, la recrudescenza degli attentati terroristici, la progressiva rioccupazione dei Territori autonomi da parte dell'esercito israeliano hanno determinato l'avvitamento della spirale di violenza nella regione. Il c. p. è diventato sempre più testimone del tempo mentre si è affermata una nuova leva di filmmakers, le cui opere sono state presentate nei circuiti internazionali e poi nell'importante vetrina dedicata nel 2002 agli ultimi dieci anni di c. p. dall'Institut du monde arabe di Parigi, nell'ambito della sesta edizione della Biennale des cinémas arabes. Vanno fra gli altri ricordati: il lungometraggio di fiction Darb al-Tabbānat (1997, La via lattea) di Ali Nassar, i documentari Mythologie (1999) di Nizar Hassan, La lumière à bout du tunnel (2001) e Ali et son amis (2001), entrambi realizzati da Sobhi al-Zubeidi. Tanto Masharawi che Suleiman, affiancati da altri giovani autori, hanno sviluppato un'intensa attività filmografica, alternando il video (anche digitale) alla pellicola. La guerra e la violenza quotidiana hanno ispirato l'emozionante En direct de Palestine (2001) di Masharawi, che descrive dall'interno l'attività della storica emittente radiofonica dell'Autorità palestinese (prima che venisse smantellata dall'esercito di Israele). Nel 2002 Ma-sharawi ha diretto un nuovo lungometraggio di finzione, Ticket to Jerusalem, dove, nelle vicende del protagonista Jaber (cinefilo e organizzatore di proiezioni nelle scuole e nei villaggi dei campi profughi) che rischia la vita sfidando i posti di blocco dell'esercito (ripresi dal vivo), il cinema stesso connette, non senza risvolti di paradossale umorismo, vicende private e tragedie collettive e finisce per rappresentare l'unico credibile messaggero del sogno sempre più irrealistico della pace. Con più amaro ‒ e a tratti persino cinico ‒ disincanto, Suleiman ha continuato a mettere a nudo le ipocrisie e le false speranze del suo popolo circa il processo di pace (Le rêve arabe, 1998) e a rileggere criticamente, con lo sguardo rivolto al presente, la mitologia religiosa, come nel video in digitale Cyber Palestine (2000), dove trasfigura in chiave contemporanea la storia di Giuseppe e Maria, sino all'ultimo exploit del suo secondo lungometraggio di finzione, Yadon ilaheyya, noto anche come Intervention divine (2002; Intervento divino, prodotto in Francia), che a sorpresa ha vinto il premio della giuria al Festival di Cannes. Sullo sfondo della Nazareth odierna, dove la vita quotidiana è ormai in preda a una grottesca follia, Suleiman mescola la cifra di un umorismo dolente e fuori dal tempo, erede della lezione di Buster Keaton e Jacques Tati, alla cronaca politica, affidando alla donna ‒ al corpo sinuoso della protagonista (Manal Khader) o all'icona di una ninja palestinese che stermina i soldati israeliani in una sequenza di grande impatto ‒ il compito di sovvertire l'ordine costituito.Dal canto suo, il caposcuola Khleifi, pur non essendo riuscito a portare a termine alcun nuovo progetto di fiction cinematografica, ha firmato nel 2003, insieme al regista Eyal Sivan, Route 181, fragments d'un voyage en Palestine-Israël, un lungo e illuminante road movie documentario che si snoda lungo la strada che rappresenta il confine virtuale tracciato nel 1948 tra i due Paesi.Già agli inizi degli anni Ottanta aveva avviato la sua prolifica carriera di cineasta e videomaker (in gran parte condivisa anche sul piano artistico con il marito, il regista libanese Jean Khalil Chamoun) Mai Masri. Dopo aver studiato cinema negli Stati Uniti ed essersi trasferita a Beirut, la Masri ha realizzato nel 1983 Tah̠t al-anqād (Sotto le rovine), testimonianza diretta dei terribili giorni dell'assedio israeliano di Beirut, seguito da numerosi documentari sulla memoria della guerra civile e della condizione dei campi profughi palestinesi in Libano, con un'attenzione particolare alla condizione dei bambini e degli adolescenti (Wild flowers: women of South Lebanon, 1986, coregia di Jean Khalil Chamoun; Children of fire, 1990; e Aḥlām mu῾allaqa, 1992, Sogni sospesi). La Masri rappresenta in effetti l'antesignana di un processo al tempo stesso sociale e artistico che ha visto sempre più le donne palestinesi protagoniste non solo sullo schermo ma anche dietro la macchina da presa o la videocamera. Il fenomeno, destinato a prendere corpo negli anni Novanta (del 1994 è l'intenso ritratto documentario sulla condizione femminile L'espoir voilée, di Norma Marcos, nata a Betlemme e residente a Parigi), è esploso sin dall'inizio della seconda intifāḍa. Queste autrici, spesso molto giovani e che per il cinema hanno abbandonato in vari casi gli studi o altre professioni, si dedicano in massima parte al video documentario, attraverso un lavoro paziente e coraggioso di testimonianza ‒ della memoria e della vita quotidiana ‒ che sfida l'immagine stereotipata del popolo palestinese e della vita nei Territori imposta dai network televisivi mondiali. Tra le registe che hanno raggiunto esiti di maggior rilievo, anche sul piano stilistico, vanno citate Azza al-Hassan con News time (2001), Nada El-Yassir con Quatre chants pour la Palestine (2001), Najwa Najjar con Quintessence de l'oubli (2001), Liana Badr con L'oiseau vert (2002; la Badr è peraltro una nota scrittrice e intellettuale, da diversi anni responsabile del Dipartimento cinema e audiovisivi del Ministero della cultura dell'Autorità palestinese), Alia Arasoughly con Hay miš eyšī (2001, Questo non è vivere). La stessa Masri ha in questi anni portato a termine la sua intensa trilogia (iniziata con Children of fire), dedicata ai ragazzi palestinesi dei campi profughi del Libano meridionale, realizzando nel 1998 Aṭfāl Šatīla (Bambini di Shatila) e nel 2001 Aḥlām al-manfā (Frontiere di sogni e paure).
Negli ultimi due decenni, gli autori e le autrici del nuovo cinema palestinese hanno così dato voce ‒ attraverso i grandi festival internazionali e le rassegne organizzate in varie parti del mondo ‒ alle istanze di un intero popolo nei confronti della comunità internazionale.
Il cinema dei paesi arabi, a cura di A. Morini, E. Rashid, A. Di Martino, A. Aprà, Venezia 1993, pp. 165-68.
K. Khayati, Cinémas arabes: topographie d'une image éclatée, Paris 1996.
S. Di Giorgi, J. Rundo, Una terra promessa dal cinema: appunti sul nuovo cinema palestinese, Palermo-Bologna 1998.
M. Krifa, Nous voulons vivre!, in Gros plan sur le cinéma palestinien. 1993-2002, 6e Biennale des cinémas arabes, Paris 2002 (catalogo della rassegna).