Cina e India. Lo sviluppo economico
Deng Xiaoping, allora segretario generale del Partito comunista, prese la storica decisione di avviare la Cina sulla strada del capitalismo nel 1979. Da allora la nazione più popolosa del pianeta ha inanellato una serie di record eccezionali, con una crescita media del 10% annuo. Un’impresa senza precedenti nella storia dell’umanità, che ha sollevato dalla miseria almeno 300 milioni di persone. Ogni anno in media 15 milioni di contadini hanno abbandonato le campagne, fuggendo da un’agricoltura troppo povera per mantenerli. Dopo lo choc politico rappresentato dal movimento di piazza Tienanmen nel 1989, il regime decise che non avrebbe mai più dovuto trovarsi in conflitto con i ceti più avanzati del Paese: l’élite istruita delle grandi città. La lezione è stata applicata. Quel Partito comunista cinese che ancora nel 1989 era un partito prevalentemente operaio e contadino è diventato una formazione di colletti bianchi, dove il gruppo sociale più rappresentato è proprio la gioventù studentesca. Quella cooptazione è stata consentita dal formidabile sviluppo economico. Nel ventennio successivo al 1989 il regime ha potuto offrire a masse di giovani istruiti delle concrete prospettive di successo materiale, aspettative crescenti di prestigio e di status. Ne ha fatto i suoi alleati perché ha concesso libertà economiche e anche personali: proprietà privata, liberalizzazione dei costumi di vita, rivoluzione sessuale, possibilità di viaggiare all’estero. Le nuove generazioni hanno avuto un tale miglioramento nella qualità di vita da diventare una robusta constituency del regime. Hanno rinunciato per la maggior parte ad avanzare rivendicazioni sui diritti civili, la libertà di espressione e le riforme politiche.
Wang descrive l’attuale fase di rafforzamento della Cina come la «quarta ascesa» in 2000 anni di storia, dopo l’unificazione imperiale (sec. 2° a.C.); il consolidamento avvenuto nel 7° e nell’8° sec. d.C. in risposta alla minaccia di invasioni dall’Asia Centrale; infine l’espansione iniziata nel 14° sec. e culminata 400 anni dopo sotto la dinastia mancese dei Qing. Ma la «quarta ascesa», quella attuale, è la prima che proietta l’influenza cinese sul mondo intero. Questo avviene grazie al motore dell’economia: come tale è una novità assoluta nella storia della Terra di mezzo, le cui fortune imperiali nel passato erano legate all’efficienza della sua amministrazione statale e della sua élite burocratica (i mandarini), e solo in subordine al ruolo degli imprenditori e dei mercanti. Secondo Wang, Pechino pianifica il suo futuro con una certezza: «La globalizzazione non è una fase temporanea; non è un fenomeno reversibile». Capaci di proiettare lo sguardo sul lungo periodo, i governanti cinesi «aspirano ad assumere una leadership globale e vedono nella crisi economica un’opportunità perché nel resto del mondo è diminuita la fiducia verso l’Occidente, le sue istituzioni e le sue strategie». Il ribaltamento di prospettiva è profondo. Fino all’inizio del terzo millennio eravamo noi europei e gli americani a mettere sotto pressione i cinesi, metaforicamente, perché passassero degli esami. L’Occidente si attendeva dalla Cina ulteriori progressi nell’uniformarsi alle regole che considerava le più adatte per garantire il futuro della globalizzazione. Ora la Cina ha acquistato una nuova coscienza di sé, e rimette in discussione la validità delle pretese occidentali. La profondità della crisi economica ha scardinato la credibilità dell’Occidente come portatore di soluzioni per lo sviluppo mondiale. D’ora in avanti Pechino avrà più peso nel dettare ritmi, condizioni, caratteristiche della prossima fase della globalizzazione. Userà l’economia come un mezzo subordinato a inseguire un fine più grande e prioritario: affermare una Cina potente, circondata dal rispetto, influente sulle vicende mondiali. Di questo nuovo atteggiamento della Repubblica popolare si sono avuti segnali convergenti, dall’alto e dal basso. La propaganda patriottica dei giochi olimpici. Il muso duro con cui Pechino ribatteva alle critiche di Washington sui diritti umani, pubblicando le sue «contro-accuse» sugli abusi della pena di morte in America.
