cielo
. Termine dalle moltissime occorrenze, compare nell'opera dantesca 349 volte (e 2 nel Fiore). Più spesso è usato nel Convivio, ma anche nelle tre cantiche della Commedia, in Rime e in Vita Nuova; due volte nel De vulg. Eloq. (II V 5 e XI 7), nei due passi cioè in cui si cita l'esordio della canzone Amor, che movi (cfr. Rime XC 1). In apocope, frequentissima in poesia, compare in prosa solo in Cv II III 9 (divinissimo ciel quieto è l'Empireo).
Il significato più comune è " paradiso ", e in questo senso può essere inteso, variamente, come sede di Dio e delle corti angeliche, come luogo di beatitudine per le anime giuste, come luogo in cui vive Beatrice, e che D. percorre concludendo il suo viaggio ultraterreno. Tale coincidenza bene si può cogliere in Pd III 89 ove si afferma che ogne dove / in cielo è paradiso; dunque il c. indica lo spazio, il luogo, mentre paradiso indica la caratteristica del luogo. Lo Imperadore del cielo è Dio (Cv III XII 14), la famiglia del cielo sono gli angeli (Pg XV 29), la milizia del ciel i santi (Pd XVIII 124), la Madonna donna del ciel (Pg I 91, e cfr. anche Pg IX 88, Pd XXIII 106, XXXII 29); Beatrice vive in cielo con li angeli (Cv II II 1), ma anche in vita sembrava cosa venuta / da cielo in terra (Vn XXVI 6 8), e si poteva pensare che de lo ciel fosse soprana (Rime LXIX 12). In Pg V 54 lume del ciel vale " luce divina ", " luce della provvidenza ", e l'espressione mostra il passaggio per cui ‛ del cielo ' viene a significare semplicemente " divino ", finché il ‛ cielo ' si identifica con Iddio stesso; cfr. ad esempio Pd VI 26 e 55, XI 96, XV 6. Analogamente va interpretato il luogo di Pg XV 111, così commentato da Casini-Barbi: " Teneva gli cochi fissi al cielo, quasi porte ad accogliere in sé la visione di Dio ". L'espressione di Pg XX 69 ripinse al ciel Tommaso è un crudo ed efficace eufemismo per " fece uccidere Tommaso ", ma anche qui implicitamente il c. è il paradiso.
Altri esempi: Vn III 7, XIX 7 e 17, XXIII 25, XXVI 2, XXXI 9, XXXIII 8, XXXIV 7 e 11, Rime LXXXVII 4, CV 11, CVI 40, Cv II Voi che 'ntendendo 29, VII 6, III Amor che ne la mente 42, IV V 4, XXII 15, XXIII 3, If II 66 e 94, IV 78, VI 84, IX 91, XI 22 e 81, XV 59, XIX 11, XXI 83, XXVII 103, Pg I 6, 47 e 53, IV 135, V 105, VI 30, VII 8 e 24, X 36, XIII 69, XIV 11 e 148, XVII 17, XXIII 107, XXXII 75, Pd I 74, V 118, VII 48, IX 76, X 93, XI 11, XVI 6, XVII 115, XVIII 32 e 51, XIX 28, XX 65, XXI 91 e 102, XXII 7 e 8, XXIII 38, XXX 96, XXXI, 100, Fiore CXII 9.
Spesso anche al plurale ‛ cieli ' vale " paradiso ", come in Pg XI 1 (ove l'espressione è traduzione evangelica) e, ad esempio, in Vn XXXI 10, Pd XXI 118, o anche If III 40, VII 74, Pg III 29; così l'immagine di Cv II III 11 (Levata è la magnificenza tua [di Dio] sopra li cieli), traduzione di Ps. 8, 2, e di III XV 16 (Iddio apparecchiava li cieli), traduzione di Prov. 8, 27, dove i cieli indicano gli spazi ultraterreni; in altri luoghi il " mondo ", il " cosmo ", vengono invece indicati con espressioni come ‛ cielo e terra ': tutto lo mondo, dico lo cielo e la terra (Cv IV IX 2 e Pg XXIX 25, espressione comune, in questo senso, al linguaggio biblico: cfr. Gen. 1, 1 e luoghi paralleli) o il cielo e tutta la natura (Pd XXVIII 42; cfr. anche XXV 2), o semplicemente da c. al singolare, come in Cv III V 7 e Pd XXIV 131. In If IX 85 il ‛ messo del c. ' è più probabilmente un angelo che non Gesù in persona.
In Pg XXII 72 progenïe scende da ciel nova, che è traduzione del virgiliano " nova progenies caelo demittitur alto " (Buc.. IV 7), il sostantivo assume, nel contesto dell'interpretazione cristiana della profezia, un significato meno generico che non quello della fonte classica; la progenie che scende dal c. è, per D., Cristo, in quanto ‛ sceso dal c. ' sede di Dio, e solo con tale connotazione può essere inteso come " inviato celeste ", " messo dall'alto " (cfr. Pg XXX 10). Siamo così sulla soglia di quel gruppo di occorrenze in cui il sostantivo ha un significato assai ampio, spesso generico: una persona che guarda inver' lo cielo, ad esempio (Pd I 142) guarda, genericamente, " verso l'alto "; e così in Rime C 68 (piove / amore in terra da tutti li cieli) o in Pg XII 26 ove Lucifero è scagliato dal c., ossia dal Paradiso, ma anche, più semplicemente, dall'alto della volta celeste (e cfr. If XXXIV 121, in cui Satana piomba dalla volta del c. australe per ficcarsi al centro della Terra).
Altre occorrenze in cui il valore di c. non è pregnante: Vn VIII 6 12, XXIII 7 e 10, Cv II IX 2, If XXVI 36, XXXI 45, Pg II 34, IV 130, IX 20, XVIII 79, XIX 98, XXIV 89, XXVIII 101, XXXII 128, Pd VI 2, XXI 33, XVIII 62, XXIII 94, XXVI 68.
