Ciacco
. Questo nome, per i lettori dell'Inferno, è proprio del personaggio centrale del canto VI, il solo che fra i golosi del terzo cerchio si faccia vivo con Dante. Senza cognome, senza famiglia, senza professione, senza storia alcuna. L'appellativo Ciacco è si può dire eccezionale: allo stato attuale delle ricerche si ha menzione di un C. di Buoninsegna, in un documento del 1264; di un Tuccio di C., del popolo di San Pier Maggiore, nominato " sindaco per la locazione del carcere dei Magnati " nel 1293; di un C. di Pietro non ulteriormente noto (cfr. Torraca, ad l.); e infine si conosce l'autore di due contrasti, Giema laziosa e Part'io mi cavalcava (cod. Vaticano 3793), C. dell'Anguillaia, che secondo alcuni critici potrebbe identificarsi col C. di D.: ma è pura illazione non sostenuta da alcuna prova. Occorre inoltre aggiungere, per completezza, che Guccio de' Tarlati, personaggio cui D. accenna senza nominarlo (Pg VI 15), è denominato Giaccio dal Buti, e poi dal Vellutello e dal Daniello; Ciacco dal Landino; ma deve trattarsi con ogni probabilità di errore.
Qualche vecchio commentatore considera ‛ Ciacco ' come un nome di battesimo, o almeno come una forma abbreviata e familiare. Si aggiunge pure che ' Ciacco ' potrebbe essere un riflesso del francese Jacques. Ma se è sempre lecito supporre una moda venuta dal di fuori, dunque una ricerca più o meno pedantesca, se ne dovrebbero trovare parecchi esempi contemporanei. Del resto questa ipotesi si accorda male con una pronunzia visibilmente volgare (consonante schiacciata). Sicché il prestito risulta assai dubbio.
Se invece è una variante del nome ‛ Iacopo ', ‛ Iacomo ', Giacomo ', che è il più frequente dei nomi di battesimo a Firenze secondo O. Brattò (Il libro di Montaperti; e tutto sommato l'aveva osservato D.: cfr. Pd XXIX 103), obietteremo che nessuno degli ipocoristici di ‛ Giacomo ' presenta l'iniziale C sorda, né la postonica cc doppia, ma il radicale vien reso con suoni più scorrevoli: Iaco, Lapo... (L'equivalenza Ciapus / lacobus addotta da O. Brattò è un caso di consonantismo tutto diverso, sincope con assimilazione regressiva, che non entra qui).
Ipotesi per ipotesi: C. potrebbe venir da tutt'altro nome, mal riconosciuto: alterato secondo l'istinto popolare, il quale segue certe vie mutevoli; per esempio: a) pura e semplice aferesi, tipo Drea, Nardo; b) contrazione della consonante iniziale con le sillabe finali, tipo Gianni, Bista, Bice; c) abbreviatura del tipo a con aggiunta, dietro la nuova iniziale, di una desinenza alterativa, tipo Cencio, Duccio, Ghino; d) contrazione di una consonante iniziale, o interna, o magari convenzionale, con la desinenza primitiva o alterativa, tipi: Lello / Lionello; o Baccio / Umbertaccio; o Beco / Domenico, Titta, ecc. Stante questo, nel nome Ciacco possiamo in primo luogo considerare il C come l'iniziale vera (Ciro, Cesario...), o come una protonica interna (Marcello), o meglio come una postonica (Lucio, Felice), ripresa nel derivato per iniziale e protonica; in secondo luogo, considerare la desinenza come uguale a quella di Petracco, Giannacco, Folcacc[hiero]. Quindi: [Feli]ciacco, [Lu]ciacco?
Ci sarebbe così da paragonar ‛ Ciacco ' a un altro nome, insieme dantesco e boccaccesco, quello di Tacco, ossia Bertacco (Umberto, Alberto?); e allora il suddetto C. dei Tarlati, o Guccio che sia, potrebb'essere un ex-Arrigo ribattezzato dapprima Gucciacco.
Così par veramente inutile andare a cercar il modello francese Jacques. Molto probabilmente, invece, ‛ Ciacco ' non era un nome, ma un soprannome. Il modo stesso in cui vien presentato dal personaggio che lo porta (Voi cittadini mi chiamaste Ciacco, If VI 52) dà a intendere che tal nomignolo gli è venuto molto tempo dopo il battesimo, non dal suo padrino, ma dai suoi compagni.
