Vedi CICERONE dell'anno: 1959 - 1994
CICERONE (Marcus Tullius Cicåro)
Oratore e uomo politico romano. Nato ad Arpino il 13 gennaio del 106 a. C., educato a Roma nell'oratoria da M. Antonio e L. Crasso, nel diritto dai due Scevola, nella filosofia dall'accademico Filone. Questore in Sicilia nel 75, console nel 63. Esiliato nel 58 rientrò in Roma nell'agosto del 57; proconsole in Cilicia nel 51, ritornato a Roma nel 50, fu ucciso dai sicarî di Antonio nella villa di Formia il 7 dicembre del 43 a. C. (Non esiste alcun elemento che consenta di porre in relazione con C. la tomba i cui grandiosi resti sorgono lungo la via Appia presso Formia).
Spirito colto, sensibile, brillante oratore, letterato, filosofo, accanto al fascino della poesia sentì anche quello dell'arte e le sue opere offrono una interessante documentazione sia del suo personale atteggiamento verso il problema artistico, sia dell'ambiente artistico di Roma antica.
I suoi lunghi viaggi in Grecia, in Asia, a Rodi tra il 79 e il 77 lo avevano messo a contatto di tanti monumenti e opere d'arte, e anche durante la questura in Sicilia egli ebbe modò di ammirare nei templi, nelle piazze, nelle case private molte altre testimonianze dell'arte greca, sicché quando nel 70 scrive le orazioni contro Verre, può trattare da conoscitore la materia artistica che costituisce il soggetto principale specialmente del iv libro, intitolato appunto De signis, illustrando e condannando le ruberie compiute dal suo cupido avversario.
Ci descrive così i famosi santuarî greci e asiatici con le loro statue, la ricca Sicilia piena di vasi corinzî, di argenterie, di gemme, di statue, di pitture, di opere di toreutica, l'agiata casa di Heius a Messina, piena di opere d'arte con statue di artisti celebri come Mirone, Policleto, Prassitele, le falere preziose possedute da Filarco di Centuripe, da Ariston di Palermo, da Cratippo di Tindari, l'anfora di Boethos presso Panfilo di Lilibeo, le coppe a navicella, la tavola di cedro appartenente a Q. Lutazio Diodoro a Lilibeo, coppe di Mentor, rhytà a testa di cavallo raccolti da Gneo Calidio, il turibolo di L. Papinio, l'argenteria cesellata di Gneo Pompeo a Tindari. Non v'era casa, egli dice, che non avesse piatti cesellati, patere, turiboli.
Attraverso le sue colorite e appassionate invettive si delinea tutta l'attività rapinatrice di Verre, il collezionista maniaco e senza scrupoli, che si serviva di due suoi emissarî Tlepolemos, modellatore in cera e toreuta, e Geron, pittore di Cibira nella Caria, che teneva al suo servizio come cani da caccia che fiutando scovavano e rapinavano per il padrone il prezioso bottino.
C. ci descrive il laboratorio di Siracusa dove, per otto mesi continui, Verre fece trasformare tutta l'argenteria rubata, fabbricando vasi d'oro e d'argento, inserendovi le decorazioni e gli emblèmata tolti alle suppellettili razziate.
C. oratore sottolinea nelle Verrine soprattutto la sanctitas di queste statue e di queste suppellettili dei templi e dei sacrarî domestici, insiste sulla profanazione, sulla religione violata più che sull'importanza artistica di questi oggetti.
L'etica romana di tradizione catoniana condannava l'ammirazione e la passione per le opere d'arte come indegna del civis Romanus e C. si sforza, nell'arringa contro Verre, di accentuare il crimine religioso più che quello artistico. Più volte studiatamente dice che, per se stessi, di questi oggetti d'arte non ne andrebbe tenuto gran conto e che i Romani, a differenza dei Greci, li considerano cose trascurabili, e giunge a scusarsi perfino di mostrare tanta conoscenza di opere e di artisti, finge di non ricordare il nome di Policleto; ma più passi dimostrano che di quelle opere d'arte egli si era interessato, che vi aveva posto gli occhi di ammiratore e di alcune dà qualche cenno descrittivo, come della Diana bronzea di Segesta, dell'Apollo bronzeo di Mirone e dell'Ercole di Agrigento, delle statue di Cerere e Libera di Enna, dei battenti decorati dell'Athenaion di Siracusa, i più belli e perfetti che avesse mai visto, del simulacro di Giove Imperatore di Siracusa, giungendo anche a spunti critici.
