Cimabue
. Fonte di riferimento dantesco a C. è la terzina di Pg XI 94-96. C'è da considerare anzitutto la cronologia del canto, perché il verbo al passato remoto (Credette Cimabue, v. 94) parrebbe indicare un momento culturale in cui il grande fenomeno artistico di C. si è comunque concluso nell'area comunale toscana, e non indipendentemente dal grado cui è pervenuta la fama giottesca quando D. compone il canto XI. Prescindendo dal problema cronologico di questo singolo canto, difficilmente ipotizzabile, e assumendo il 1315 come terminus ante quem per l'ultimazione della intera cantica, si spiega allora con una certa evidenza come D., scrivendo anche in ambiente veneto, fra il 1310 e il 1315 dovesse raccogliere da presso la fama del ciclo degli Scrovegni appena ultimato, e quindi potesse registrare allo stesso tempo, come un fatto conseguenziale, la conclusione del fenomeno artistico cimabuesco. È pur vero, peraltro, che le parole di Oderisi debbono essere in qualche modo riferite a una situazione in atto nella primavera del 1300. Ma a parte la correlazione di certe vicende della vita artistica toscana, raccolte lontano da Firenze, dai vv. 95-96 di Pg XI si può ricavare una partecipazione culturale solo indiretta del poeta alla storia della pittura contemporanea, e quasi un'impersonale registrazione di eventi dei quali egli non ha conoscenza diretta.
Per quanto concerne i vari ambienti ove ha lavorato C., essi coincidono talora con gl'itinerari delle peregrinazioni dantesche; ma è evidente che una coincidenza topografica non basta a confermare rapporti d'interesse culturale; e comunque si devono anzitutto precisare, per quanto possibile, i dati cronologici di alcune fasi del percorso di Cimabue. La critica moderna, eccettuato l'Oertel che propende per un seguace della maniera giovanile di C., accetta ormai l'attribuzione a C. del Crocifisso di S. Domenico ad Arezzo, indicata dal Toesca. Se ne allontana però per la datazione: è opinione concorde che il Crocifisso aretino sia, con la limitata partecipazione ai mosaici della cupola del Battistero fiorentino, uno dei più antichi lavori di Cimabue.
È il 1272 la prima data documentabile relativa a C.: l'artista fu chiamato con alcuni domenicani per testimoniare a Roma in una controversia suscitata dall'ordine religioso femminile di s. Damiano in seno ai francescani, che in quell'occasione, appunto, venne assoggettato alla regola di s. Agostino, per eliminare così ogni motivo di scandalo. Questo documento, trovato dallo Strzygowski, potrebbe attestare un passaggio dell'attività di C. dalle commissioni per l'ordine domenicano ai francescani, in quanto potrebbe significare che a quella data il suo nome fosse stato già preso in considerazione dall'ordine francescano, per il quale lavorerà a lungo e in più città.
Anche riguardo ai lavori nella chiesa di S. Francesco ad Assisi la data è alquanto incerta. Si oscillava fra il 1280 e il 1290 circa. Questo era possibile perché gli stemmi Orsini dipinti nella vela dell'evangelista Marco comprendente una veduta di Roma, venivano riferiti al pontificato di Niccolò III (1277-1280), sulla scia dell'attribuzione dell'Aubert. Il Nicholson propendeva invece per una datazione più tarda ponendo l'inizio dei lavori sotto il pontificato del francescano Niccolò IV (1288-1292). Il Brandi, identificando uno degli edifici rappresentati nella vela dell'evangelista Marco con il Campidoglio, ne deduce che gli stemmi devono essere riferiti a un senatore Orsini in carica al momento in cui C. affrescava la chiesa francescana, quindi pensa al 1288, anno in cui furono in carica Matteo e Bartolo Orsini. Per il Battisti la datazione dei lavori in S. Francesco è da porre, addirittura con estrema sicurezza, dall'estate 1279, anno in cui viene eletto Matteo Rosso " come Cardinale protettore dell'ordine ", al 1284, poiché con assoluta sicurezza e senza alcuna spiegazione egli asserisce che la " partenza di Cimabue da Assisi avvenne prima del 1285 "; infatti proprio nel 1285 il Battisti vuol fare iniziare la lavorazione del Crocifisso di Santa Croce.
