Cicerone e il lessico filosofico latino
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Cicerone ha avuto il merito di diffondere tra i Romani la filosofia ellenistica greca, ponendo le basi perché la filosofia non fosse più avvertita come un prodotto estraneo allo spirito romano. Con le sue opere egli ha creato una terminologia filosofica nuova in un linguaggio che mai era stato adattato a quest’uso. Egli è dunque una figura estremamente significativa dell’incontro tra la cultura romana e la filosofia greca, non soltanto perché è la fonte più importante d’informazione di questo evento, ma anche perché ha contribuito a determinarlo.
Cicerone nasce ad Arpino nel 106 a.C. da una famiglia agiata, ma non aristocratica. Il suo successo come uomo politico e oratore non è quindi dovuto né alla nobile nascita né alla ricchezza, ma alla sua educazione giuridica, retorica e filosofica. Egli compie a Roma il corso di studi di un giovane il cui obiettivo è dedicarsi alla vita politica e ben presto viene in contatto con la filosofia greca. In seguito alla guerra mitridatica dell’88 a.C., infatti, alcuni filosofi si erano rifugiati a Roma, suscitando nei giovani curiosità e interesse per la filosofia.
In questo periodo Cicerone ha l’opportunità di ascoltare le lezioni di Fedro, unico filosofo epicureo su cui egli esprime un giudizio positivo; di ospitare nella sua casa, secondo un costume diffuso tra i Romani colti, lo stoico Diodoto, da cui apprende la dialettica, e di frequentare l’accademico Filone di Larissa, al cui insegnamento rimarrà fedele per tutto il corso della vita (Brutus, 306). Incontra anche lo stoico Posidonio che si trova a Roma per un’ambasceria e che egli avrà occasione di riascoltare in seguito a Rodi durante il suo viaggio di studi.
Dal 79 al 77 a.C. per completare la formazione retorica e filosofica Cicerone, insieme al fratello Quinto e all’amico Pomponio Attico, si reca prima ad Atene dove frequenta le lezioni dell’epicureo Zenone di Sidone e di Antioco di Ascalona, rappresentante dell’Accademia ormai stoicizzata e che eserciterà una notevole influenza su di lui soprattutto in campo etico; poi in Asia Minore e a Rodi, dove segue le lezioni del retore Apollonio Molone, di cui si professerà allievo. Si può dire quindi che egli è in possesso di una buona formazione retorica e filosofica.
Cicerone ha letto e studiato i dialoghi di Platone, conosce le opere pubblicate di Aristotele e ha letto direttamente molte opere dei filosofi precedenti. Aristotele è per lui un modello soprattutto per la metodologia dialettica e per l’arte retorica, che egli fa risalire all’Accademia oltre che al Peripato. Del resto Cicerone, come ogni ambizioso romano della sua epoca, aspira ad apprendere le tecniche argomentative, indispensabili per la vita politica. Il suo interesse per la retorica trova conferma e si approfondisce frequentando le lezioni dell’accademico Filone di Larissa. Poiché la conoscenza certa o non è attingibile o è estremamente difficile da raggiungere, Filone riteneva che ci si dovesse attenere a ciò che è probabile, o persuasivo. Si deve quindi accogliere provvisoriamente qualunque punto di vista, ma la provvisorietà delle opinioni richiede che esse siano sottoposte a critica argomentando pro e contro. Cicerone considera questa tecnica argomentativa “maxima dicendi exercitatio” (Tusculanae disputationes, II, 9) e quindi il fondamento della retorica ma anche dell’argomentazione filosofica.
Nel De oratore egli afferma infatti che la vera arte retorica deve essere nutrita di vasta cultura letteraria, storica e filosofica. Platone rappresenta per lui la somma autorità, come si ricava da numerose affermazioni sia nelle sue opere che nelle lettere. Egli stesso ricorda nel De oratore (I, 47) di aver letto con molta cura il Gorgia quando era ad Atene e inoltre ha anche tradotto il Protagora e il Timeo. Si tratta di un Platone mediato attraverso l’interpretazione delle scuole ellenistiche, soprattutto degli stoici Panezio e Posidonio e della tradizione platonica, all’interno della quale proprio i suoi due maestri Filone di Larissa e Antioco di Ascalona, pur ritenendosi entrambi eredi fedeli del pensiero di Platone, ne davano interpretazioni opposte: in chiave scettica il primo, dogmatica il secondo. Per comprendere dunque pienamente l’opera di Cicerone è necessario considerare che il suo interesse primario è integrare la filosofia con la politica e la retorica.