Ma questi scrupoli retorici e morali, in ossequio alla mentalità romana verso l'arte di C. avvocato, scompariranno nell'Epistolario e nelle lettere che scrisse tra il 68 e il 65 all'amico e consigliere Tito Pomponio Attico ad Atene. C. lo incaricava dell'acquisto di libri e di quadri e soprattutto di sculture per ornare le sue ville, il prediletto Tusculanum, comperato forse nel 68, dove si rifugiava negli otia, e il Formianum.
Pieno di ricordi di Atene, dà alle varie parti della villa e del giardino nomi greci, e vuole sedere all'ombra della statua di Platone e di Aristotele, in questo giardino "filosofico". Alla fine di novembre del 68, C. chiede ad Attico ornamenti adatti per il "ginnasio" del Tusculanum (i, 6, 2) e, sulla fine dell'anno, rinnova la preghiera di comprare tutto quello che ritenga adatto alla sua villa (i, 5, 6-7). Ai primi di febbraio del 67 lo informa di essersi impegnato a pagare all'intermediario L. Cincio 20.400 sesterzi (i, 7, 1), che paga nello stesso mese, per le statue di Megara e scrive che le erme di pentelico con teste bronzee, ricevute, lo riempiono di gioia e vuole ancora statue adatte al ginnasio e allo xisto, e confessa di essere tanto appassionato di queste cose da richiedere comprensione e aiuto dall'amico anche se gli altri lo disprezzeranno (i, 8, 2). Si rammarica vivamente quando le sculture arrivano sulla fine del 67 e gli affari lo trattengono in Roma impedendogli di correre a Gaeta a vederle (i, 3, 2). Scrive un mese dopo che Attico compri tutto quello che ritenga adatto alla "Accademia" e al ginnasio confidando nella sua cassaforte (i, 9, 2), e vuole ancora erme di Eracle e altri pezzi e rilievi da inserire nelle pareti dell'atrio e due puteali scolpiti (i, 10, 3). Ai primi del 66 l'arrivo di un'erma di Atena lo rallegra molto e attende nuove sculture, mentre altre sono giunte nel Formianum (i, 4, 3).
Ma se il collezionista è appassionato, il gusto è piuttosto generico e decorativo: si contenta di tutti i più tipici prodotti delle contemporanee officine neo-attiche, e si preoccupa più dei soggetti che della qualità. Protesta infatti nel 49 con l'amico Fabio Gallo per l'invio di statue di Baccanti che non sa dove mettere e non considera adatte alla sua villa; almeno se fossero state Muse avrebbero potuto ornare la biblioteca; e vuole quadretti dipinti per un'esedra (vii, 23, 1-3).
Scherzosamente illustra le teorie architettoniche del suo amico e costruttore dell'Amaltheum di Arpino, Cirus, con quella sulla visione delle immagini di Teofrasto (ii, 3, 2).
Se l'Epistolario ci rivela i suoi gusti di collezionista, se le orazioni mettono in luce la sua mentalità romana verso l'arte, le sue opere retoriche e filosofiche ci dànno qualche accenno alla sua posizione di fronte al problema estetico, sulla scia della sua formazione platonica e delle sue tendenze stoiche, con confronti, secondo un uso ormai tradizionale, fra la retorica e l'eloquenza e le arti figurative, la scultura e la pittura.
Nei Paradoxa (v, 2, 36-38) C. proclama un necessario distacco dagli allettamenti delle opere d'arte, che devono essere considerate non catene per gli uomini, ma trastulli da ragazzi, poiché è una stoltezza dilettarsi tanto di statue, di quadri, di argenterie cesellate, di vasi corinzî, di magnifici palazzi. Riconosce tuttavia la superiorità dell'attività artistica su quella manuale e vorrebbe essere piuttosto Fidia che un ottimo falegname (Brut., 73, 257).