La Maestà di Santa Trinita - insieme al Crocifisso di Santa Croce, così danneggiato dall'alluvione del 1966 - è, fra le singole opere certamente autografe, quella che con maggiore probabilità, per ragioni devozionali, può essere stata conosciuta e osservata direttamente da D. a Firenze prima del 1300.
Del resto una valutazione meno imprecisa del significato culturale che D. poteva attribuire ai maggiori eventi della pittura contemporanea, richiede un esame più specifico, in senso comparativo, con il problema giottesco (v. GIOTTO). Ma intanto è indispensabile comunque osservare che C. doveva rappresentare per D., in pittura, il fenomeno artistico più saliente attuatosi negli anni della sua giovinezza a Firenze. Anche perché questa pittura devozionale veniva a essere l'ultima forma di una tradizione religiosa di immagini giunta alle soglie del nuovo secolo senza soluzione di continuità; e in quanto tale, come portavoce di un passato ormai irrevocabile della cultura artistica fiorentina, doveva incontrare il favore dello spirito invariabilmente conservatore del poeta.
Per quanto riguarda poi l'opera di C. nella basilica assisiate, nonostante manchino testimonianze dirette per una visita di D. ad Assisi, è comunque probabile l'ipotesi di una conoscenza topografica dell'ambiente francescano, e quindi anche della basilica (v. Assisi) che il poeta potrebbe avere ricavato in situ. È chiaro però che la conoscenza diretta che D. poté avere - o meno - del ciclo cimabuesco ad Assisi appare importante solo in quanto dovrebbe presupporre un interesse del poeta per certi dipinti come fatti culturali oltre che come immagini di devozione. Tale interesse si può riferire a D. in misura solo limitata e conforme alla norma per cui nel Medioevo la storia delle immagini trova raramente un apprezzamento estetico, oltre la propria funzione didascalica di senso iconografico.
In realtà anche il problema di C. interessa D. soprattutto come termine di paragone per un giudizio moralistico sulla fama terrena. Per questo scopo, venendo infine all'interpretazione specifica del significato che il poeta intese conferire al rapporto fra il successo degli artisti contemporanei, è necessario osservare che nei due confronti C.-Giotto, Guinizzelli-Cavalcanti, D. si serve, come portavoce, proprio di Oderisi, il quale ha già premesso che più ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese (Pg XI 82-83).
E quindi egli stesso introduce il discorso moralistico sulla durata effimera del successo, riferendo la propria esperienza di artista già ‛ superato '. Quindi ancora la svalutazione della fortuna di C. per effetto di Giotto, e di Guido Guinizzelli a causa di Guido Cavalcanti (Pg XI 94 ss.) viene posta, certo non casualmente, fra due passi che conferiscono ai vv. 94-98 un significato incontrovertibile; prima Di tal superbia qui si paga il fio / ... Oh vana gloria de l'umane posse! / com' poco verde in su la cima dura, / se non è giunta da l'etali grosse! (Pg XI 88, 91-93); poi Non è il mondan romore altro ch'un fiato / di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato (XI 100-102).
Il fatto che il duplice confronto artistico dei vv. 94-98 si trovi inquadrato fra due passi di eguale senso sulla caducità del mondan romore, ha un valore incontestabile nell'indicare che D. vedeva la fama contemporanea di Giotto come un fenomeno anch'esso effimero. Tanto più che l'ultimo esempio di caducità della fama, quello della gloria de la lingua, è concepito come un trinomio in quanto vi appare la velata allusione forse autobiografica: forse è nato / chi l'uno e l'altro caccerà del nido (XI 98-99).
Questa comparsa di un terzo elemento nel confronto letterario, posta da ultima dopo i precedenti binomi a proposito della miniatura e della pittura, ha certo un riferimento-chiave a entrambi; nell'indicare in forma indiretta come nella fortuna letteraria stia per intervenire un nuovo fattore di successo: egualmente probabile, dunque, per analogia, anche nelle altre tecniche artistiche. Le quali, rientrando pure nel ciclo della storia umana, con ciò vengono a essere equiparate, nella concezione dantesca, per valore di provvisorietà. E tale interpretazione del resto è confermata dalle parole con cui Oderisi conclude l'excursus sulla fama terrena (Pg XI 115 ss.).
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