Da questo verso, G. Poletto (Dizionario dant., sub. v.) traeva la conclusione che C. era nato fuori di Firenze, poiché sembra che subito si voglia appartare dai ‛ cittadini '. Risponderemo che i lettori, in via teorica, non sospettano secondi fini sotto certi giri come Stazio la gente ancor di là mi noma oppure Folco mi disse quella gente a cui / fu noto il nome mio (Pg XXI 91; Pd IX 94-95). E in pratica poi, l'uomo C. può contrastare con la maggioranza dei suoi concittadini per molti altri riguardi che il luogo della nàscita. L'Alighieri si diceva Florentinus natione, non moribus. L'ideale del mos florentinus per D., e di certo anche per C., era il principio assoluto di rifiutare i partiti, che uccidono Firenze. Conviene intendere nel medesimo senso il possessivo la tua città...: una condanna firmata da D. stesso.
I Fiorentini sono beffardi, e volentieri rilevano le mende, morali o fisiche, dei loro vicini e familiari. Il più brutto ritratto che abbiamo di D. è tracciato dal suo caro amico Forese. Più di un commentatore - ma nessuno della prima generazione - ha visto nel nome di C. un simbolo di golosità e ingordigia. Verso la metà del Trecento Guido da Pisa scriveva: " Ciaccus lingua tusca porcum sonat; nam gulosus per peccatum gulae porci actibus similatur " (codice Condé, foglio 67 r); e Benvenuto, più dettagliatamente: " est nomen consequens rei. Ciachus enim dicitur quasi edens, idest vocans cibos ".
Però sarebbe utile sapere a che data un villano - o forse il suo signore, più o meno letterato - abbia avuto per primo l'idea di applicare al maiale il nome di ‛ Ciacco '. Sappiamo, sì, che dopo D. si è parlato a quel modo, ma non abbiamo nessun esempio di un'usanza popolare più antica. Bastava forse che il C. di D. fosse una volta preso come tipo della voracità, per far nascere un uso proverbiale anche fra la gente di campagna: e perché no, se già i fabbri e gli asinai cantavano " il Dante " (Sacchetti, CXIV-CXV)?. Se no, parrebbe strano veramente che fino alla metà del Trecento nessuno abbia segnalato il preteso valore di ' ciacco' nome comune: né le chiose anonime Selmi, né i figli del poeta, né ser Graziolo o Iacopo della Lana o l'Ottimo; né soprattutto il Boccaccio, che aveva l'occasione bella quando scrisse: " essi giacciono sopra il suolo... marcio... non altrimenti che 'l porco giaccia nel loto " (ediz. Padoan, VI II 43, p. 375), tema ripreso da Benvenuto e dall'Anonimo. È probabile che la traduzione sommaria ‛ ciacco ' = ‛ porco ' non sia altro che il corollario largo, inventivo, di un semplice fatto notato dal Fanfani e poi da Policarpo Petrocchi: " Nella montagna pistoiese, quando chiamano il porco e lo allettano [dicono] nino nino, ciacco ciacco ". Ma ‛ nino nino ' non è sinonimo di ‛ porco ': perché vedere un sinonimo in ‛ ciacco ciacco '? il contadino usa allora un'onomatopea, come quando richiama le pecore sbrancate ‛ ció ció ', o come si chiamano al becchime i pulcini ‛ pio pio ': tale non è il loro nome.
L'equivalenza ‛ ciacco ' = ‛ porco ' pareva assurda al Chimenz. La miglior obiezione che le si possa fare è ben riassunta dal Sapegno: D. qui ripete questo nome " con parole in cui non è nulla di sprezzante, sì anzi una sfumatura di compassione " (cfr. Vallone, p. 97). In questo caso, non è il vero nome del personaggio, come ‛ Bicci ' non è il vero nome di Forese Donati.
