Stellato, Cielo (o Cielo delle Stelle fisse)
, Il cielo S. è il cielo immediatamente precedente i cieli planetari e successivo al primo cielo mobile; esso fu detto cielo delle Stelle fisse o firmamento in quanto la posizione relativa delle stelle, a differenza di quella dei pianeti, non muta mai. Pertanto le stelle erano considerate come infisse nella sfera mobile e cristallina dell'ottavo cielo, tutte a uguale distanza dalla terra. Il cielo S. aveva per asse l'asse del mondo con un polo nell'emisfero boreale e l'altro in quello australe (cfr. Cv II XIV 1 mostraci l'uno de li poli [il boreale], e l'altro [l'australe] tiene ascoso, e § 9) e compiva un giro in 24 ore attorno alla terra (moto diurno) da oriente a occidente (§ 10 lo movimento ne lo quale ogni die si rivolve, e fa nova circulazione di punto in punto), trascinando in tale moto tutte le altre sfere sottostanti. Ma oltre il moto diurno, al cielo S. venne attribuito da Tolomeo - sulla base della precessione degli equinozi (v.) - un movimento lentissimo da occidente in oriente computato in un grado ogni cento anni, e svolgentesi intorno all'asse dell'eclittica (cioè lo movimento quasi insensibile che fa da occidente in oriente per uno grado in cento anni, § 11; e cfr. V 16 e XIV 1 mostraci uno suo movimento, da oriente ad occidente [il diurno], e un altro, che fa da occidente ad oriente, quasi ci tiene ascoso). Ma poiché questi due movimenti si ritenevano svolgersi in direzione contraria e intorno a poli diversi, il moto diurno da oriente a occidente fu attribuito da Tolomeo a una nona sfera (Primo Mobile o Cristallino, v.) come sfera motrice della sfera delle Stelle fisse (III 5) e di tutte le altre sfere e al cielo S. il moto insensibile di precessione (il moto precessionale essendo computato, generalmente, in un grado per secolo, per essere compiuto avrebbe dovuto impiegare 36.000 anni; di qui la denominazione del cielo S. come il cerchio che più tardi in cielo è torto, Pg XI 108; e cfr. Vn II 2). L'opinione di Aristotele secondo cui i cieli sarebbero soltanto otto, de li quali lo estremo, e che contenesse tutto, fosse quello dove le stelle fisse sono, cioè la sfera ottava, è ritenuta da D. un errore conseguente alla grossezza de li astrologi (Cv II III 3) ignari dei principii di filosofia (§ 5).
Ogni riferimento dantesco alle stelle (v.) andrà pertanto considerato come proprio dell'ottava sfera nella quale ogni stella è, appunto, ‛ infissa '. In particolare, sono da considerare quegli speciali aggregati stellari denominati costellazioni (v. COSTELLAZIONE, e voci relative) e soprattutto quelle comprese nella fascia dello Zodiaco (v.), della quale occupano, rispettivamente, le 12 ‛ case ', ognuna delle quali ha un'estensione di 30 gradi ed è situata 9 gradi a nord e 9 gradi a sud dell'eclittica (per le stelle prossime all'equatore vedi Cv II III 15). Altro aggregato stellare di rilievo è la Via Lattea o Galassia (v.), costituito da un ammasso stellare biancastro distribuito approssimativamente lungo il coluro dei solstizi, e quindi passante in prossimità dei poli del mondo.
Per D., l'insieme dei corpi stellari (calcolati in mille ventidue corpora di stelle dai savi d'Egitto, Cv II XIV 2) assolve la fondamentale funzione di ‛ specificare ' l'influsso celeste proveniente dalla luce divina. Il divino splendore che procede, come Verbo, da Dio, costituisce l'Empireo da cui tale splendore si trasmette al primo cielo mobile, dotato di vivere e potenza, cioè della capacità d'influire sul mondo sottostante. La virtù del Ptimo Mobile è ancora semplicissima e uniforme, e richiede perciò un principio differenziante che moltiplichi e specifichi tale virtù. Tale è il compito del cielo S.; esso infatti non è più uniforme nella sua sostanza, in quanto ogni stella costituisce un principio formale a sé stante. Ogni principio formale ha il compito di specificare e differenziare, in corrispondenza delle diverse essenze del mondo sottostante, la causalità o influenza universale che procede indistinta dal Primo Mobile. In tal senso ogni stella emana una propria influenza, formalmente determinata, che concorre alla qualificazione delle essenze del mondo sublunare. È in questa prospettiva che D. affronta e risolve il problema delle macchie lunari (v. LUNA) partendo dalla diversità dei volti della spera ottava (Pd II 64-66) che hanno la funzione di suddividere per diverse essenze la virtù del cielo empireo (vv. 115-117). Il ciel cui tanti lumi fanno bello diventa perciò il mediatore dell'influenza divina: le eterne idee, archetipi delle essenze mondane, che la causalità divina imprime in esso, esso a sua volta le ‛ suggella ' nella materia (vv. 130-148). Nella Quaestio è ripresa ancora la funzione causale del cielo S., con riferimento all'attrazione esercitata dalle stelle nell'elevazione della terra al di sopra delle acque (§§ 69-76).
