Chirurgia
di Pietro Valdoni
Chirurgia
sommario: 1. Introduzione. 2. Sviluppo storico della chirurgia: a) l'antica chirurgia; b) la chirurgia medievale; c) le università; d) la chirurgia militare. 3. Chirurgia moderna: a) l'antisepsi; b) l'anestesia; c) la asepsi; d) anatomia patologica e anatomia chirurgica; e) nascita delle scuole di chirurgia; f) progressi tecnici; g) la trasfusione di sangue; h) mezzi antishock. 4. Chirurgia contemporanea: a) perfezionamento delle tecniche; b) anestesia; c) rianimazione; d) antibiotici; e) ferite e grandi traumatismi; f) ulteriori progressi nel trattamento dello shock; g) terapia postoperatoria; h) circolazione extracorporea, ipotermia, arresto cardiaco. 5. Mezzi diagnostici: a) gli isotopi radioattivi; b) cateterismo cardiaco; c) angiografia selettiva; d) endoscopia. 6. Chirurgia dell'esofago: a) miotomia extramucosa; b) diverticoli; c) stenosi e tecniche di esofagoplastica; d) cancro; e) ernia diaframmatica. 7. Chirurgia gastrica: a) cancro; b) ulcera gastroduodenale. 8. Chirurgia del fegato e delle vie biliari; a) calcolosi e discinesie delle vie biliari extraepatiche; b) stenosi del coledoco; c) ipertensione portale; d) tumori del fegato; e) coma epatico. 9. Chirurgia del pancreas: a) tumori insulari; b) calcolosi, pancreatiti croniche, cancro; c) pancreatiti acute. 10. Chirurgia del tenue, del colon e del retto: a) adiposità; b) aderenze e sindromi ostruttive duodenodigiunali; c) ileite regionale; d) cancro del sigma e del retto; e) colite ulcerosa; f) poliposi intestinale; g) appendicite. 11. Chirurgia toracica: a) tubercolosi; b) cisti da echinococco e ascessi; c) focolai tubercolari, cisti e malformazioni, tumori. 12. Chirurgia cardiovascolare: a) ferite del cuore e pericardite costrittiva; b) embolia della polmonare; c) persistenza del dotto di Botallo; d) coartazione aortica e tetralogia di Fallot; e) stenosi della polmonare e trilogia di Fallot; f) pervietà interatriale; g) stenosi mitralica e protesi valvolari; h) insufficienza e ostruzione delle coronarie, aneurismi del cuore; i) trasposizione dei grossi vasi; l) dissociazione atrioventricolare; m) sutura dei vasi; n) aneurismi aortici e ostruzioni arteriosclerotiche: protesi vascolari, endoarteriectomia, omo- e autotrapianti; o) ipertensione portale e varici esofagee: anastomosi venose; p) trapianti d'organo. □ Bibliografia.
1. Introduzione
La chirurgia moderna è nata nel XX secolo, per quanto le sue radici affondino nei primordi della civiltà. Si può affermare che il progresso realizzato nel nostro secolo è superiore per mole, interesse e importanza a quanto è stato fatto in tutti i secoli passati, e che una delle maggiori conquiste dell'uomo negli ultimi decenni è rappresentata proprio dalla chirurgia. Tale e così rapida è stata l'evoluzione di questa scienza che essa ha anche frequentemente imposto alle discipline mediche collaterali la soluzione di quesiti che il suo progresso tecnico e meccanico proponeva.
Per contenere la mole del contributo attuale, riassumerò lo sviluppo storico per il secolo precedente brillantemente illustrato da Mario Donati nell'articolo Chirurgia dell'Enciclopedia Italiana, e quanto successivamente negli aggiornamenti del 1938-1948 e del 1949-1960 ho aggiunto io.
Assai poco di quanto oggi fa il chirurgo era possibile precedentemente al periodo della asepsi. La grande maggioranza degli atti operatori odierni hanno visto il loro nascere e il loro perfezionarsi negli ultimi decenni.