Ultima ipotesi: ‛ Ciacco ' potrebbe definire un carattere fisico, dicevamo. Il verbo ‛ acciaccare ' significa " ammaccare ", " schiacciare "; il piatto di una mano che si abbatte fa ‛ ciacche '. Chi sa che il fiorentino C., semplicemente, non avesse il naso rincagnato? E proprio questa la chiosa del Dizionario Etimologico Italiano dopo l'esempio " naso ciacco ". Basta l'uso ripetuto a smussar l'ironia, in tutti i nomignoli.
Più precisamente la forma ciacco' potrebbe esser parallela a ‛ placc(a) ' - e si pensi al francese plaquer - come ‛ cianca ' è parallelo a ‛ planca ', o ‛ ciastra ' a ‛ piastra ' (Dizionario Etimol. Ital.). Così pure in siciliano ‛ ciuri ' = florem; ‛ ciumi ' (Eneas ‛ chumi ') = flumen; e cfr. lo spagnolo chato, " piatto ", " camuso ".
Se ambiguo è il nome di C., può sconcertare anche la sua figura scenica: non forse per il simbolo immediato che egli segna nell'Infe rno - il peccato della gola - ma per un secondo aspetto più profondo, ed essenziale, cioè la dignità morale che l'amicizia e direi la stima di D. gli conferiscono.
Il peccato della gola è uno dei più visibili e dei più frequenti. Invece è di certo il meno poetico, il meno ricco di colori, il meno ‛ interessante ' dei sette. La lussuria può riuscir drammatica o romanzesca, l'avarizia cupamente comica, l'ira tragica e qualche volta santa. La golosità, per lo più, sembra un male benigno; ma le accade di esser ripugnante; e proprio schifosa è la pittura dei vv. 7-12, dove D. volge in crudo contrapasso il versetto d'Isaia 28, 8 " Omnes enim mensae repletae sunt vomitu sordiumque, ita ut non esset ultra locus ".
Che C. sia stato, in Firenze, famoso per la sua golosità, lo possiamo credere sull'autorità di D.; Boccaccio poi, se a bella posta copia D. nell'espressione " uno da tutti chiamato Ciacco " (Dec. IX 8 4; v. ivi la nota di V. Branca), doveva di sicuro a una voce pubblica largamente diffusa certi particolari che egli aggiunge: " e non possendo la sua possibilità sostenere le spese che la sua ghiottoneria richiedea, essendo per altro assai costumato, e tutto pieno di belli e di piacevoli motti, si diede a essere non del tutto uom di corte, ma morditore, e ad usare con coloro che ricchi erano e di mangiare delle buone cose si dilettavano ": qui ‛ morditore ' equivale a censore dei costumi e dimostra che la sua ironia, per chi la sapesse intendere, prendeva talvolta il tono del sarcasmo. Il Boccaccio precisa ulteriormente (ediz. Padoan, VI 125, p. 350) che C. " era costumato uomo... ed eloquente... e di buon sentimento "; questi ultimi tratti avvalorano la parte di savio parlatore, anzi profeta fra poco, di cui D. l'ha incaricato.
Perciò non si saprebbe vedere in C. uno spirito volgare, un essere che vive solo " per la trippa ". E insomma, forse che egli è povero, o troppo scapigliato, e più spesso famelico che ghiottone di natura? Se D. ha scelto lui come personaggio principale del canto VI, vuol dire che egli ha il suo posto, sì, nel cerchio dei golosi, ma vuol dire anche, e più probabilmente, che egli è in grado di far sapere certe cose che un altro non avrebbe saputo dire, né avrebbe autorità per dire.
Già in tutta la tradizione letteraria del Medioevo - novelle, sirventesi, romanzi cavallereschi, anche canzoni - l'avidità sotto tutte le sue forme, e anzitutto sotto forma di golosità o ingluvie, ha per tipo costante il giullare o il buffone, e il suo cugino l' ‛ uomo di corte ', il quale sarebbe piuttosto un dilettante che un professionista. Era C. " non del tutto uom di corte ", ma il Boccaccio spiega molto bene che per le sue doti di socievolezza e allegria, tutti i padroni di case per bene, e i loro amici, ricercavano la sua compagnia. Chi erano costoro? Vedremo che è il loro caso, assai più che il caso di C., a interessare D.: son loro quelli che la sua giustizia persegue; e per introdurci nel loro ambiente prende per guida C., che presso tutti ha libero accesso, li conosce intimamente e a ciascuno dà del tu. Senza nominar l'uno o l'altro (son troppi), C. ha per missione di presentarci questo mondo piuttosto che di rappresentarlo in sé solo.