A quei comportamenti dei vertici ha risposto una popolazione cinese talora più nazionalista dei suoi leader, in particolare nelle frange più «occidentalizzate», le fasce cosmopolite del giovane ceto medio urbano. È in questo clima che i massimi dirigenti cinesi abbandonano sempre più spesso la tradizionale prudenza che li aveva contraddistinti per decenni, nelle apparenze esteriori e nel linguaggio. Il profilo basso non è più all’ordine del giorno. Un esempio eclatante risale al marzo 2009. È allora che il governatore della Banca centrale di Pechino dice chiaro e forte quel che molti cinesi pensano ma non osavano esprimere così apertamente. La Cina – dichiara il suo banchiere centrale – regge meglio dell’Occidente lo choc della crisi economica, e ne uscirà prima di America ed Europa, «perché il suo sistema politico è più efficace». La visione cinese del futuro è condivisa da altri asiatici, anche di origini e convinzioni ideologiche differenti. Kishore Mahbubani è etnicamente malese e cittadino di Singapore. Dopo una carriera da diplomatico in tutto il mondo è diventato il rettore della Lee Kuan Yew school of public policy, prestigiosa università di Singapore. È uno degli intellettuali più noti in Oriente e la sua diagnosi sugli effetti di questa recessione è largamente condivisa in quella parte del mondo: «Sarà la vittoria del modello asiatico di capitalismo». Mahbubani conosce bene le immense distanze che separano i vari modelli asiatici tra loro, a cominciare dal solco tra i sistemi politici di Cina e India. Tuttavia sottolinea un tratto comune: in ambedue le grandi nazioni, il ruolo dello Stato nell’assicurare la stabilità dell’economia è superiore rispetto all’America. Inoltre le classi dirigenti locali hanno ricevuto una dura lezione dalla crisi asiatica del 1997, e non l’hanno scordata. Molti Stati asiatici hanno imparato ad accumulare riserve valutarie per proteggersi contro le fughe di capitali, e le loro finanze pubbliche sono diventate più solide. Una conseguenza di questa prosperità è la promessa che la Repubblica popolare stimolerà la sua domanda interna, comprese le spese di consumo. Ma non basta un annuncio ufficiale del governo per cambiare i comportamenti quotidiani delle famiglie. Le quali continuano a mettere da parte una quota altissima dei loro redditi, all’incirca un terzo. Come si spiega tanta parsimonia, da parte di un popolo che ha appena iniziato ad assaggiare le delizie del consumismo come l’auto privata e gli elettrodomestici, le vacanze all’estero e i corsi di lingue per i figli? Le ragioni per cui una famiglia cinese (anche del ceto medio) continua a risparmiare tanto sono le seguenti. Primo: prepararsi una vecchiaia serena, tenendo conto che le pensioni cinesi sono modeste. Secondo: premunirsi contro la malattia, sapendo che l’assistenza sanitaria gratuita è scadente e le cure di qualità sono care. Terzo: pensare all’avvenire dei figli, in un Paese dove le università di élite costano. Questa prudenza è rafforzata da un dato demografico. Da quando il controllo delle nascite ha limitato le coppie cinesi a un solo figlio, non si può più contare sui giovani per assistere i genitori e i nonni. Per orientare la Cina a consumare di più bisogna agire sulle cause: migliorare la previdenza e l’assistenza sanitaria per dare più sicurezza. Forse si dovrà anche rivedere la politica del controllo delle nascite. E tra i consumi del futuro bisognerà privilegiare, ancor più dei beni cosiddetti durevoli come l’automobile, i beni «durevolissimi» come l’istruzione. Aumentare il peso dei consumi privati; alzare la quota dei servizi sul PIL nazionale: è un’evoluzione che ha richiesto molti