Al contrario, specifico è il valore del termine in espressioni come sommo cielo (Vn XIX 9 29), l'alto cielo (Vn XXXI 10 15)
o la corte del cielo (If II 125, Pd X 70), espressioni che indicano ‛ un cielo ' in particolare (in questo caso l'Empireo). Si passa dunque al gruppo di luoghi danteschi in cui il termine, sia che abbia una specificazione o sia invece usato assolutamente, equivale a una delle sfere della cosmologia aristotelico-scolastica. In Vn II 1, D. parla del c. in rapporto al girare delle sfere in base al quale può computarsi il tempo; in If II 78 il c. è quello della Luna (e cfr. Pd XVI 82); in Pd IX 118 è quello di Venere; in Pd II 130 il ciel cui tanti lumi fanno bello è il c. delle Stelle fisse (cfr. Pd II 21 e Rime C 3, in cui il geminato cielo è " quella parte del cielo che contiene la costellazione dei Gemelli "; Vn II 2); il ciel che tutto gira è il Primo Mobile (If IX 29: il ciel velocissimo di Pd XXVII 99; e cfr. Pg XXXIII 90, Pd XIII 24, Cv II III 9); più spesso si riferisce all'Empireo, il primo cielo (Pg XXX 1), il ciel più chiaro (Pd XXIII 102), il ciel de la divina pace (Pd II 112; e anche in If II 21, Pg XXVI 62, Pd I 4 e 122, XXVII 109, XXX 39 e 52. Altri esempi si registrano in Pg XI 108, Pd II 115, IV 31, V 95, IX 38, 95 e 122, XXVIII 78 e 135. La canzone del secondo libro del Convivio esordisce con un'invocazione, Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete; questo cielo che segue il valore o virtus delle intelligenze celesti (cfr. al v. 4, citato di nuovo in Cv II VI 5) è il cielo di Venere. La discussione della canzone ci offre un gran numero di occorrenze del vocabolo, i cui valori sono sempre all'interno della concezione cosmologica del tempo. Oltre ai casi in cui abbiamo il primo verso della canzone (o parte di esso) ripetuto (v. Cv II II 5, VI 1, XII 9; e cfr. anche Rime LXXXIV 4 e Pd VIII 37), numerose volte il sostantivo compare in questa parte del trattato: Cv II II 7, III 1 (due volte), 3 (due volte), 4, 5, 6, 8 (due volte), 12, 13 (quattro volte), 15 (due volte), 16 (due volte), 17 (tre volte) e 18 (due volte), IV 1, 2, 3 (due volte) 4, 5 e 13, V 12 (due volte), 13 (tre volte), 14, 15, 16 (due volte), 17 e 18, VI 1 (due volte) e 9 (tre volte), XII 9 (due volte). Particolarmente numerose le occorrenze di II XIII ov'è contenuta un'interessante comparazione de li cieli a le scienze (XIV 21); i sette primi cieli (XIV 1) vengono paragonati, rispettivamente, alla Grammatica, quello della Luna (XIII 9), alla Dialettica quello di Mercurio (§ 11), alla Retorica quello di Venere (§ 13), all'Aritmetica quello del Sole (§ 15), alla Musica quello di Marte (§ 20), alla Grammatica quello di Giove (§ 25) e all'Astrologia quello di Saturno (§ 28. Cfr. ancora XIII 1 [tre volte], 2 [tre volte], 3, 4, 5, 6 [due volte], 7 [tre volte], 8, 11 [due volte], 20 [due volte], 25 e 30). Il paragone continua nel successivo capitolo; sì che il Cielo stellato è assomigliato alla Fisica e alla Metafisica (XIV 1), il Cristallino alla Morale (§ 14) e finalmente l'Empireo alla Teologia (§ 19; vedi ancora §§ 2, 5, 7, 8, 9, 12, 13, 15, 16 [due volte], 18 e 21 [due volte]).
Analoghe sfumature di significato può assumere il sostantivo nel terzo trattato del Convivio, dove D. spiega il rapporto tra i cieli, i pianeti e le loro orbite (cfr. la voce Cerchio): Cv III V 6, 8 e 13, VI 4 e 6 (e v. anche III 2, XIV 11 e XV 15). Nel quarto trattato abbiamo una comparazione... del cielo a l'umana nobilitade (XIX 7) ove si afferma l'importanza dell'influsso celeste sugli uomini: cfr. Le dolci rime 103 (ripreso in XIX 5), e V 7, XV 8 e 9, XIX 3, 5 (due volte) e 6, XXI 4, 5 e 7, XXIII 6 (due volte). In altri passi il sostantivo è usato in connessione con la concezione delle influenze astrali, nel senso di " origine di influssi ", " fonte di influenze ", generalmente benefiche: numerosi soprattutto nel Purgatorio (III 98, XVI 63, 68, 73, 77 e 81, XX 13) e nel Paradiso (VIII 106, X 17 e 29, XIII 66 e 74, XVIII 117, XXVI 129; ma vedi anche Cv IV II 7, Vn XXIX 2, tre volte, Rime LXXXIII 58, due volte, e CIV 68).