L'epiteto ‛ uomo di corte ' è significativo, e se D. non pronunzia queste due parole, ne suggerisce il colorito con un verso che Boccaccio ha saputo interpretare, seco mi tenne in la vita serena... Avremmo torto a chiosar vita serena come sinonimo molto generale di ‛ allegra vita ' opposta alle pene infernali, vita noncurante menata da chi non pensa all'altro mondo. Di fatto è un'allusione storica nettissima, affine a ‛ popolo grasso ' (Anonimo, ediz. Fanfani, 1169) e quasi così espressiva; l'uno e l'altro termine si applica al periodo che segue il ritorno dei guelfi nel 1266 e par che duri un quarto di secolo, ma soprattutto all'apogeo di questo periodo, verso il 1283. Nella pace ritrovata, i vincitori seppero far prosperare i loro affari e quelli del comune in modo stupendo. La concordia regnava ancora fra i cittadini; le feste pubbliche, le cene, i desinari e i ricchi conviti si moltiplicarono. Fu allora per Firenze ciò che G. Villani chiama " il più felice stato che mai fosse " (VII 89; cfr. " delizie e morbidezze ", VIII 39). Il cronista cita in particolare la " corte d'amore " del 1283 (D. non aveva vent'anni) dove accorsero gli uomini di corte delle altre città. E vi furono tante altre corti bandite fino al tempo di Campaldino (VII 132).
Ma subito dopo, la vita serena fu finita, quando i torbidi civili, già prima in germe, si misero a fermentare. E venne il tempo della città partita (If VI 61). Il contrasto è pronto e crudele. Non senza ragione C. ricorda a D. le feste del buon tempo passato: il dramma doveva sorgere dal debole e ultimo sprazzo di quelle antiche consuetudini di vita gaudente. La Cronica del Villani riferisce che la sera del 10 maggio 1300, sulla piazza di S. Trinita dove aveva luogo un ballo di donne, certi giovani cavalieri che le stavano a guardare entrarono in zuffa. Tutti erano armati, diffidando i Cerchi dei Donati e i Donati dei Cerchi. Spinsero i loro cavalli gli uni contro gli altri, poi la mischia diventò confusa e sanguinosa. " E così " dice il Villani " delle dette due parti tutta la città di Firenze ne fu partita e contaminata " (VIII 39). Notiamo che nel principio di questo capitolo il cronista, come D., accusa la " superbia e invidia " (esattamente " le invidie ") dei due partiti; poi, se non la loro " avarizia " o avidità, egli bolla gli appetiti dei Donati ricordando il loro soprannome di ‛ Malefami ', che è parlante: e si dovrebbe citar questo ‛ motto ' in nota al verso di D. l'una parte e l'altra avranno fame / di te (If XV 71-72).
Tutto questo illustra bene ciò che D. vuoi mettere sul conto dei suoi peccatori di gola, sia in senso proprio che figurato, nel canto VI. Muove da un pensiero semplice, quasi semplicistico: la virtù è frugale; Roma nel buon tempo fu povera e beveva acqua; quelli che mangian troppo non fanno buoni cittadini; il popolo grasso s'ingrassa a spese del popolo magro; l'avidità genera la superbia e l'invidia e tutto finisce con la guerra civile.
Per avere il diritto di parlare a quel modo, e di profetizzare sul tono d'Isaia, convien pure che C. non sia un ‛ porco ' come alcuni hanno detto. D. non lo sceglierebbe a portavoce se egli avesse sulla coscienza la minima colpa civica. E siccome tutti i Fiorentini hanno conosciuto C. e lo devono riconoscere, pare evidente che D. gli fa tenere i discorsi che C. ha realmente tenuti, nei circoli privati almeno; se non che invece di mostrarsi pronto a ridere, avrebbe dovuto spesso sdegnarsi. Ha avuto le sue debolezze. Eppure in lui c'era il senso della giustizia.