decenni nei Paesi occidentali, e che la Cina dovrebbe fare in corsa, sotto la richiesta di un Occidente che spera di trovare nei mercati asiatici la nuova locomotiva dello sviluppo globale. La riconversione dell’economia cinese si scontra con un ostacolo di natura politica. Aumentare i consumi dando più sicurezza alla popolazione, costruire una rete di protezione sociale, organizzare un welfare State che garantisca pensioni e sanità a tutti sono grandi riforme che hanno un costo non solo finanziario. Queste sfide hanno un significato politico preciso: richiedono che al centro delle priorità nazionali venga messo l’interesse dei cittadini. È un gesto di restituzione della sovranità al popolo quello che obbliga le amministrazioni locali a fornire servizi pubblici di qualità, obbliga i manager degli ospedali a dare una buona assistenza sanitaria a tutti, impone alle autorità scolastiche di garantire un’istruzione valida anche nelle regioni povere. Questa trasformazione non è indolore per chi comanda. La «nomenklatura» cinese viene selezionata non da libere elezioni bensì attraverso la cooptazione dall’alto, quindi è abituata a rendere conto ai suoi superiori, non ai cittadini. È però questa la direzione di marcia che la Repubblica popolare può essere costretta a imboccare, se le circostanze la costringono a cambiamenti strutturali nel suo modello di sviluppo. Che il cambiamento strategico sia possibile, sia pure in modo graduale, sembrano confermarlo due novità della primavera 2010: la flessibilità nella politica del cambio, e la tolleranza verso le lotte operaie in alcune grandi fabbriche. Il 19 giugno 2010 la Banca centrale cinese ha dato un via libera alla rivalutazione del renminbi (o yuan), la moneta della Repubblica Popolare. Il rafforzamento del renminbi ha tra i suoi effetti un rincaro dei prodotti made in China.
Rendendo meno costosi i prodotti stranieri, ci si attende che favorisca le esportazioni occidentali nel Paese più popoloso del mondo. Le forze di mercato, se lasciate libere di stabilire il valore del renminbi, spingerebbero verso una forte rivalutazione visto che la Cina con il suo forte attivo commerciale attira un flusso netto di capitali dal resto del mondo. Le sue riserve ufficiali in valuta estera hanno superato i 2.200 miliardi di dollari. L’altra novità importante riguarda l’ondata di lotte operaie che hanno investito le zone più industrializzate della Cina. I casi più noti riguardano gli stabilimenti della Honda, della Toyota, nonché i subfornitori di Apple. La reazione del governo cinese è diversa rispetto ad analoghe stagioni di conflittualità nel passato. Più della repressione nel 2010 si è notato un atteggiamento accomodante verso certe rivendicazioni salariali, e una discreta pressione sull’industria perché accontenti almeno in parte quelle richieste. Se a questo si unisce il rafforzamento della moneta, la strategia di Pechino è evidente: la Cina non vuole rimanere per sempre la «fabbrica del pianeta» a buon mercato. Spinge il proprio capitalismo a riorganizzarsi e spostarsi verso vocazioni qualificate. Può aprirsi un nuovo capitolo nello sviluppo del colosso asiatico, e una sfida di tipo diverso per l’Occidente.
L’occasione è storica. La Cina si trova in una posizione simile a quella dell’America all’inizio del Novecento, della quale ha i tre caratteri distintivi: è la potenza in ascesa, è la grande esportatrice ed è il banchiere delle altre nazioni. L’America di cent’anni fa seppe fare il salto, da fabbrica del pianeta a superpotenza regina nell’innovazione e nelle tecnologie avanzate. È un progetto che Pechino elabora da anni. La crisi lo rende attuale e ne precipita i tempi.