Nel Brutus, scritto nel 46, facendo un'esposizione storica dell'eloquenza romana, confronta il suo sviluppo con quello della scultura e della pittura e, come poi Quintiliano, prendendo a criterio di giudizio il ritmo e l'imitazione della natura, probabilmente sulla scorta di scritti retorici ellenistici, giudica rigide le statue di Kanachos; dure quelle di Kalamis; non ancora imitanti pienamente la natura, ma più belle, quelle di Mirone; perfette quelle di Policleto. Così nei pittori che usarono solo quattro colori, Zeusi, Polignoto, Timanthes, si possono apprezzare il disegno e la forma, ma solo Nikomachos, Protogene e Apelle raggiungono la perfezione (Brut., xviii, 70). Nonostante il materialismo di concetti di questa visione evoluzionistica, C. in altri passi mostra maggiore comprensione per il fenomeno artistico.
L'artista segue nella creazione un modello ideale, formatosi nella sua fantasia, come Fidia per creare il suo Zeus (Or., ii, 8-10), e riconosce che, se pure l'arte si basa sulla mimesi, l'imitazione sola non basta a creare l'opera; occorre il freno dell'arte nella elaborazione del dato di natura (De or., iii, 57, 215-217), e non è il caso che produce l'arte. Dentro il blocco di marmo sono in potenza teste prassiteliche, ma l'immagine si forma nello spirito creatore di Prassitele (De div., i, 13, 23; ii, 21, 48-49).
La bellezza dell'opera d'arte si raggiunge come nel corpo umano "da una adeguata composizione delle varie parti, che attrae gli occhi e diletta in quanto tutte si armonizzano fra loro con una propria grazia" (De off., i, 28, 98; Tusc. disp., iv, 13, 31) raggiungendo la simmetria, l'euritmia, il decor, qualità artistica su cui più insiste C., come Quintiliano; concetto risalente allo stoicismo classicistico, insieme con l'utilitas (De or., iii, 46, 18o) particolarmente aderente alla visione romana. Una è l'arte, ma varie sono le personalità artistiche (De or., iii, 7, 26), e le grandi personalità non escludono le minori (Or., ii, 5); varî sono i generi, sicché in pittura gli uni si compiacciono di quadri confusi, rozzi, di tonalità smorta, altri invece di quelli nitidi, festosi, luminosi (Or., xi, 36). Solo la riproduzione meccanica può dar luogo a due opere uguali (Acad. lib., ii, 26, 85), e l'arte richiede una cultura (Acad. lib., ii, 47, 146; De or., i, 16, 73), così come per apprezzare l'arte ci vogliono occhi esercitati, esperienza ed esercizio (Acad. lib., ii, 7, 20). C. riconosce il valore del disegno dei pittori del primo classicismo, ma ne rileva la deficienza cromatica, l'uso di pochi colori, rispetto alla pittura più recente, tecnicamente più evoluta (Or., l, 169); peraltro se per bellezza e varietà di colori questi superano gli antichi, e ci attirano al primo aspetto, non ci dilettano a lungo, mentre si rimane avvinti dai quadri antichi proprio dal loro aspetto primitivo (De or., iii, 25, 98). C. disdegna le esuberanze coloristiche, lo stile floridus, ed è un seguace del giusto mezzo (Or., xxii, 73, 74). Come romano ammira poi l'architettura e parla con entusiasmo, nel 54, della ricostruzione della basilica Aemilia, della basilica Iulia, dei progetti di lavori per il nuovo Foro, per la ricostruzione dei Saepta e della Villa Pubblica (Ad Att., iv, 76, 8).
Tale ci appare C., appassionato collezionista di gusto borghese, cittadino romano con i suoi preconcetti etici verso l'arte e pur ardente filelleno, nella cui cultura e nella cui esperienza non manca una ammirazione per le creazioni artistiche dei maestri greci.