Da questo non indurremo che, quand'egli con apparente precisione allude a " due giusti " (Giusti son due, e non vi sono intesi, If VI 73), ha in mente i loro nomi, e interrogato li potrebbe dare. Tutt'altro: a citar due Fiorentini soltanto in mezzo a trenta migliaia (Villani, loc. cit.), renderebbe una strana giustizia. E possiamo esser certi che D. non ha l'impudenza di sottintendere qui il proprio nome con quello di un suo amico; il quale poi non è Ciacco. Ma questo verso è un ricordo del Vangelo (Matt. 18, 19-20) commentato anche da Brunetto Latini nel Tresor in chiave tutta generica: " Car de .II. parfais justes et bons naist parfete oevre et parfete entention " (ediz. Carmody, II XLIII 3; ediz. Chabaille, II 140). E nel verso conta più la conclusione, mezza sottintesa, che il breve accenno alla parola di Cristo; cioè: se in Firenze due giusti si possono incontrare, sono presi fra cento malvagi che non li vogliono intendere, anzi la voce della folla copre quella di Cristo. (Per altre interpretazioni e identificazioni dei due giusti, v. GIUSTO).
C. nomina però quattro o cinque grandi cittadini del tempo delle prime guerre civili, senza chiamarli ‛ giusti ' nel significato proprio del termine. Ma questi a modo loro amavano la patria, e il più grande di loro, Farinata, s'è opposto alla distruzione di Firenze. A dire il vero, pare che questi tratti siano destinati piuttosto a pungere la curiosità del lettore, a fargli aspettare i canti X, XVI, e XXVIII dell'Inferno con maggiore impazienza. Ciascuno di questi Fiorentini, beninteso, parlerà ancora di Firenze a D., e uno di loro, Farinata, gli farà nuove e personali predizioni, meno biblicamente profetiche. Questi nuovi episodi, come la fine del canto VI - di dove è sparita la figura di C. - si può dire che siano i complementi naturali dell'episodio suo personale; come pure i canti di Cacciaguida. Si vede così l'importanza primaria di C., il primo dei trentatré Fiorentini della Commedia.
Vediamo qui D. preparare la struttura politica e passionale del poema. D'altra parte, per limitarci al canto VI, il poeta fa intendere che anche un uomo che ama la sua patria è soggetto a lasciarsi tentare, anzi accecare, da un peccato dannoso per la città stessa. Vi era dell'accecamento in Farinata; e ve n'è in C., il quale prevedeva le ingiustizie sociali e le crescenti disgrazie della repubblica, ma nondimeno continuava a frequentare amichevolmente le case del popolo grasso: dove senza dubbio egli non diceva il suo sentimento con voce tanto forte da farsi intendere col rischio di farsi bandire come Dante. Ma D. era ‛ morditore ' meno cortese e meno sollecito del proprio pane.
Questa debolezza, quest'abbandono, forse, il poeta vuol esprimere col pesante sonno nel quale affonda C. alla fine della scena: Li diritti occhi torse allora in biechi; guardommi un poco e poi chinò la testa: cadde con essa a par de li altri ciechi. Da questo sonno non uscirà se non nel giorno del Giudizio. Come dire: " Quoniam miscuit vobis Dominus spiritum soporis, claudet oculos vestros, prophetas et principes vestros, qui vident visiones, operiet ". E un ultimo ricordo d'Isaia (29, 10): avvertenza ai Fiorentini.
Sembra che gli antichi commentatori non avessero elementi per identificare decisamente il C. dantesco con qualche personaggio fiorentino. Nessuno di loro, sia detto subito, parla intanto di un'attività poetica di C., e potrebbe questo essere un ulteriore elemento per negare l'identificazione con C. dell'Anguillaia, proposta e discussa tra gli altri da I. Del Lungo (I contrasti fiorentini di C., in Raccolta di studi critici A. D'Ancona, Firenze 1901; e v. anche il commento alla Commedia), da P. Savj Lopez (La villanella di C., in Miscellanea di studi critici A. Graf, Bergamo 1903) e accettata da M. Scherillo (cfr. soprattutto Il C. della D.C., in " Nuova Antologia " 10 agosto 1901, 427-440; e D. uomo di corte, ibid. 10 settembre 1901, 114-123) e, benché con riserva, anche dal Casini nel suo commento; a meno di non voler dedurre tale attività dalla semplice qualifica di " uomo di corte, cioè buffone " riferita, tra gli altri, dall'Ottimo.