Ispirandosi a Platone come modello e imitandone la forma dialogica, Cicerone scrive il De re publica e il De legibus, i cui titoli riprendono significativamente quelli di due dialoghi platonici, ma che nel loro impianto sono le opere politiche più genuinamente romane. È stato suggerito da alcuni studiosi che Cicerone aspiri a diventare il “Platone romano”. Egli è infatti convinto che i Romani siano superiori ai Greci per i costumi, le istituzioni civili, l’organizzazione dello stato e “quanto ai risultati ottenuti con le doti di natura”, ma riconosce la superiorità dei Greci in campo filosofico. Le tradizioni e i costumi della civitas sono dunque il paradigma alla luce del quale accettare o respingere i sistemi filosofici greci, e non viceversa. Nel De re publica egli si dedica a un’opera di fusione della tradizione e della cultura romana con la filosofia greca allo scopo di dimostrare che la costituzione romana, così come è stata elaborata dai maiores, è di gran lunga la migliore.
Egli afferma con molta chiarezza che il mos maiorum è la fonte della vera conoscenza: “nulla si dice dai filosofi, di quanto almeno si dice esattamente e onestamente, che non sia già stato attuato e confermato dai legislatori degli stati”. La fonte della verità e della conoscenza è dunque nella storia della res publica romana. Nonostante il suo interesse per la filosofia si sia manifestato fin dalla giovinezza e sia rimasto costante per tutto il corso della vita, Cicerone dedica soltanto gli ultimi anni, dal 46 al 44 a.C., alla stesura delle opere filosofiche, ovvero quando è costretto ad abbandonare l’impegno politico sotto la dittatura di Cesare. Egli si propone di scrivere una “enciclopedia filosofica” in latino per rendere un servigio ai suoi concittadini e continuare ad agire a vantaggio dello stato. Il suo vanto è di mettere a disposizione dei Romani opere filosofiche scritte in latino e non in greco.
Al principio del secondo libro del De divinatione (II, 1-6), Cicerone presenta le sue opere filosofiche come un programma coerente e unitario e ne espone sinteticamente il contenuto: l’Hortensius è un’esortazione alla filosofia sul modello del Protreptico di Aristotele; i Libri Academici espongono la filosofia dell’Accademia scettica, “l’indirizzo filosofico meno arrogante e più coerente ed elegante”; le Tusculanae disputationes si occupano del valore terapeutico della filosofia in vista del raggiungimento della felicità; il De natura deorum, a cui si aggiungono il De divinatione e il De fato (che ancora non ha scritto, ma che si ripromette di scrivere) completano la discussione delle teorie fisiche e teologiche. Annovera tra i dialoghi filosofici il Cato Maior e il Laelius che trattano i temi etici della vecchiaia e dell’amicizia. E soprattutto egli rivendica con orgoglio l’appartenenza alla filosofia anche delle sue tre opere retoriche più importanti, il De oratore, il Brutus e l’Orator. L’idea basilare che sottostà al suo programma è che la filosofia romana ha bisogno dell’eloquenza e dell’esperienza dello stesso Cicerone, come egli dichiara nelle Tusculanae disputationes (I, 5), dove si attribuisce il merito di dare “vita e splendore alla filosofia”, che fino ad allora era stata trascurata dai Romani. Egli è il primo a diffondere in latino la filosofia dell’Accademia scettica di cui è seguace, componendo i Libri Academici, che purtroppo in parte sono andati perduti, ma che sono l’unica fonte di informazione del dibattito sorto all’interno dell’Accademia tra i suoi due maestri, Filone di Larissa e Antioco di Ascalona.