In Cv II XIII 8, infine, D. istituisce un confronto tra l'ottava spera, cioè la Stellata, e la Fisica (v.) e Metafisica (v.), confronto che viene sviluppato in XIV 1-13. Il Cielo stellato può paragonarsi alla Fisica e alla Metafisica per il numero delle stelle e la Galassia, per i poli, e per i movimenti diurno e di precessione. Nel numero delle stelle (1022) è adombrato infatti il triplice movimento considerato dalla Fisica (il due riporta al moto locale, il venti a quello dell'alterazione e il mille a quello dell'accrescimento, §§ 2-4) mentre l'aggregato stellare della Galassia riporta alle proprietà della Metafisica. Come, infatti, la Galassia ci mostra l'effetto luminoso e indistinto di stelle che non si possono scorgere, così la Metafisica tratta delle prime sostanze, che non possiamo vedere direttamente ma solo intendere mediatamente attraverso l'atto speculativo della ragione (§§ 5-8). Nei poli del cielo S. sono per altro verso figurate le due scienze: in quello visibile - il settentrionale - sono significate le cose sensibili di cui tratta la Fisica, mentre in quello invisibile - quello meridionale - sono significate le cose che sono sanza materia, che non sono sensibili, di cui tratta la Metafisica (§ 9). Infine nel moto diurno è raffigurata la trasmutazione quotidiana delle cose corruttibili di cui si occupa la Fisica (§ 10) mentre in quello quasi insensibile precessionale sono raffigurate le cose incorruttibili che presero inizio da Dio e sono destinate all'eternità §§ 11-13). Il cielo S., al pari delle due scienze supreme della ragione naturale, è dunque il più lontano dalle contingenze del mondo sublunare (è infatti il cielo a noi profondo, Pd XXX 4), ed è quello che immette nell'eterna unità e uniformità del cielo Cristallino, prossimo all'eterna pace e perfezione del cielo Empireo. **
La rappresentazione dell'ottavo cielo, o cielo S. (Cv II III 7), in cui appaiono gli spiriti trionfanti, occupa i canti dal XXII (dal v. 100 in poi) al XXVII del Paradiso fino al v. 99, allorché il poeta lascia questo cielo per ascendere al cielo Cristallino o Primo Mobile.
La narrazione della salita al cielo S. s'inserisce nella descrizione che D. fa della celeste scala apparsa nel cielo di Saturno (v.): su quella scala, dietro a s. Benedetto e ad altri beati che si levano in alto, Beatrice spinge con un cenno D., che giunge così nel cielo delle Stelle fisse, e nel segno dei Gemelli, sotto l'influsso del quale era nato, dal quale riconosce di derivare il suo ingegno, e invoca virtù per l'estrema ascesa. Da questo altissimo cielo D., guardando in basso, osserva quanto piccola sia quella terra che fa per il suo possesso così feroce l'uomo; Beatrice mostra di attendere ansiosamente una visione, simile a uccello che aspetta l'alba; e D., portando gli occhi là dove ella li volge, contempla difatti poco dopo il trionfo di Cristo, celebrato da migliaia di lumi, da tutto il frutto raccolto dal Paradiso (la totalità dei santi - ritiene taluno - così come dall'ottava sfera deriva la totalità degl'influssi a tutte le altre sfere): lumi resi sfavillanti da un sole in cui traspare la persona di Cristo. Questo successivamente sparisce, mentre sul maggiore dei lumi rimasti, Maria, D. vede scendere, simile a facella, l'angelo Gabriele. S. Pietro esamina D. sul concetto, sul possesso, sulla sorgente, sulle prove di verità, sull'oggetto della fede, e, udita la risposta, lo approva. Apprestandosi all'esame sulla speranza intesa in senso teologico, D. è portato a esprimere anche quella reale speranza, che maggiormente occupa il suo cuore di uomo, il ritorno senza macchia, e anzi con onore (l'incoronamento come poeta o dotto), nella propria patria: s. Iacopo esamina quindi D. sul possesso, sulla sorgente, sull'oggetto della speranza, mentre successivamente s. Giovanni esamina D. sull'oggetto della carità e sugli stimoli che incitano a compierla. Appare Adamo (v.) che scioglie a D. taluni dubbi che riguardano la propria vicenda.