A parte Iacopo e l'anonimo autore delle Chiose Selmi, di cui riferiremo più avanti, i commentatori antichi si limitano a sottolineare la golosità di C. vivente, dato evidentemente deducibile dal testo dantesco (Bambaglioli, Buti), arricchendone, forse a fantasia, il ritratto con elementi di sapore novellistico (Boccaccio, nelle Esposizioni e nel Decamerone; Anonimo, che lo riecheggia); e alcuni, preoccupati forse di salvare la dignità di un personaggio che parla a D. di argomenti tanto gravi, tengono a precisare che, pur se ghiottone, " ebbe in sé... leggiadri costumi e belli motti " (Ottimo; e anche Boccaccio; Buti: " era intendente ed eloquente, come sono comunemente li fiorentini "; Anonimo: " eloquente uomo e di buon sentimento "). La chiosa di Iacopo è interessante, giacché vi si accenna a una presunta ‛ preveggenza ' di C.; D. avrebbe dunque introdotto il Fiorentino a parlar delle contese di Firenze e a predirgli l'esilio in quanto in vita egli " fu sottile predicendo le cose future "; e, si noti, Iacopo non menziona minimamente per C. la qualità di giullare e di uomo di corte.
Tono piuttosto aneddotico ha poi la pur interessante chiosa - non raccolta da altri - dell'anonimo commentatore pubblicato dal Selmi: " Ciacco fu fiorentino, banchiere, e per troppo mangiare e bere divenne sì guasto degli occhi, che non conoscea le monete, e quasi divenne ritruopico, e era da le genti schifato. Questi conobbe D., però che, anzi che D. morisse era di XIV anni questo Ciacco " (e bisogna qui di necessità pensare a un errore materiale di trasposizione dei nomi e leggere " ... anzi che questo C. morisse era di XIV anni D. "; cfr. infatti il testo del manoscritto Marciano IX 179 edito dall'Avalle: " Questi conobbe Dante, però che, nanzi che egli morisse, aveva Dante quattordici anni "; altrimenti non si vede qual altro senso possa avere la frase). Volendo pertanto dar credito a questa affermazione della chiosa (affermazione che anche il Sapegno ignora, pur riferendone la prima parte relativa alla malattia degli occhi e alla qualità di banchiere, e che soltanto il Padoan, nel suo commento ai primi otto canti dell'Inferno [Firenze 1967] evidenzia nella sua completezza) si potrebbe assumere che C. nacque intorno al 1250.
Comunque allo stato attuale delle notizie le due chiose, pur se da noi messe in rilievo, hanno esclusivo valore d'inventario. Commentatori e critici moderni hanno affrontato di preferenza il personaggio dantesco, trattando in genere solo marginalmente il problema - che resta dunque tuttora aperto - del C. storico. Tra i primi F. Colagrosso (Gli uomini di corte della D.C., in Studi di letteratura ital., II, Napoli 1900, 24 ss.; cfr. rec. di E.G. Parodi, in " Bull. " X [1902-1903] 186-188) sottolineò in C., appoggiandosi agli antichi commentatori e riprendendo forse un'osservazione di G.A. Venturi (in I fiorentini nella D.C., Firenze 1858, 4 ss.), una ‛ nobiltà ' se non di natali, di spirito; e parimenti M. Scherillo, nei due articoli già citati - che sono da considerare più ampio svolgimento di una nota apparsa in " Rendic. R. Ist. Lombardo " s. 2, XXXIV (1901) 390-393, intitolata D. uomo di corte - affermava che un semplice ghiottone non avrebbe mai pregato D. di ricordarlo a la mente altrui (v. 89). A. Belloni, nell'articolo Sull'episodio di C. (in Frammenti di critica letteraria, Milano 1903, 59-83; ma già pubblicato in " Bibl. delle Scuole Italiane " IX [1900]) presume l'inserzione dell'episodio di C. dopo che erano già stati composti i primi dieci canti dell'Inferno: si meraviglia infatti che D. chieda spiegazioni sulla preveggenza dei dannati solo a Farinata (ma cfr. la confutazione - di questa e di altre tesi, in partic. della presunta amicizia " di bagordi " tra D. e C. all'epoca del traviamento e del legame con Forese - condotta da E.G. Parodi, in " Bull. " X [1902-1903] 193 ss.).