Infine il vocabolo può assumere il significato generico di " volta o emisfero celeste ", ovvero quello più specifico, nel senso fisico-meteorologico, di " sede delle perturbazioni atmosferiche ", o addirittura " atmosfera ", " aria ", a indicare la zona compresa tra la sfera della Luna e la terra; e il traslato più interessante è quello per cui c. viene a significare " clima " (come in Pg XXVIII 113 e forse in If XXXII 27). Esempi in Cv III Amor che ne la mente 77 (ripreso in III IX 3 e 5), V 8, If III 85, XVII 108, XXXIV 138, Pg I 25, II 57, III 15, V 117, VIII 85, XIV 35, XVI 2 (il pover cielo è così spiegato da Benvenuto: " quantum in apparentia, quia coelum, quod est ditissimum tot gemmis lucentibus... videtur pauperatum "), XX 132, XXIX 82 e 91, XXX 24, XXXI 106, Pd I 63 e 79, XIII 5, 8 e 13, XIV 71, XX 4 e 7, XXIII 18 e 27, XXIV 147, XXVII 30 e 35, 69 (la capra del ciel, il Capricorno, è la costellazione che, nella volta stellata, ha la forma di un caprone), XXVIII 83 e 87, XXX 4 e 8. Da ricordare, ancora, i luoghi in cui c. vale " cielo al di sopra della sfera della Luna " (Pg XXI 44, XXXI 144) e, con traslato piuttosto ardito, " volta della cavità infernale " (If VIII 83). Infine, in Cv III II 6 compare l'espressione sotto lo cielo, che è modo di dire del linguaggio familiare e significa " nel mondo ", " in terra "; questa espressione assume, nel Fiore, un tono ancora più popolaresco: sotto 'l ciel non ha più bella (LVII 6), ossia " non se ne vede una più bella sulla faccia della terra ".
La nozione di cielo in Dante. - La nozione di c. nell'opera di D. ha un rilievo dottrinale e strutturale di notevole peso. Essa in gran parte è debitrice della tradizione greco-araba, corretta e integrata dalla visione cristiana del cosmo. Secondo la tradizione aristotelico-tolemaica, infatti, il cosmo veniva rappresentato secondo una rigida suddivisione gerarchica con la Terra al centro ricoperta in parte dalle acque; il globo terracqueo era a sua volta circondato dalla sfera dell'aria e quest'ultima da quella del fuoco. L'insieme di questi quattro elementi formava il mondo sublunare (sottostante cioè al c. della Luna), sede dei processi di generazione e di corruzione, del transeunte. Al di sopra della sfera del fuoco iniziava col c. o sfera della Luna la serie dei nove c., sfere cave (da ciò l'alternanza in D., per designare i c., dei termini c. o ‛ sfera ', ‛ spera '), contigue tra loro e concentriche al centro del mondo, sovrastate e circondate dal decimo c., l'Empireo, di tradizione cristiana.
Il mondo ‛ celeste ' o ‛ sopralunare ' era, rispetto a quello ‛ sublunare ', sede dell'eterno e dell'incorruttibile, soggetto a un ordine perenne e immutabile, ove nessun processo di generazione o corruzione ha mai luogo. L'insieme dei c., oltre l'Empireo, si suddivideva - secondo un ordine discendente - in c. Cristallino o acqueo (detto anche Primo Mobile), e poi in c. delle Stelle fisse, di Saturno, di Giove, di Marte, del Sole, di Venere, di Mercurio e della Luna. I primi otto c. prendevano nome dall'astro che girava solidalmente con essi, mentre il nono c., privo di astri, era considerato semplice e uniforme, dotato di moto spontaneo con cui traeva le altre sfere con sé nel movimento da oriente a occidente. I pianeti, dunque, e le stelle fisse non erano dotati di movimento proprio ma erano tratti al moto dàlla sfera in cui erano fissati.
Quanto alla natura dei c., andrà ricordato che per Aristotele, di contro ai quattro elementi del mondo sublunare, le sfere celesti erano costituite da un quinto elemento o quinta essenza (il cosiddetto quintum elementum o quinta essentia) cioè l'etere, privo di pesantezza o leggerezza, ingenerato e incorruttibile, non soggetto ad alcun cangiamento qualitativo o quantitativo e dotato di moto circolare ed eterno. Ogni elemento o corpo semplice, infatti, era caratterizzato, nella fisica aristotelica, da un proprio moto semplice e secondo natura. Ai quattro elementi sublunari era proprio il moto rettilineo (verso l'alto il fuoco e l'aria in quanto leggeri; verso il basso l'acqua e la terra, in quanto pesanti), contraddistinto da un inizio e da una fine, corrispondente quest'ultima al luogo naturale conforme all'elemento. Tale moto rimaneva soggetto ai principi del passaggio dalla potenza all'atto. Al moto circolare perfetto e infinito, pertanto, doveva corrispondere un elemento la cui natura soddisfacesse alle sue caratteristiche. Tale elemento Aristotele indicò nel quinto elemento detto anche ‛ corpo circolare ' o ‛ corpo primo ' (χύχλω σω̃μα ο πρω̃τον σω̃μα), costituito dall'etere (αἰθήρ) di cui i c. erano formati. Il moto circolare, non conoscendo inizio o fine né passaggio da potenza all'atto (cui invece è sottoposto il moto dei corpi sublunari), era quello in cui la forma veniva realizzata pienamente e ininterrottamente. Esso si svolgeva perennemente in sé stesso, eternamente in atto, senza nascimento e senza corruzione, e pertanto perfettamente adeguato al corpo circolare che, come questo, era inalterabile, continuo e uniforme.
La dottrina del moto circolare e uniforme dei corpi celesti risaliva a Platone, il quale aveva posto il celebre problema di quali moti celesti si dovessero ipotizzare per salvare le apparenze quanto al movimento dei diversi orbi celesti. Eudosso di Cnido lo risolse con l'ipotesi di ventisei sfere, divise in sette gruppi, concentriche alla Terra immobile al centro del mondo, cioè 4 ciascuna per Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno, e 3 ciascuna per Sole e Luna. I moti dei sette corpi celesti risultavano dal ruotare delle varie sfere di ciascuno di essi, la più interna delle quali recava l'astro sull'equatore. Per Eudosso, la sfera più esterna, ruotante attorno all'asse del mondo, recava con sé la sfera immediatamente sottostante che ruotava su un asse diverso, e così di seguito per ogni sfera sottostante fino a spiegare l'intero movimento dei pianeti. Il sistema di Eudosso fu perfezionato da Calippo con l'aggiunta di 7 sfere e infine accettato da Aristotele, che portò il numero a 56. Per Aristotele, inoltre, le sfere o c. erano delle reali sfere cristalline, solide e diafane.
