ciclopi
. Personaggi della mitologia classica. I c. erano raffigurati come uomini giganteschi, con un unico occhio posto al centro della fronte.
La tradizione mitologica riferisce due distinte versioni. L'una parla di tre c., Sterope, Bronte e Piracmon, figli di Urano e della Terra (secondo alcuni mitografi medievali: di Nettuno e di Anfitrite), i quali fornivano i loro servigi di fabbri a Vulcano, negli antri dell'isola omonima (Aen. vici 416-422). In quella divina fucina si forgiavano i fulmini di Giove, ma talvolta si approntavano anche, su richiesta di un dio, armi di eccezionale bellezza (Aen. VIII 416-453: le armi di Enea; dove è evidente il parallelo con Il. XVII: le armi di Achille). Inoltre un rapido cenno di Aen. VI 630-631 attribuisce ai c. la costruzione delle alte mura dei Campi Elisi (non occorre rammentare la comune accezione di ‛ ciclopico ' attribuito a opere di particolare grandiosità): e sono forse da riferire a questa affermazione virgiliana certe espressioni dantesche, volutamente indeterminate, sull'artefice o gli artefici d'imponenti costruzioni infernali (If XV 12, XXXI 85). Alla figurazione dei c. come fabbri di Vulcano, che ritorna ripetutamente nei poemi latini (cfr. anche Met. I 259, m 305-306, ecc.), si rifà D. in If XIV 52-58: dove Capaneo ricorda l'aiuto offerto a Giove da Vulcano nella battaglia di Flegra contro i giganti e le molte folgori preparate in fretta per quell'occasione. È notevole però che D. ponga la fucina di Vulcano in Mongibello (cioè l'Etna; v. quanto si dice più innanzi), e non nell'isola eolia (come pure afferma chiaramente Virgilio), e che egli descriva gli aiutanti del fabbro divino mentre si avvicendano al lavoro a muta a muta: espressione che fa pensare a ben più di tre ciclopi.
L'altra versione è quella legata alla famosa avventura dell'Ulisse omerico: i c. erano un popolo di rozzi e feroci pastori, monocoli e di statura gigantesca, abitanti (presumibilmente) nelle isole vulcaniche del mar Tirreno. Troppo noto per essere qui riassunto è l'incontro dell'eroe greco con Polifemo; questa è una delle poche imprese dell'Ulisse omerico note a D., in quanto è ampiamente rinarrata nell'Eneide (III 570-683) e nelle Metamorfosi (XIV 160-222) da compagni del Laerziade. Secondo i poeti latini la terra dei c., numerosissimi, feroci ed empi (" gens nefanda "), è la Sicilia, anzi la parte etnea dell'isola (i c. sono sempre implicitamente in relazione con i vulcani), e perciò quei mostri sono detti " aetnaei " (Aen. III 678, XI 263; cfr. anche Met. XIV 188, ecc.). Nelle Metamorfosi sono altresì narrati l'innamoramento di Polifemo per Galatea e la conseguente barbara uccisione di Aci a opera del geloso ciclope (XIII 738-897); è ripetutamente scandita, con la crudeltà, l'empietà del mostro, dispregiatore degli dei (cfr. XIII 761, 843-844, 857), tanto che il ritratto ovidiano di Polifemo risulta anche di più disumana e orribile ferocia di quello virgiliano.
D. nella sua seconda Egloga - dove ricorda appunto i c. come abitanti la terra etnea (v. 27) e nomina Achemenide (il compagno di Ulisse che nel poema virgiliano narra a Enea come egli fosse stato abbandonato, per dimenticanza, nell'isola di Polifemo) e Galatea (vv. 76-80) sotto il nome del crudele e sanguinario Polifemo allude a persona del suo tempo, di cui egli mostra di temere la spietatezza. Per il complesso problema v. POLIFEMO.