Cicerone tra retorica e politica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il nome di Cicerone evoca anzitutto una straordinaria capacità oratoria, un modello di lingua e stile rimasto punto di riferimento ineludibile nei secoli in cui l’Europa colta ha continuato a parlare latino. Ma Cicerone è anche molto altro: un infaticabile divulgatore della filosofia greca a Roma, un politico attivamente coinvolto nelle tormentate vicende del suo tempo, ma anche uno straordinario teorico della politica, un pensatore costantemente proteso alla ricerca di una via d’uscita dall’imbuto nel quale la repubblica aristocratica stava precipitando. Rilievo non minore ha infine il suo epistolario, il più ricco dell’Antichità, che consegna ai posteri un monumento di umanità e svela le pieghe più intime dell’uomo Cicerone.
Marco Tullio Cicerone appartiene al ceto equestre di Arpino, un centro del basso Lazio noto soprattutto per aver dato i natali a Gaio Mario, generale e politico di primissimo piano a cavallo fra II e I secolo a.C. Il futuro oratore riceve una formazione completa in ambito retorico e filosofico, viaggia in Grecia, frequenta i migliori maestri e intanto intreccia a Roma relazioni importanti all’interno dell’élite, il cui appoggio resta indispensabile per un homo novus, privo di ascendenze aristocratiche, ma deciso a intraprendere la carriera politica.
L’esordio oratorio di Cicerone avviene durante la dittatura ultra-oligarchica di Silla: il giovane avvocato non esita a prendere posizione contro faccendieri e arrivisti che si muovono intorno all’uomo forte del momento; e anche in seguito il regime di Silla resta un idolo polemico di Cicerone, politicamente moderato ma ostile a scorciatoie autoritarie. Nel 75 a.C. Cicerone esercita la questura a Lilibeo, in Sicilia, manifestando quelle doti di amministratore scrupoloso che gli guadagnano la riconoscenza dei provinciali; cosicché, quando nel 70 a.C. questi ultimi trascinano dinanzi al tribunale il corrotto governatore Gaio Verre, è a Cicerone che si rivolgono perché si faccia carico dell’accusa.
Il processo a Verre si risolve in una delle più brillanti affermazioni di Cicerone: le testimonianze raccolte dall’oratore a carico dell’ex governatore sono così gravi da suggerire a quest’ultimo di sottrarsi al processo e di scegliere piuttosto la via dell’esilio; Cicerone vuole però pubblicare ugualmente l’enorme massa di materiale probatorio da lui raccolta nell’ampio corpus delle Verrine, monumento di oratoria processuale e insieme manifesto politico contro le aberrazioni del governo provinciale, tema cui l’oratore resterà sempre sensibile.
Negli anni Sessanta la carriera di Cicerone prosegue rapidamente: edile nel 69 a.C., pretore nel 66 a.C., si schiera accanto a Gneo Pompeo, sillano della prima ora, console nel 70 a.C. e affermato generale, impegnato ora a rivendicare un comando straordinario che chiuda finalmente la partita con il re del Ponto Mitridate, da vent’anni spina nel fianco dei domini romani: a suo favore Cicerone pronuncia la sua prima orazione politica (la prolege Manilia o de imperio Cn.).
I due anni successivi sono un’accurata preparazione al consolato: intorno all’uomo nuovo di Arpino si coagula un vastissimo consenso, grazie anche ai diffusi timori per l’attività eversiva di Catilina, anch’egli un ex sillano, arricchitosi con le proscrizioni e poi caduto in miseria, del quale si sospetta che trami per impadronirsi manu militari del potere. Nel 63 a.C. Cicerone diventa console: ha 43 anni, l’età minima prevista per questa magistratura dalla legislazione sillana.
All’inizio dell’anno Cicerone pronuncia le orazioni contro la proposta di legge agraria del tribuno Rullo, uno dei ripetuti e fallimentari tentativi di redistribuzione delle terre pubbliche a favore dei nullatenenti, da sempre invisi all’aristocrazia possidente; soprattutto, il 63 a.C. è l’anno in cui scoppia l’affare Catilina.