Ma il sistema delle sfere omocentriche andava incontro a una serie di obiezioni riguardanti varie irregolarità nel corso e nella grandezza dei pianeti, inspiegabili con l'ipotesi della concentricità e solidità delle sfere e del moto uniforme di esse. Venne così formulandosi, in ambiente alessandrino, l'ipotesi geometrica degli eccentrici e degli epicicli (alle sfere omocentriche vennero sostituiti gli eccentrici o deferenti, cioè cerchi ruotanti intorno al centro del mondo, eccentrico rispetto al loro centro, lungo i quali scorreva il centro di un altro cerchio - detto epiciclo - sulla cui circonferenza ruotava il pianeta), che fu concretata in sistema astronomico da Ipparco di Nicea e da Tolomeo, nel II secolo a.C. Tale sistema rispondeva meglio alle osservazioni e valeva a giustificare matematicamente le diverse irregolarità riscontrate nel corso degli astri. Da ricordare, inoltre, che fondandosi sulla legge della precessione degli equinozi, formulata da Ipparco, Tolomeo aveva postulato un duplice movimento di rivoluzione svolgentesi su poli diversi: l'uno, proprio dell'ottava sfera delle Stelle fisse, lentissimo, di un grado ogni cento anni, da occidente a oriente, che si compiva in 36.000 anni; l'altro, diurno, che venne da lui attribuito a una nona sfera (il ‛ Primo Mobile ' dei medievali) sovrastante la sfera stellata. Il movimento di questa nona sfera si trasmetteva a tutti gli altri orbi, di modo che il movimento di ciascuno di essi si componeva del moto diurno del Primo Mobile e di un movimento proprio. L'ipotesi tolemaica degli eccentrici e degli epicicli e del duplice movimento si trovava inevitabilmente in contrasto con il sistema delle sfere omocentriche di Aristotele che, supposte solide e inalterabili, non potevano perfettamente adeguarsi alla complessità del modello geometrico-matematico di Tolomeo, che come tale fu combattuto e mai pienamente accettato dai filosofi medievali (cfr. Calcidio Comment. in Tim. 84 " Aristoteles... et eccentrorum et epyciclorum tollit opinionem propterea quod circulis, hoc est lineis picturatis et carentibus corpore, vehi stellarum vera et solida corpora non posse dicat. Quatenus enim corpus incorporeae rei nexu vinciri possit? Sed sphaeras esse quasdam quinti illius corporis naturae congruentes easdemque per omne caelum ferri vario diversoque motu; earum alias esse maximas, alias minimas, quasdam ex alto moveri, quasdam ad ima esse depressas, iamque alias cassas, solidas item alias stellarum corpora continentes easdemque omnes perinde ut ceteras stellas minime errantes infixas esse caelo ").
Interprete tra i maggiori di questa opposizione fu Alpetragio, cui D. s'ispira, con l'opera De Motibus coelorum. Per Alpetragio, come per Aristotele, il mondo si divide in regione celeste e regione degli elementi. Nella prima si muovono i c., nel numero di nove, cioè gli otto tradizionali più il nono, della tradizione tolemaica, detto Primo Mobile o nona sfera, privo di astri, semplice e dotato di moto spontaneo, il quale " movet totum quod est sub se, et non recipit motum ex allo corpore ". Le sfere o c. sottostanti sono tratti al moto sia dalla propria natura, sia dal desiderio d'imitare la nona sfera " ut ducantur suo motu ". Contrariamente a essa gli altri c. presentano un'eterogeneità nella sostanza, sia per il continuo variare di luogo delle costellazioni secondo le stagioni, sia per l'ineguale moto dei pianeti, sia infine per la diversa intensità luminosa delle stelle fisse. Ciò spiega il diversificarsi degl'influssi celesti sul mondo sublunare e la crescente complessità nel movimento dei c. quanto più ci si allontana dall'orbe supremo. Diversamente da Tolomeo che seguiva un metodo prevalentemente matematico, la necessità di postulare una sfera suprema assolutamente semplice nasceva in Alpetragio dal principio filosofico, d'origine neoplatonica, della derivazione del molteplice dall'Uno, del sempre più complesso dal semplicissimo. In tal senso va intesa l'uniformità e semplicità del nono c. rispetto alla diversità crescente nella sostanza e complessità dei moti, per gradi discendenti, dei c. sottostanti. Ogni c. partecipa del moto diurno, velocissimo, del nono c., secondo il duplice rapporto di derivazione della virtù da esso e di desiderio di conformarsi ad esso; tuttavia, quanto maggiore è la distanza da esso, tanto più va scemando la virtù derivata e la velocità del moto. Peraltro, oltre il moto universale del nono c., ogni c. ha un suo moto proveniente da una " virtus propria ".