La ‛ nobiltà ' di C. è difesa e anzi esageratamente esaltata anche da A. Dispenza, in C., le discordie di Firenze e l'anno della visione dantesca, dove inoltre è riproposta la tesi del Trucchi (Poesie inedite..., I, Prato 1846, 68) e del Poletto (Dizion. dant., 1279) secondo la quale C. non fu fiorentino, e prova ne sarebbero le stesse parole del dannato: La tua città... I seco mi tenne in la vita serena, vv. 49-51; e pertanto la città partita non sarebbe Firenze, ma un'altra città, quella appunto di C. (v. l'importantissima recens. di V. Rossi, in " Bull. " XI [1904] 81-97, che obbiettivamente esamina e demolisce molte delle avventate affermazioni del Dispenza, specialmente la seconda).
Altri lavori e articoli successivi non recano, tranne pochissime eccezioni, sostanziali contributi di fondo, limitandosi a ribadire o a perfezionare ipotesi già presentate; tra i più ragguardevoli citiamo: A. Ghignoni, Il c. VI dell'Inferno, in Lect. genovese, Firenze 1904, 219-261; I. Del Lungo, Il c. VI dell'Inferno, Firenze [1906] (rist. in Lett. dant., 91 ss.; è una tra le più autorevoli letture ' del canto, ricchissima di notizie storiche e filologiche); ID., C., in " Rivista d'Italia " IX (1906) 719-730; L. Valli, Il c. VI dell'Inferno, Firenze 1914 (rist. in La struttura morale dell'universo dantesco, Roma 1935, 59-78); M. Scherillo, C. e D. uomini di corte, in " Emporium " LIII (1921) 59-74; G. De Caesaris, Il c. VI dell'Inferno, Parma 1923; A. Cavazzani Santieri, C., la " dannosa colpa " e l'" invidia " di Fiorenza, in " La Cultura Moderna " XXXIX (1930) 3 ss.; G. Troccoli, C. e il suo regno, in Saggi danteschi, Firenze 1941, 57-84; M. Limoncelli, Commento al c. VI dell'Inferno, Napoli 1951. Interessante per alcune felici proposte di parallelo tra C. e Farinata è C. Bozzetti, Storia interna del c. X dell'Inferno, in Studi letterari per il 2500 anniv. della morte di C. Goldoni, Pavia 1957, 83-97. Chiare e informate inoltre le letture di A. Piromalli (1960; ora in Lect. Scaligera 1187-216); di A. Vallone, nel suo vol. La critica dantesca nel Settecento, Firenze 1961, 90-103; di P. Vannucci per la Lect. Romana, Torino 1961. Importante A. Pézard, Le chant VI de l'Enfer: C. et Florence, in " Bull. Société Études dant. du C. U. M. " XII (1963) 7-34 (dopo aver ampiamente trattato della ‛ pioggia ' che cade sui golosi, chiestosi perché proprio in questo canto D. affronti giudizi politici, sull'autorità di passi di Isaia e di s. Gerolamo propone un legame tra l'ingordigia di cibo e il desiderio del potere; riprende inoltre e perfeziona con osservazioni anche sottili alcune questioni inerenti al personaggio di Ciacco). Si vedano inoltre T. Pisanti, Idea, stile e poesia nel c. VI dell'Inf., in " Palestra " III (1964) 3-9; A. Piromalli, Il peccato di gola e l'episodio di C., in " Ausonia " XX 4-5 (1965) 50-57; A. Pézard, Ce qui gronde en l'eternel (Inf. VI 94-115), in " Studi d. " XLII (1965) 207-233 (riprende e completa la lettura del 1963, discutendo ampiamente l'accenno dantesco al giudizio universale, messo in relazione soprattutto con passi di Isaia). Una summa' ottimamente condotta sulle differenti questioni connesse al canto e più direttamente al personaggio di C. è la lettura di F. Mazzoni (1965), in Nuove lett. I 113-181.