Bibl.: Tra l'ampia bibliografia su C. vanno ricordati per un più stretto riferimento al nostro argomento: E. Bertrand, Études sur la peinture et la critique d'art dans l'antiquité, Parigi 1893, e specialmente il capitolo Cicéron amateur et critique d'art, pp. 259-320; S. Valenti, C. collezionista, in Atene e Roma, serie III, anno IV, 1936, pp. 263-270. Inoltre G. Showerman, Cicero's Appreciation of Greek Art, in Proceed. of the Amer. Philol. Assoc., 1903, pp. XXXV-XXXVII; G. Boissier, Un amateur d'objets d'art à la fin de la république, Parigi 1885. Per i rapporti con Attico: G. Boissier, Cicéron et ses amis, 13a ed., Parigi 1905, pp. 129-166; M. A. Trouard, Cicero's Attitude towards the Greeks, Chicago 1942 (rec. in Journ. Roman Studies, XXXIV, 1944, p. 166); G. Becatti, Arte e gusto negli scrittori latini, Firenze 1951. Per l'orazione De signis vedi specialmente: Koenig, De Cicerone in Verrinis artis operum aestimatore et iudice, Dissertatio, 1863; W. Goehling, De Cicerone artis aestimatore, Dissertatio, Halle 1877; P. Cayrel, Autour du De Signis, in Mélanges d'archéologie et d'histoire de l'École franç. de Rome, 1933, pp. 120-155, e in particolare per il santuario di Heius a Messina: O. Rossbach, Das Sacrarium des Heius in Messana, in Rhein. Museum, LIV, 1899, pp. 277-284; per confronti di opere d'arte citate con moente vedi: S. Mirone, in Revue numismatique, 1920, p. 3 ss. e 1922, p. 3 ss. Le citazioni di opere d'arte sono raccolte anche in A. H. Griffiths, Temple-treasures. A Study Based on the Works of Cicero and the Fasti of Ovid, Filadelfia 1943, pp. 1-58 per Cicerone. Per gli influssi di Platone in C.: Th. B. De Graff, Plato in Cicero, in Classical Philology, 1940, pp. 143-153.
(G. Becatti)
Iconografia. - Le notizie degli autori antichi (Plut., Cic., 3, 4, 8; Cic., Brut., 91; As. Poll. ap. Senec., Suas., vii; Dio., 46, 48) sulla fisionomia di C. sono scarse e generiche. I ritratti dell'oratore erano numerosi nel mondo romano: una statua dorata gli fu dedicata dai capuani (Cic., In Pis., ii, 25), un'altra fu eretta in suo onore a Samo. Lo stesso C. ordinò che non gli fossero dedicate statue in Cilicia (Ad Attic., v, 21, 5). Alessandro Severo conservava l'immagine di C. insieme a quella di Virgilio in un larario (Hist. Aug., Alex. Sev., 31).
Un busto conservato nella Apsley House di Londra, contrassegnato dalla leggenda Cicero, ha permesso di riconoscere alcuni ritratti di C. conservati attraverso copie di età imperiale che possono essere suddivise in tre tipi. Il primo tipo che presenta una immagine idealizzata dell'oratore, può risalire ad un originale del 6o circa a. C. ed è documentato dalla replica di età traianea della Apsley House; il secondo tipo conosciuto attraverso una copia della seconda metà del II sec. nei Musei Vaticani, deriva da un archetipo bronzeo del 50 a. C. Il terzo tipo, testimoniato dalle repliche del Museo Capitolino e degli Uffizî, rispettivamente di età augustea e di età flavia da un originale marmoreo, rappresenta C. nella tarda maturità, attorno al 43 a. C., ed è opera di un ritrattista di impronta realistica attivo negli ambienti aulici romani, che si rifà ad alcune sculture di scuola lisippea dell'ellenismo medio.
L'attribuzione di C. ad una testa di terracotta dalla Collezione Loeb ora nei musei di Monaco, è molto incerta.
Bibl.: J. J. Bernoulli, Römische Ikonographie, I, Stoccarda 1882, p. 132 ss.; G. Lippold, in Röm. Mitt., XXXIII, 1918, p. 2; L. Laurand, in Rev. Ét. Lat., IX, 1931, p. 309 ss.; O. Vessberg, Studien zur Kunstgeschichte der römischen Republik, Lund-Lipsia 1941, p. 216 ss.; K. Schefold, Die Bildnisse der antiken Dichter, Redner und Denker, Basilea 1943, p. 174; B. Schweitzer, Die Bildniskunst der römischen Republik, Lipsia 1948, p. 91 ss. Ritratti su gemme: Furtwängler, Gemmen, tavv. XLVII, 13, 58; L, 3, 5; LXV, 36.
(A. Giuliano)