La stessa concezione sarà seguita da D. quando considererà un primo c. mobile, indiviso e indistinto, che tutto quanto rape / l'altro universo seco (Pd XXVIII 70-71), dal quale discende a tutti gli altri c. quella ‛ virtù ' con cui agiscono sul mondo sublunare, tanto più debole in essi quanto più s'allontanano dall'orbe supremo. Tale struttura dei c., frutto a un tempo di una concezione cosmologica e di una visione metafisica del mondo, D. applica al processo di derivazione delle cose da Dio. I c. cioè divengono strumenti di attuazione dell'azione provvidenziale e creatrice di Dio. Azione indiretta, se si eccettua la creazione diretta di Dio, sostenuta da D., delle intelligenze separate (pura forma), della materia informe, il caos (pura potenza) e dei c. (composto indissolubile di materia e forma). Per ogni altra cosa del mondo sublunare l'intervento diretto di Dio è limitato (se si eccettua l'infusione dell'intelletto possibile) al substrato materiale, mentre la forma viene loro infusa direttamente dalla ‛ virtù informante ' dei cieli. Essi così divengono mediatori del processo discendente che va da Dio alle essenze animate e inanimate del mondo sublunare. Processo che inizia da quella viva luce che sì mea / dal suo lucente (Pd XIII 55), cioè il Verbo, luce divina che cinge l'universo e sostanzia di sé il c. Empireo. Da questo il Primo Mobile prende vivere e potenza, cioè la propria essenza e la capacità, la virtù d'influire sul mondo sottostante; una virtù che è l'esser di quanto è contenuto entro l'orbe supremo, semplicissimo nella sua natura e nella virtù che ne discende, fonte d'ogni cagione per i c. ad esso sottoposti. Primo dei quali è il c. stellato, di sostanza non uniforme, per la diversa grandezza e luminosità delle stelle in esso contenute, ognuna delle quali rappresenta un principio formale. In questo cielo si opera la prima differenziazione della virtù semplice e indistinta derivata dall'orbe supremo, che viene moltiplicata e ripartita secondo le diverse essenze. Di qui gli altri c. iniziano l'opera di diversificazione sempre maggiore delle influenze, limitandole e destinandole ognuna al proprio fine che è la generazione dei vari esseri cui sono preposte, fino a giungere alla sfera più bassa, quella della Luna. Quest'ultima, in immediato contatto col mondo sublunare, creato (quanto al suo substrato materiale) da Dio santa mezzo, agisce direttamente su di esso in virtù di un principio intriseco derivato dall'intelligenza motrice.
Il nucleo di tale concezione, ben prima del citato Alpetragio, si trovava formulato in modo rigoroso in Avicenna, sul quale aveva agito fortemente la tradizione neoplatonica (presente a D. anche tramite gli scritti dello Pseudo-Dionigi, il Liber de causis e l'Elementatio theologica di Proclo). Avicenna, applicando il fondamentale principio neoplatonico della derivazione del molteplice dall'Uno, aveva postulato una causa prima e unica da cui non poteva derivare che un unico effetto, cioè la prima intelligenza. Da questa si generava la seconda intelligenza, l'anima del primo c. e il primo c. (per Avicenna ogni sfera aveva una propria anima); la seconda intelligenza produceva poi la terza intelligenza e con essa il secondo c. e l'anima di esso, e così via sino a giungere al c. più basso la cui intelligenza, detta dator formarum, presiedeva appunto al mondo sublunare e ai suoi processi di generazione e corruzione. Una tale dottrina - che escludeva l'azione diretta di Dio causa prima nella creazione dei molteplici effetti per il principio che da un primo e invariabile agente non può procedere che un singolo e invariabile effetto - non poteva accordarsi con la nozione cristiana di creazione ex nihilo, frutto della libera volontà divina. L'azione di Dio infatti non avrebbe potuto essere mediata in modo unico e necessario dai c., cause seconde. Perciò il pensiero scolastico corresse via via la nozione di rigida derivazione, graduale e mediata, del creato dalla causa prima, accettando comunque il principio gerarchico fondato sull'eccellenza del superiore sull'inferiore e sulla naturale necessità dell'azione di quello su questo. Altro elemento di rilievo fu una meno rigida formulazione dell'animazione delle sfere, corretta e integrata con i dati dell'angelologia cristiana. Sicché. l'originaria dottrina astronomico-astrologica del vario moto e influenza dei c., nella sua manifestazione più compiuta e autorevole quale quella aristotelica, veniva a fondersi in una concezione metafisica, d'impianto neo-platonico, che rendeva ragione dell'essere di tutto il creato.
Del numero e disposizione dei c., D. parla in Cv II III 3-18, ricordando l'erronea dottrina aristotelica degli otto c. culminanti con quello delle Stelle fisse, oltre il quale non c'era c. alcuno (e che di fuori da esso non fosse altro alcuno). Cita poi Tolomeo, il quale invece puose un altro cielo essere fuori de lo Stellato; ipotesi questa, come s'è visto, avanzata per giustificare il duplice movimento da oriente a occidente (il diurno) e quello lentissimo da occidente a oriente determinato dalla precessione degli equinozi, ma che D. ritiene formulata perché Tolomeo sarebbe stato costretto da li principii di filosofia, che di necessitade vuole uno primo mobile semplicissimo. Di fatto tale principio di filosofia troviamo in Alpetragio, che D. conosce e cita, e in tutta la tradizione platonizzante prima ricordata, e non già in Tolomeo che aveva obbedito a necessità più strettamente attinenti alla tecnica astronomica. Il sito dei c., manifesto e diterminato (§ 6) dalle tre scienze ausiliarie dell'astronomia (cfr. Vn XXIX 2), D. riporta secondo l'ordine consueto, cioè c. della Luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, di Giove, di Saturno, delle Stelle fisse, Cristallino ed Empireo.
Ognuno di essi viene mosso dalla propria intelligenza angelica: dagli Angeli il c. della Luna, dagli Arcangeli il c. di Mercurio, dai Principati il c. di Venere, dalle Potestà il c. del Sole, dalle Virtù il c. di Marte, dalle Dominazioni il c. di Giove, dai Troni il c. di Saturno, dai Cherubini il c. delle Stelle fisse, dai Serafini il Primo Mobile. Nella fusione di astronomia antica e angelologia medievale (che con la denominazione dei nove ordini divisi in tre gerarchie perpetuava una tradizione proveniente da s. Paolo, la patristica e in primo luogo dallo Pseudo-Dionigi) ogni pianeta diveniva simbolo di un grado di beatitudine e strumento realizzatore del disegno divino mediante la virtù informante (Pd VII 137) emanante dal suo c.; nella causalità universale lo raggio e 'l moto de le luci sante (v. 141) divenivano organi fondamentali nella formazione e determinazione degli elementi e dei loro composti animati e inanimati. Da notare che nel Convivio D. assegna alle intelligenze angeliche un ordine diverso da quello che Beatrice, nel XXVIII canto del Paradiso, espone come il vero ordine rivelato a Dionigi ancora vivente; D. ritratta l'opinione dei Troni motori del c. di Venere attribuendoli a quello di Saturno, in ciò simile a s. Gregorio che, salito al Paradiso, ebbe svelata la struttura del cosmo e rise di sé e dell'erroneo ordine da lui attribuito alle gerarchie celesti.