Informato del piano eversivo da una soffiata, Cicerone reagisce in maniera estremamente energica: i complici di Catilina sono arrestati, il leader della congiura è costretto a rifugiarsi in Etruria, dove viene liquidato all’inizio del 62 a.C. Contemporaneamente, nelle quattro orazioni Catilinarie Cicerone denuncia al senato e al popolo il pericolo che incombe sulle istituzioni, comunica l’avvenuta scoperta della congiura e l’arresto dei principali adepti, si pronuncia a favore di una pena esemplare nei confronti dei catilinari: è l’apogeo di un consolato che per il resto della vita Cicerone esalterà “non senza una ragione, ma senza un limite”, come scrive un secolo dopo il filosofo Seneca.
Ma il momento di gloria dura poco: nella crisi sempre più grave della repubblica aristocratica i fatti prendono una piega che prima scavalca e poi travolge Cicerone. Nel 60 a.C. Cesare, Pompeo e Crasso stringono il patto noto come “primo triumvirato”; a quanto pare, a Cicerone è stata rivolta la proposta di entrare nell’accordo, ma questi avrebbe declinato l’offerta; di fatto, l’egemonia esercitata dai triumviri emargina il prestigioso consolare e infine ne provoca addirittura l’esilio, quando nel 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio vara una legge ad personam che commina l’esilio a chiunque abbia messo a morte senza processo un cittadino romano, come era accaduto nel caso dei catilinari. I 17 mesi trascorsi in Grecia sono il momento più buio nella vita di Cicerone; poi le evoluzioni del quadro politico fanno il gioco dell’oratore, esiliato per volontà di Cesare, deciso a coprirsi le spalle mentre lancia la sua campagna di conquista della Gallia, e richiamato per influenza di Pompeo, che assiste con preoccupazione al rafforzamento dello stesso Cesare e scorge in Cicerone un possibile alleato in vista della prevedibile rottura del patto triumvirale.
Al ritorno a Roma risalgono una serie di orazioni in cui Cicerone ringrazia senato e popolo per il richiamo e si batte per ottenere la restituzione della casa demolita all’indomani della sua partenza. Al 56 a.C. appartengono invece i due discorsi In difesa di Marco Celio e In difesa di Sestio: un gioiello il primo, in cui Cicerone riesce a trasformare un complesso intrigo internazionale in una meschina ripicca messa in atto contro Celio dalla sua ex amante, la bellissima e spregiudicata Clodia; un importante manifesto politico la Pro Sestio, nella quale Cicerone inserisce un breve ma succoso profilo di storia politica recente ed elabora l’ideale della concordia ordinum, l’auspicato consenso di tutti i ceti possidenti intorno alla difesa dell’ordine costituito.
Negli anni successivi, mentre le tensioni politiche scivolano lentamente verso la rottura fra Cesare e Pompeo, Cicerone si dedica prevalentemente all’attività letteraria. Nel 52 a.C. difende Milone dall’accusa di aver ucciso premeditatamente Clodio; l’orazione che leggiamo è un capolavoro di eloquenza, ma nella realtà Cicerone pronunciò un discorso balbettante e incompiuto in un tribunale blindato dai soldati di Pompeo, che quell’anno è “console senza collega”. Tra il 51 e il 50 a.C. uno sgradito ma provvidenziale governo provinciale porta Cicerone in Asia Minore; quando l’oratore torna a Roma, siamo ormai alla vigilia di una nuova guerra civile.
A gennaio del 49 a.C. Cesare varca il Rubicone, dando inizio allo scontro finale con Pompeo. Cicerone è lacerato dai dubbi: si schiera con quest’ultimo, ma non si nasconde che entrambi i contendenti mirano in realtà all’instaurazione di un potere personale. Perdonato da Cesare dopo la sconfitta dei pompeiani, Cicerone pronuncia ancora qualche orazione in difesa di ex pompeiani in cerca di grazia presso il dittatore; poi, all’indomani delle Idi di marzo – di cui qualcuno lo accusa di essere il mandante occulto – si lancia appassionatamente nella battaglia politica che gli costerà la vita.