La sua adesione allo scetticismo dell’Accademia e la scelta della forma dialogica gli permettono di esporre i principi delle più importanti filosofie dell’età ellenistica, mettendoli a confronto e scegliendo per ciascuna di esse ciò che gli sembra essere migliore; mentre, al contempo, l’atteggiamento di distacco epistemologico, proprio del probabilismo filoniano, gli impedisce di riconoscerne la verità. Il De finibus bonorum et malorum, che espone le dottrine etiche, e il De natura deorum, che tratta delle teorie teologiche offrono esempi significativi della metodologia dialettica di argomentare pro e contro, prediletta da Cicerone. I portavoce delle diverse scuole filosofiche, infatti, espongono di volta in volta i principi della loro dottrina e sono sottoposti a critica. Ma Cicerone è convinto che solo in questo modo sia possibile raggiungere ciò che si approssima maggiormente al vero. Questo atteggiamento epistemologico non gli impedisce dunque di concludere che talvolta le altre scuole filosofiche possano sostenere punti di vista più “probabili” e quindi di accoglierli. Anche nel De officiis, che è un trattato di etica politica e sociale di carattere dogmatico indirizzato al figlio Marco, Cicerone segue la dottrina stoica ispirandosi a Panezio, ma si concede la libertà, in quanto accademico scettico, di adottare le argomentazioni più persuasive sull’argomento. Il De officiis non è quindi una traduzione del trattato di Panezio, ma piuttosto una rielaborazione originale.
Cicerone si pone come obiettivo di diffondere tra i suoi concittadini la filosofia ellenistica greca di cui rimane a tutt’oggi una fonte imprescindibile di informazione. La sua produzione filosofica ha quindi il carattere di un resoconto introduttivo dei temi fondamentali della filosofia ellenistica – epistemologia, etica, teologia – che egli presenta secondo la tecnica accademica dell’argomentare pro e contro, lasciando così al lettore il giudizio finale. Cicerone è consapevole di non elaborare una filosofia originale e ammette continuamente la sua dipendenza dai modelli greci, anche se dichiara di non fare una semplice opera di traduzione (De finibus, I, 1-6). Ma sarebbe fuorviante prendere alla lettera le espressioni di modestia quando definisce i suoi scritti filosofici come apographa (Epistula ad Atticum, XII, 52, 3) perché altrove egli ammette che quelle opere gli hanno richiesto un lavoro enorme. Nei prologhi alle sue opere filosofiche egli rivendica il merito di esporre le diverse opinioni filosofiche secondo la sua personale interpretazione, rilevandone pregi e debolezze, e arricchendole con le allusioni costanti alla storia e alla letteratura romana. Alla base del modo di intendere la diffusione della filosofia di Cicerone vi è l’idea che i Romani colti sappiano leggere e parlare il greco e quindi siano bilingui.
È per questa ragione che egli sente la necessità di giustificare la sua opera di traduttore e al contempo di divulgatore della filosofia greca rispondendo all’obiezione, fatta sollevare da Varrone negli Academici (I, 8), che sia inutile scrivere opere filosofiche in latino, dal momento che coloro che si interessano alla filosofia sono in grado di leggere il greco e che la filosofia è indissolubilmente legata alla lingua greca. Nel De finibus (I, 6) egli pone la stessa domanda: “Quali ragioni ci sono per preferire i testi greci alle opere latine scritte in un bello stile e che non sono semplici traduzioni dal greco?” E la risposta è racchiusa nella lode che egli rivolge a Catone (e quindi implicitamente a se stesso), a cui riconosce il merito di “insegnare alla filosofia a parlare il latino” (III, 40). Del resto il dibattito sull’opportunità di filosofare in latino è centrale all’epoca di Cicerone ed è stato affrontato anche da Lucrezio, il quale aveva espresso serie riserve nei confronti del latino. Lucrezio riteneva infatti che il latino, a causa “della povertà della lingua” e per la novità del contenuto filosofico (propter aegestatem linguae et rerum novitatem), non fosse in grado di esprimere i concetti della filosofia epicurea in tutta la sua pienezza. Per questa ragione egli si vanta di essere il primo ad aver esposto in lingua latina la dottrina epicurea (V, 335-337). Al contrario, Cicerone rivendica con forza la capacità del latino di riferire un pensiero filosofico complesso. Egli, che aveva criticato gli epicurei Amafinio e Catio per aver tentato di tradurre in latino in modo inefficace gli “atomi” di Epicuro, l’uno con il termine corpuscula, l’altro con il termine spectra (Academici, I, 5-6; Epistula ad familiares, XV, 16), non cessa di affermare la superiorità del latino sul greco “per la ricchezza del lessico” (De finibus, III, 5; cfr. anche De natura deorum, I, 8; Tusculanae disputationes, III, 10).