D. stesso dava una trattazione, in Cv II IV 2-17, della natura delle intelligenze motrici e delle varie opinioni via via succedutesi. Di rilievo la citazione della teoria aristotelico-averroista del numero delle intelligenze, stabilito in tante quante circulazioni fossero ne li cieli, e non più, giacché altrimenti alcune sarebbero rimaste etternalmente indarno, santa operazione; affermazione fondata sulla dottrina, ribadita nella Monarchia, secondo cui earum esse nichil est aliud quam intelligere (I III 7). Prive di operazione, quindi, significherebbe prive di essere, proprio in quanto il loro essere coincide con la loro operazione (Cv II IV 3). Così pure D. riporta, escludendola, l'opinione di Platone in una formulazione che in realtà non è altro che un'assimilazione delle idee platoniche alle intelligenze motrici di Aristotele. D., infatti, sulla scorta delle interpretazioni correnti, fa delle idee separate di Platone non solo forme intelligibili in atto, bensì sostanze intelligenti di per sé. Infine D. propone una gerarchia delle intelligenze corrispondente alla diversa ampiezza degli orbi celesti (cfr. Pd XXVIII 64-78) e quindi alla loro diversa nobiltà, in base alla quale ad alcune intelligenze spetta la beatitudine della vita attiva ma è preclusa in eterno quella contemplativa, che è invece prerogativa delle intelligenze superiori, che in quanto fuori di questo ministerio, cioè il governo del mondo, vivono speculando eternamente. In Cv II V 5-18 è poi esplicitamente affermata e giustificata l'identificazione dei motori dei c. con le gerarchie angeliche. Più oltre (II XIII 7-30) D. tratta lungamente della corrispondenza delle proprietà dei c. della Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, delle Stelle fisse, Primo Mobile ed Empireo, rispettivamente con le proprietà della Grammatica, Dialettica, Retorica, Aritmetica, Musica, Geometria, Astronomia, Fisica, Metafisica, Etica e Teologia. Tali analogie D. giustifica partendo da tre caratteristiche fondamentali dei c.: la loro rivoluzione intorno al proprio centro, la discesa della luce da un c. all'altro per la loro diafaneità, e l'influenza da essi esercitata: A vedere quello che per lo terzo cielo s'intende, prima si vuoi vedere che per questo solo vocabulo ‛ cielo ' io voglio dire... Dico che per cielo io intendo la scienza e per cieli le scienze, per tre similitudini che li cieli hanno con le scienze massimamente... La prima similitudine si è la revoluzione de l'uno e de l'altro intorno a uno suo immobile... La seconda similitudine si è lo illuminare de l'uno e de l'altro... E la terza similitudine si è lo inducere perfezione ne le disposte cose (Cv II XIII 1-5). In tal modo, con una tecnica consueta alla trattatistica medievale, D. cercava di fondare, con un'ulteriore ragione, l'armonia dei C. sulla base della gerarchia delle scienze. Infatti, come ogni c. ruota intorno al proprio centro, così ogni scienza si muove intorno al proprio oggetto lo quale essa non muove, però che nulla scienza dimostra lo proprio subietto (che è il classico principio della subalternazione delle scienze); come ogni c. illumina le còse visibili, così ogni scienza illumina le intelligibili; come ogni c. induce la perfezione nell'oggetto disposto a subirne l'influenza, determinandone la generazione sustanziale che è prima perfezione, così le scienze inducono perfezione, la perfezione seconda, per la quale gli uomini assumono l'abito speculativo che è via alla verità, che è bene e perfezione nostra. Se ai sette c. dei pianeti corrispondono le scienze del Trivio e del Quadrivio, ai tre c. più alti, cioè quello delle Stelle fisse, il Primo Mobile e l'Empireo, corrispondono le scienze più alte quali la Fisica, la Metafisica e l'Etica, e infine, suprema, la Teologia (Cv II XIV). Da questa infatti le prime dipendono e derivano, come il moto dei c. inferiori dipende da quello superiore. Da siffatte comparazioni fra proprietà dei c. e delle scienze compare tutto il contenuto simbolico che D. attribuisce alle sfere celesti. Tutto un complesso di significati umani e morali che si sono venuti aggiungendo all'antica cosmologia, alla dottrina delle influenze dei c. e all'angelologia medievale. Rispetto all'accentuata funzione letteraria e poetica dei c. nel Paradiso, nel Convivio troviamo un uso della nozione di c. prevalentemente dottrinale, con precisazioni tecniche quali la distinzione dell'epiciclo (v.) dal c. deferente: E avvegna che detto sia essere diece cieli secondo la stretta veritade, questo numero non li comprende tutti; ché questo di cui è fatta menzione, cioè l'epiciclo nel quale è fissa la stella, è uno cielo per sé, o vero spera, e non ha una essenza con quello che 'l porta, avvegna che più sia connaturato ad esso che li altri; e con esso è chiamato uno cielo, e dinominasi l'uno e l'altro da la stella (Cv II III 17). L'epiciclo viene considerato un cielo per sé, cioè sostanzialmente distinto, ma di natura più simile al deferente che a qualsiasi altro e tale simiglianza di natura portava a non contare gli epicicli nel numero dei c. propriamente detti.
Per D., dunque, posti nel mezzo tra angeli e materia informe nei gradi della creazione, i c. ruotano perennemente attorno alla Terra, mossi ciascuno dal moto universale e dalla propria intelligenza angelica. Dio nel mezzo [tra le pure forme angeliche e la pura potenza materiale] strinse potenza con atto con un legame che già mai non si divima (Pd XXIX 35-36), creando cioè direttamente e completamente (in loro essere intero, VII 132) i c. in un composto indissolubile e quindi incorruttibile e secondo un ordine perenne e invariabile. Un ordine che realizza l'opera divina e che D. promuove a centro organizzatore della propria immaginazione poetica.