L’obiettivo polemico di Cicerone è ora Marco Antonio, l’ex luogotenente di Cesare deciso a raccoglierne l’eredità politica: contro di lui l’anziano statista scaglia le 14 Filippiche, che richiamano nel nome i violenti discorsi pronunciati contro il re di Macedonia Filippo II dall’oratore ateniese Demostene.
Pur di sconfiggere l’odiato nemico, Cicerone è disposto a sostenere Ottaviano adottivo di Cesare che si presenta però, al suo esordio sulla scena politico-militare, come difensore delle ragioni del senato; la strategia sembra inizialmente dare i suoi frutti; ma nell’estate del 43 a.C. Ottaviano prima impone a mano armata al senato la sua nomina a console, poi si accorda con Antonio e Lepido, un altro ex cesariano, per varare il “secondo triumvirato”, non più patto clandestino tra potenti, ma magistratura quinquennale straordinaria. I triumviri esordiscono in pretto stile sillano stilando una nutrita lista di proscrizione aperta proprio dal nome di Cicerone, che Antonio odia e Ottaviano non ha potuto o voluto salvare. Il 7 dicembre del 43 a.C. i sicari raggiungono l’oratore in fuga sulla spiaggia di Gaeta; la testa e le mani vengono mozzate ed esposte su quella tribuna del Foro dove esattamente vent’anni prima Cicerone era stato salutato come salvatore della patria.
Cicerone è il massimo oratore latino di tutti i tempi: la prodigiosa versatilità linguistica, la vasta cultura, la straordinaria capacità di variare i toni, dall’ironia al pathos, dall’aggressione alla leggerezza salottiera e brillante, fanno di ogni discorso una piccola gemma, che trascende quasi sempre le sue immediate finalità giudiziarie o politiche.
Ma Cicerone è anche un teorico dell’oratoria: come in ambito politico così nel campo dell’eloquenza, esperienza concreta e riflessione intellettuale procedono di pari passo e si sostengono reciprocamente. Coevo all’esordio nel Foro è il De inventione, manuale in due libri consacrato alla prima delle attività oratorie, l’“invenzione” appunto, che consiste nella capacità di trovare gli argomenti più persuasivi per ogni genere di causa; altre opere di impianto tecnico-didattico risalgono invece ai momenti di inattività politica nella seconda metà degli anni Cinquanta o durante la dittatura cesariana: l’Orator discute di stili e compiti dell’oratoria e si segnala per un’ampia sezione sulle clausole ritmiche della prosa; il De optimo genere oratorum nasce come prefazione alla versione latina di un celebre discorso di Demostene, proposto come modello supremo di stile oratorio; le Partitiones oratoriae inscenano un dialogo sulle parti dell’orazione; i Topica sono relativi infine ai “luoghi comuni” cui l’oratore può attingere nella fase della invenzione.
Le due opere principali di Cicerone nel campo della trattatistica retorica sono però il De oratore e il Brutus. Il primo è un dialogo in tre libri composto nel 55 a.C. ma ambientato nel 91 a.C., alla vigilia della guerra sociale, e ne sono protagonisti i massimi oratori della generazione precedente a quella di Cicerone, Antonio e Crasso. Il De oratore è molte cose insieme: rievocazione di maestri celebri il cui ricordo rischia di appannarsi per la mancanza di testimonianze scritte sulla loro attività; quadro nostalgico di una repubblica ancora sana, in procinto di essere travolta dalla guerra civile tra Mario e Silla; manuale sulle parti dell’eloquenza, dall’invenzione alla disposizione delle parole, dallo stile alla memoria all’esecuzione orale del discorso; soprattutto, è un dialogo nel quale Cicerone tratteggia il proprio ideale del perfetto oratore: non solo un tecnico dell’eloquenza, o un mestierante dotato di un brillante talento naturale, ma un intellettuale a tutto campo, la cui arte si nutre di una cultura vasta, fatta di diritto, letteratura, filosofia, storia: un ideale che nel dialogo è difeso soprattutto da Crasso, ma che Cicerone ritiene incarnato in primo luogo da se stesso.