Nella crisi del 2008-2009 l’India ha scoperto di avere una risorsa insospettabile: i suoi poveri. Non quella fascia di miseria estrema dove ancora soffrono 200 milioni di persone, ma quel mezzo miliardo di indiani che sta subito sopra, cioè l’immenso popolo delle campagne che negli ultimi anni ha avuto accesso a un modestissimo benessere. È quel mercato vasto e frugale che aiuta l’India, isolandola dai contraccolpi più brutali della crisi internazionale. La loro domanda di consumi, i più semplici ed elementari, ha trainato la seconda nazione più popolosa del mondo verso una crescita economica tutt’altro che disprezzabile (+7%) anche nell’«orribile» 2009. Cade così un luogo comune che era diffuso prima della recessione mondiale: l’idea che l’India fosse penalizzata dalla sua insufficiente capacità di invadere i mercati stranieri con le esportazioni. A parte rare eccezioni come il software, l’assistenza informatica e i call center, il resto del made in India non è stato protagonista di avanzate spettacolari: nulla di paragonabile alla penetrazione mondiale dei prodotti cinesi. Ma quella che sembrava una debolezza, si è trasformata in un fattore di stabilità. La caduta del commercio globale ha avuto un impatto limitato sull’India. Che invece scopre il vantaggio di avere una sterminata riserva di bisogni interni da soddisfare. Nel 2008 i settori che hanno sofferto di più sono stati il mercato immobiliare, i viaggi aerei, i ristoranti, e le vendite di auto di media cilindrata: cioè i consumi tipici del ceto urbano medio-alto. L’industria che ha licenziato è quella dell’informatica, nelle Silicon Valley di Bangalore e Hyderabad. Per quanto strategicamente importante, questo settore avanzato occupa a stento l’1% della forza lavoro indiana. Alla base della piramide sociale, invece, c’è uno sterminato esercito di ex poveri che cominciano ad avere un potere d’acquisto spendibile per beni di primissima necessità: sapone, medicine, vestiti, scarpe, qualche elettrodomestico, il primo telefono, lo scooter. Tra il 2005 e il 2010 l’India agricola ha superato l’India urbana per il numero di famiglie al di sopra di 2000 dollari di reddito annuo: è la soglia oltre la quale in questo Paese si diventa «consumatori di qualcosa», con un minimo potere d’acquisto oltre la pura sopravvivenza. «Questa parte della società» spiega l’economista Saumitra Chaudhuri «è quasi immune dagli choc della crisi internazionale». Non hanno risparmi investiti né alla Borsa di Mumbai né nella bolla immobiliare; e il loro reddito dipende raramente dalle esportazioni. «Una popolazione così vasta che parte da un livello così modesto» dice il sociologo Subir Gokarn «è una locomotiva di crescita formidabile, appena riesce ad aumentare di poco i suoi consumi». Anche la democrazia indiana si sta rivelando meno difettosa di quel che si credeva. Negli ultimi vent’anni è stata spesso paragonata al decisionismo autoritario cinese, e quest’ultimo sembrava vincente almeno nel campo economico. La modernizzazione delle infrastrutture cinesi è stata fantastica. Ma anche l’India fa dei progressi. Nonostante la corruzione, l’inefficienza burocratica e tutti i rallentamenti dovuti alla conflittualità tipica di una democrazia, l’India sta costruendo in media 100 chilometri al giorno fra nuove superstrade e autostrade. Tanti villaggi che un tempo erano isolati dal mondo, ora entrano in comunicazione fra loro, migliorando le opportunità economiche degli abitanti. Il numero di abbonati al telefono ha raggiunto i 350 milioni, e il mercato delle telecom cresce più velocemente di quello cinese. L’elefante indiano era stato a lungo criticato perché non correva abbastanza. Nella crisi ha sfoderato un tratto tipico dei pachidermi: la solidità.
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