S. Pietro prorompe in un'invettiva contro Bonifacio VIII che usurpa in terra la sua sede (vacante agli occhi di Cristo); che ha fatto di Roma luogo di violenze e di vizi; che ha diviso in Parti politiche combattenti l'una contro l'altra il popolo cristiano; che vende privilegi; che lascerà la Chiesa a prelati ambiziosi quali Clemente V e Giovanni XXII: anche se la Provvidenza presto porrà riparo a tanto scempio. Tornano all'Empireo Pietro e gli altri beati: chiudendo la descrizione del cielo al modo con cui l'ha aperta, D. contempla di nuovo la misera e lontana terra.
La descrizione del cielo S. poeticamente si apre con un trepido appello del poeta, nel momento del suo più arduo impegno, alle forze che, alle origini della vita, egli ritiene abbiano donato alla sua mente le forme e le forze che questa ha poi rivelato: è la prima manifestazione di un continuo passaggio dal terreno al celeste e dal divino al terreno che pare contraddistinguere (assieme a quella che è stata chiamata la poesia dell'intelligenza) in modo particolarmente insistente questo gruppo di canti, tendenza che si esprime poco dopo in quella visione del mondo nella sua piccolezza e meschinità che sembra rappresentare una precisa presa di coscienza prima di una contemplazione suprema, la più lontana per purezza - protagonista Cristo - dalla terrestrità. Sul filo degli affetti segue, assai concreta, e insieme alta, la comparazione di Beatrice, in attesa di una mistica visione, con l'uccello che attende l'alba per provvedere ai figli amati; e, sempre sul filo di ferventi affetti, la descrizione dello slancio verso Maria, in prosecuzione di quel tema poetico mariano che dal II canto dell'Inferno giunge fino all'ultimo canto del Paradiso. La descrizione degli esami sui vari aspetti della fede, che potrebbe risultare aridamente intellettualistica, è trasfigurata dal senso solenne di certezza sulle verità rivelate, garantite dal luogo dove esse sono enunciate; dalla poetica escavazione delle esperienze psicologiche attraverso le quali si giunge alla dottrina, esperienze provate da D. lungo tutta una vita, e forse esaltate al momento in cui scrisse questi canti da una senile attività d'insegnamento: mentre non sono da scartare né la suggestiva ipotesi di una contrapposizione tra questo complesso di verità enunciate in un altissimo cielo e quelle che venivano diversamente rivelate sulla vetta del Purgatorio attraverso la processione, le visioni e le profezie; né l'idea che la lode a D. da parte del primo pontefice si ponga in voluto contrasto con l'inimicizia dell'ultimo, Bonifacio. Il confronto fra cielo e terra ha un altro momento di particolarmente commossa umanità nell'enunciazione della speranza, possibile testimonianza di un incipiente motivo umanistico, di un premio di gloria anche terrena, che accompagni quello ultraterreno; e un altro ancora nel contrasto tra la prolungata e gaudiosa visione in cui il legame tra luce, visione e canto (proprio di tutto il Paradiso) ha una sua espressione altissima, e l'invettiva assai cruda contro il presente pontificato: invettiva che si placa, con nuova efficace antitesi, in un'espressione suprema del desiderio di pace, che è nel poeta.
Bibl. - Tra le più importanti ‛ letture ' dei canti XXII-XXVII del Paradiso, si vedano in particolare: F. Pellegrini, Il c. XXIII, Firenze 1904; F. Romani, Il c. XXVII, ibid. 1904; N. Rodolico, Il c. XXV, ibid. 1906; A. Chiappelli, Il c. XXV, in Pagine di critica letteraria, ibid. 1911, 382-404; G. Giovannozzi, Il c. XXIV, ibid. 1912; E. Donadoni, Il c. XXVI, in " Leonardo " V (1929), rist. in Lett. dant. 1863 ss.; P.P. Trompeo, Il c. XXIII, in " Quaderni di Roma " III 1 (1948) 20-31 (rist. in Lett. dant. 1805 ss.); A. Chiari, Tre canti danteschi, Varese 1954; A. Camillucci, Il c. XXV, Torino 1959; I. Marchetti, Il c. XXIV, Firenze 1963; A. Ienni, Il c. XXIV, in Lett. dant. 1819 ss.; R.R. Bezzola, Il c. XXVII, ibid. 1887 ss.; G. Varanini, Il c. XXII, in Lect. Scaligera III 787 ss.; C.F. Goffis, Il c. XXIII, ibid. 821 ss.; U. Bosco, Il c. XXIII, Torino 1965 (rist. in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 342 ss.); M. Marcazzan, Il C. XXIV, in Lect. Scaligera III 859 ss.; M. Sansone, Il c. XXVII, ibid. 961 ss.; G. Margiotta, Il c. XXV, ibid. 893 ss.; S. Pasquazi, Il c. XXII, in All'eterno dal tempo, Firenze 1966.