Il Brutus è invece una geniale storia della letteratura latina sub specie retorica: in un unico libro, composto nel 46 a.C. e dedicato al futuro cesaricida, Cicerone ripercorre vicende e figure dell’oratoria romana, dalle origini ai suoi tempi, grazie anche ad una preliminare attività di ricerca, raccolta e lettura di un materiale in larga parte disperso o raro. Il Brutus traccia una linea ascendente il cui vertice è costituito ancora una volta da Cicerone stesso: l’uno dopo l’altro si succedono i ritratti di decine di oratori, di ciascuno dei quali sono individuati con puntualità e acume caratteristiche, tratti stilistici, scelte letterarie.
Tra il 55 e il 51 a.C. Cicerone si dedica tra l’altro alla composizione del De re publica, la sua massima opera politica. La riflessione sulla migliore forma di governo e la classificazione delle diverse costituzioni avevano una lunga tradizione nel pensiero greco; Cicerone la conosce e la riprende, ma in forme e con fini diversi: il De re publica è un dialogo ambientato nel 129 a.C., cui prendono parte uomini come Scipione Emiliano e Gaio Lelio, campioni di sapienza politica e apertura culturale, ma la loro riflessione, piuttosto che trattare di modelli astratti, ripercorre la concreta vicenda storica di Roma e il graduale costruirsi della sua peculiare forma di governo; inoltre, il De re publica è anche un’opera militante, nella quale Cicerone intende prendere posizione sulla crisi della repubblica aristocratica e suggerire possibili vie per fuoriuscirne.
Ne risulta un trattato estremamente originale: Roma costituisce un esempio brillantemente realizzato di costituzione mista, fondato su un accorto equilibrio di poteri che garantisce ai ceti possidenti la guida dello stato, coinvolgendo le classi popolari ma insieme evitando che “quanti sono superiori per numero lo siano anche per il potere che esercitano”. Questa riflessione è svolta nei primi due libri, che possediamo quasi integralmente; pressoché totalmente perduti sono invece i libri dal terzo al quinto, in cui era tratteggiata l’immagine del princeps o rector rei publicae: una figura eminente, chiamata a guidare lo stato in un momento di difficoltà, ma sempre all’interno delle compatibilità repubblicane, come espressione dell’aristocrazia senatoria.
Il sesto e ultimo libro del De re publica si chiude infine con il cosiddetto Sogno di Scipione: il protagonista del dialogo riferisce di un sogno avuto vent’anni prima, nel quale il nonno Scipione Africano e il padre naturale Lucio Emilio Paolo gli additano l’eternità beata che attende quanti hanno operato in vita per difendere e ingrandire lo stato. Così l’antica dottrina platonica dell’immortalità dell’anima si coniuga con l’immagine di un aldilà costruito su misura per la classe dirigente di Roma. Più ristretto l’orizzonte del De legibus, di cui ci sono giunti tre libri sugli almeno cinque originari. Ambientato nello stesso anno 52 a.C. in cui viene composto, il trattato discute le leggi migliori, nel campo del diritto sacrale e di quello civile, dopo una premessa generale che illustra la dottrina della legge naturale e il suo rapporto con la norma positiva.
Almeno un cenno va fatto infine all’epistolario di Cicerone: un’opera immensa, che peraltro costituisce solo un frammento del totale originario, dato il naufragio di altre raccolte che ci sono note da citazioni antiche. A noi sono giunte circa 900 epistole, distinte in 16 libri di lettere ad Attico, l’amico e confidente di una vita, altrettanti di familiares, rivolte a congiunti, amici, colleghi, interlocutori vari, tre al fratello Quinto e due a Marco Bruto. Le lettere sono insieme una fonte storica (e linguistica sul latino colloquiale) di primissima mano, che ci mette in grado di seguire talora giorno per giorno gli eventi di un ventennio cruciale della storia di Roma come quello compreso fra il consolato e la morte di Cicerone, e un monumento di umanità, nel quale vanità, debolezze, aspirazioni e sentimenti dell’autore emergono con un’immediatezza impossibile nella stilizzazione dell’opera letteraria.