Cicerone è ben consapevole dell’importanza della scelta delle parole quando si deve tradurre in un’altra lingua un concetto filosofico e riportare con fedeltà e correttezza una dottrina. Ma proprio per questa ragione è altrettanto conscio della rilevanza del compito che si è prefisso, dal momento che la lingua latina, pur essendo molto ricca, non sempre dispone di termini tecnici in grado di rendere il significato di quelli greci. Ed egli colma questa carenza anche coniando parole nuove che siano comprensibili e accettabili per coloro che parlano latino. A proposito della traduzione in latino del termine filosofico katalepton con comprehendibile, di cui è un calco, Cicerone chiede ai suoi lettori: Feretis haec (Academici, I, 41), perché si tratta di un vocabolario filosofico già ostico in greco. Non meno impegnativa e incerta è la traduzione in latino del termine tecnico stoico kathekon con officium, a cui Cicerone accenna più volte nelle Lettere ad Attico (XVI, 11, 4; 14, 3). Nel proporre ai Romani la filosofia greca egli ricorre talvolta all’uso di un termine equivalente e meno tecnico di quello greco, o a più parole per rendere il significato di una singola parola greca, o allo stesso termine greco se l’equivalente non ricorre in latino (De finibus, III, 15).
Plutarco nella Vita di Cicerone (40, 2) racconta: “Fu lui, a quanto dicono, che per primo introdusse o diffuse tra i Romani nomi equivalenti a phantasia, sunkatathesis, epoche, atomon ameres, kenon e molti altri simili. Per renderli comprensibili e facili da memorizzare s’ingegnò di comporre i nuovi vocaboli in parte mediante metafore e in parte mediante altre parole già familiari ai Romani”. Molti termini coniati da Cicerone in latino, qualitas, perceptio, probabilitas, evidentia, moralis, indifferens, si sono affermati nel linguaggio filosofico segnandone la storia. Cicerone è consapevole della difficoltà di adattare alla cultura latina la filosofia, che è una creazione greca, e riconosce che una materia così importante richiede eleganza ed efficacia nelle espressioni. L’obiettivo di Cicerone è dunque di esporre in uno stile elegante le dottrine che i Greci hanno espresso spesso in un linguaggio tecnico e in modo oscuro. Nel III libro del De finibus egli rivolge questo rimprovero soprattutto all’aridità e all’astrusità del linguaggio filosofico stoico. L’obscuritas è il più grave limite in un discorso, sia di un oratore che di un filosofo. Come ricorda Plutarco (Vita di Cicerone, 32, 6), Cicerone voleva “che i suoi amici non lo chiamassero oratore, ma filosofo perché egli aveva scelto la filosofia come sua occupazione primaria, mentre si serviva dell’oratoria come di uno strumento per i suoi scopi, solo quando faceva politica”. Ma pur ammettendo la differenza tra la filosofia e la retorica, Cicerone è convinto dell’utilità che l’oratore e il filosofo si riuniscano in un’unica persona come in Platone, il suo più alto modello letterario. Questa convinzione si riflette nella ricchezza linguistica della sua prosa filosofica, di cui egli si considera il fondatore nella lingua latina. In questo senso le parole indirizzate ad Attico a conclusione della stesura dei Libri Academici rispecchiano sinceramente la sua autostima e un autentico compiacimento per la sua opera: “I libri mi sono riusciti così bene che, se non mi inganna il mio amor proprio, non si trova in greco niente di simile in questo genere” (Epistula ad Atticum, XIII, 13, 1). Poiché spesso si è letto e talvolta si legge ancora Cicerone solo come fonte di informazione della filosofia greca, si finisce per non leggere nella loro interezza le sue opere filosofiche e quindi per non comprenderle. Come ha sostenuto Reid, uno dei maggiori studiosi di Cicerone, se possedessimo gli originali greci, le mancanze o i fraintendimenti che si rimproverano a Cicerone sarebbero fortemente ridimensionati e soprattutto lo stile delle sue opere filosofiche risulterebbe vincitore dal confronto.