La struttura cosmólogica diviene infatti un elemento portante nella Commedia, e soprattutto nel Paradiso ove assolve al ruolo di cornice essenziale per la raffigurazione scenica e di suscitatrice non occasionale di situazioni poetiche. Di fatto solo tramite essa diviene pensabile l'ascesa poetica e religiosa, e realizzabile la discesa del Verbo come verità, bene e luce. L'ordine cosmico è immagine e strumento di Dio (Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l'universo a Dio fa simiglianze, Pd 1103-105, e 106-141) e con esso si realizza il processo dall'Uno al molteplice. Al culmine è il Verbo, viva luce che sì mea / dal suo lucente, che non si disuna / da lui né da l'amor ch'a lor s'intrea, / per sua bontate il suò raggiare aduna, / quasi specchiato, in nove sussistenze, etternalmente rimanendosi una (Pd XIII 55-60). L'unità unitrina di Dio si riverbera, come Verbo e luce, di sfera in sfera sino alla regione súblunare. Questa luce, platonicamente e cristianamente, diviene unico mezzo di vera conoscenza e di discoprimento dell'eterno creatore (Pd XXX 39-40, 100-102). Dio, che non è circunscritto e che tutto circunscrive (XIV 30), cinge di sé l'universo: È si distende in circular figura, / in tanto che la sua circunferenza / sarebbe al sol troppo larga cintura (XXX 103-105). Di qui discende, di grado in grado con i c., la sua virtù a determinare le vicende del mondo: Quindi discende a l'ultime potenze giù d'atto in atto, tanto divenendo, che più non fa che brevi contingenze; e queste contingenze essere intendo le cose generate, che produce / con seme e santa seme il ciel movendo (XIII 61-66). La divina potenza discende di c. in c. (d'atto in atto) diversificandosi in tale molteplicità di effetti (tanto divenendo), che una volta giunta alle ultime potenze, cioè nel mondo della materia posto nella ‛ parte ima ' dell'universo, produrrà solo essenze non necessarie (contingenze) e caduche (brevi) per mezzo del moto perenne dei c. (ciel movendo), sia nel mondo animato (con seme) che inanimato (santa seme). Tale processo discendente D. espone ampiamente per bocca di Beatrice in Pd II 112-148: entro l'Empireo, c. di pura luce, uniforme e immobile, sostanziato dello splendore divino, si volge in velocissimo moto il Primo Mobile, c. perfettamente uniforme anch'esso, nelle sue parti e nella virtù e potenza derivata dall'Empireo, in cui l'essere giace ancor tutto indifferenziato (Dentro dal ciel de la divina pace si gira un corpo ne la cui virtute l'esser di tutto suo contento giace, II 112-114). Questo essere viene poi accolto e ripartito dal c. seguente delle Stelle fisse, che brilla di molte luci differenti per qualità e quantità riscontrabili nel loro aspetto (La spera ottava vi dimostra molti / lumi, li quali e nel quale e nel quanto / notar si posson di diversi volti, vv. 64-66), a seconda delle diverse essenze che esso contiene e diversifica (Lo ciel seguente, c'ha tante vedute, / quell'esser parte per diverse essenze / da lui distratte e da lui contenute, vv. 115-117). Alle diverse vedute dell'ottavo c. corrispondono dunque le diverse essenze o princìpi formali (v. 71) da cui gli animali e le piante della terra traggono le loro proprietà e differenze specifiche, ma non completamente. Perché siano complete, infatti, occorre che gli altri c. (li altri giron), oltre quello delle Stelle fisse, perfezionino l'influenza generalissima del Primo Mobile destinando la virtù particolare a ognuno di essi, distinta dalle altre, alla determinazione ulteriore degl'individui nati dalle semenze delle prime specie, secondo fini determinati (per varie differenze le distinzion che dentro da sé hanno dispongono a lor fini e lor semenze, vv. 118-120). In tal senso i c. sono organi del mondo (e una delle proposizioni averroistiche condannate a Parigi nel 1277 diceva: " Quod anima caeli est intelligentia, et orbes caelestes non sunt instrumenta intelligentiarum, sed organa, sicut auris et oculus sunt organa virtutis sensitivae ", prop. 102), che realizzano e determinano l'essere universale procedendo di grado in grado, cioè subendo dal superiore e agendo sull'inferiore (che di sù prendono e di sotto fanno ,vv. 121-123). La loro azione, che si esplica nel moto e nella virtù, dipende dalle intelligenze motrici (beati motor) come l'arte del martello dipende dal fabbro che se ne serve (vv. 127-129) e, più particolarmente, il c. si fa suggello dell'image che esso prende dalla mente profonda che lui volve, cioè dall'intelligenza motrice di cui è strumento ovvero ‛ organo ' (vv. 130-132; cfr. Boezio Cons. phil. III m. IX 13-17). Tali ‛ immagini ' sono appunto il riflesso delle idee che sono nella mente profonda che fa girare il c., e che quest'ultimo imprime nel mondo.
Così i c. divengono gli organa ovvero istrumenta della potenza divina realizzantesi attraverso le intelligenze motrici, e la diversità degli effetti dipenderà sia dalla materia soggetta all'influsso, sia dalla situazione dei c., vale a dire dalla duplice circostanza del diverso combinarsi di stelle pianeti e segni zodiacali, per la circolazione delle loro sfere, e dei differenti stati o disposizioni della materia atta a patire gl'influssi. Ciò spiega come mai il ‛ sigillo ' divino, l'idea esemplare che è in lui, non appare mai pienamente nella materiale cera delle cose di qua giù (La cera di costoro e chi la duce / non sta d'un modo; e però sotto 'l segno / idëale poi più e men traluce, Pd XIII 67-69; cfr. Cv III VII 2-3). Ché se la materia fosse perfettamente disposta (a punto la cera dedutta) e la congiunzione dei c. fosse tale da esprimere il massimo della sua potenza (e fosse il cielo in sua virtù supprema), allora il Verbo si manifesterebbe in tutta la sua pienezza (la luce del suggel parrebbe tutta, Pd XIII 73-75; cfr. Cv IV XXI 7-8 e 10 e quanto è detto, a proposito della nascita di Cristo che coincise appunto con l'ottima disposizione dei c. e della Terra sí che egli fu ottimamente naturato, in Cv IV V 4, XXIII 10, e Mn I XVI 2). Il modo di questo intervento celeste nella determinazione dell'essere umano è esposto da D. in Cv IV XXI 4-10 e Pg XXV 37-108 (v. ANIMA), laddove si richiama alla vertù del cielo o virtù informante (Pd VII 137) quale causa efficiente della produzione dell'anima sensitiva tratta dalla potenza del seme. Questa virtù dei c., che è un agente naturale e che attua le varie forme del mondo sublunare, è una diretta conseguenza della disposizione del Cielo (Cv IV XXI 7), cioè del raggio e... moto de le luci sante (Pd VII 141). Solo dopo tale intervento del c. causa seconda - che appresta l'anima vegetativo-sensitiva e l'intero organismo - sopraggiunge lo motor primo, cioè quel Dio che cominciò lo mondo e spezialmente lo movimento del cielo, lo quale tutte cose genera e dal quale ogni movimento è principiato e mosso (Cv III XV 15), a completare e perfezionare l'opera della natura infondendo l'intelletto possibile (Pg XXV 71-72). Ma in questo meccanismo d'influenze celesti v'è inoltre la ragione profonda del diversificarsi dell'umanità nei suoi individui. La varia indole e ingegno degli uomini si spiega col variare della disposizione della materia e della virtù celeste; il diverso rapporto di stelle, c. e pianeti (secondo che le stelle son compagne, Pg XXX 111) rende ragione della varia attitudine degli uomini rispetto al bene e ai molteplici negozi. Allo stesso modo si spiega il diversificarsi della natura del figlio da quella del padre, sottraendo così il perpetuarsi della generazione umana a un rigido determinismo (Pd VIII 112-135). Le radici degli umani effetti sono dunque regolate, in origine, dall'influsso celeste proprio in quanto la circular natura, ch'è suggello / a la cera mortal, fa ben sua arte, / ma non distingue l'un da l'altro ostello (vv. 127-129); un'arte ispirata dalla provvidenza divina che, tramite l'intervento dei c., impedisce un perenne ripetersi dell'umana natura di padre in figlio: Natura generata il suo cammino / simil farebbe sempre a' generanti, / se non vincesse il proveder divino (vv. 133-135). Tali influssi però, ben lungi dall'essere necessitanti, provocano delle originarie inclinazioni che, qualora volgano al male, possono venir combattute e corrette dall'uomo, soggetto di libero volere e dotato di un naturale appetito al bene (Cv IV XXII 2-10), mediante quelle che D. chiama battaglie col ciel, cioè mediante una tenace correzione delle maligne inclinazioni determinate dall'influsso del c. (Lo cielo i vostri movimenti inizia; / non dico tutti, ma, posto ch'i' 'l dica, / lume v'è dato a bene e a malizia, / e libero voler; che, se fatica / ne le prime battaglie col ciel dura, / poi vince tutto, se ben si notrica, Pg XVI 73-78; cfr. anche vv. 67-72, 79-81). Ciò segna la convinzione e il limite della credenza dantesca nell'astrologia. La mente umana, tuttavia, che creata immediatamente da Dio, santa mezzo distilla dalla bontà divina, non può soggiacere a la virtute de le cose nove (Pd vrr 67, 72) cioè alla virtù celeste che interviene come causa seconda nella creazione delle cose nel tempo.
La provvidenza divina, quindi, non agisce al di fuori delle cause naturali bensì, attraverso i c. e le loro virtù, attua progressivamente un imperscrutabile disegno intervenendo nella generazione, nell'ingegno e nell'indole dell'uomo. Viene così a risolversi un ulteriore grande problema: la fortuna, la cieca divinità pagana, non è altro che il realizzarsi della provvidenza attraverso la struttura dei c.: così come Iddio onnipotente e onniscente fece li cieli e assegnò loro delle intelligenze motrici (diè lor chi conduce) tramite cui venisse trasmessa e dispensata la sua luce in tutto l'universo, allo stesso modo egli ordinò genera/ ministra e duce / che permutasse a tempo li ben vani, un'intelligenza, cioè, che presiedesse all'avvicendarsi dei beni e delle sorti terrene e che provede, giudica, e persegue / suo regno [l'ambito della sua ‛ giurisdizione '] come il loro li altri dèi, cioè le altre intelligenze celesti (If VII 73-96). Solo la provvidenza divina garantisce però che i c. non producano ruine ma arti: Dio infatti, che muove e riempie di sé i c. (il regno che tu scandi / volge e contenta), traduce la sua provvidenza in virtù, in influenza celeste (fa esser virtute / sua provedenza in questi corpi grandi), non soltanto generando le cose, ma curandone la salute. La provvidenza divina regola il ripartirsi e il destinarsi degl'influssi per vie tali che salvaguardino l'armonia universale: l'arco divino, infatti, saetta la propria virtù a proveduto fine, cioè secondo un piano provvidenziale. Ché se gl'influssi dei c. non fossero in tal modo preordinati e guidati, il ciel che tu cammine produrrebbe effetti tali che non sarebbero arti, ma ruine, proprio perché non regolati da un superiore principio ma ‛ saettati ' a caso nel mondo inferiore. Il che avverrebbe solo nell'ipotesi assurda che gli 'ntelletti motori fossero manchi, difettosi, e quindi difettoso anche il primo, Dio, che li ha creati (Pd VIII 97-111).
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