Di pari passo è andato aumentando il corpus dottrinario, non limitato solo all'anatomia chirurgica e alla tecnica operatoria, ma ricco di nuove conoscenze di semeiotica e di clinica chirurgica. Per tale ragione, dalla chirurgia generale si sono distaccate, nei primi decenni del nostro secolo, le grandi specialità chirurgiche come l'oculistica, l'otorinolaringoiatrica, l'ortopedica, la neurochirurgica, l'urologica, ecc. Poi, in anni a noi più vicini, sono nate altre specialità, come la chirurgia polmonare, la chirurgia del cuore e dei grossi vasi, la chirurgia vascolare.
Per l'incessante progresso, anche questa ulteriore suddivisione si è rivelata insufficiente e oggi sempre più si accentua la tendenza a un'ulteriore differenziazione in superspecialità: per esempio, nei riguardi della chirurgia addominale già esistono gruppi di chirurghi specializzati nella chirurgia del fegato, nella chirurgia dello stomaco, in quella del colon, ecc.
Questa tendenza moderna ha comunque una giustificazione pratica, perché il limitare l'acquisizione di conoscenze generali, la cui mole è attualmente enorme, a quella parte che costituisce una base di specializzazione, consente di raggiungere in non molti anni dopo la laurea una buona e compiuta preparazione e quindi l'indipendenza professionale. Forse, è dannosa la scomparsa della figura tradizionale del chirurgo generale; a ridurre questo danno vale però la tendenza attuale alla più stretta collaborazione di gruppo e alla consulenza reciproca.
2. Sviluppo storico della chirurgia
a) L'antica chirurgia
Le premesse al grande sviluppo della chirurgia moderna sono state poste nel secolo scorso dalla scoperta di L. Pasteur, che permise di riconoscere l'origine microbica delle infezioni che concludevano di solito tragicamente i tentativi di una chirurgia di elezione, sbarrando la strada a ogni progresso in questo campo. Infatti, la chirurgia era considerata soltanto come una chirurgia di necessità imposta da traumi aperti e chiusi, sia accidentali sia conseguenti alle lotte con gli animali e ai combattimenti, o di indicazione per l'apertura di focolai ascessuali; assai di rado si operava per condizioni morbose spontanee come calcolosi vescicali, qualche caso di ernia inguinale, qualche cisti ovarica permagna, ecc.
Lentamente, nel corso dei secoli era andata delineandosi la figura del chirurgo. Nell'antico Egitto, per molto tempo gli atti chirurgici furono affidati ai sacerdoti che, per il continuo studio dei visceri nell'interpretazione del responso degli oracoli e nella preparazione delle mummie che dovevano essere vuotate degli organi interni per l'imbalsamazione, avevano potuto acquisire delle buone conoscenze anatomiche. In un periodo successivo, di grande importanza fu la creazione delle scuole di medicina, quali esistevano certamente nell'antica Grecia e di cui rimangono ancora conoscenze importanti, cui sono legati i nomi di Alcmeone, Ippocrate, Galeno, Celso, Aristotele, Antonio Musa; accanto a questi colossi dell'antica medicina, noi ricordiamo ancora centinaia e centinaia di cultori che hanno contribuito più o meno largamente al progresso delle conoscenze mediche e della chirurgia.
b) La chirurgia medievale
Nel Medioevo furono ancora le scuole a svolgere un ruolo di primaria importanza: quella di Salerno, la prima, fondata nel sec. X, culla della chirurgia; quindi, nei secc. XIII e XIV, quelle di Bologna e di Padova, e successivamente, sulla loro scia, le varie altre scuole che hanno potuto fiorire in tutto il resto del mondo. Altrettanto importante fu la creazione degli ospedali, tra i quali uno dei primi fu quello di S. Bartolomeo a Londra, fondato nel 1102 e quello di S. Spirito in Sassia a Roma, il primo in Italia, costituito da Innocenzo III sull'antica Schola Saxonum e già operante nel 1100.
c) Le università
Le università, quali centri di studi e di trasmissione delle dottrine già acquisite e in continua evoluzione, ebbero per la medicina un'importanza decisiva specialmente nel perfezionamento delle conoscenze anatomiche e dell'indagine semeiologica clinica e nel favorevole sviluppo della farmacologia. Conseguentemente, i medici non furono più rozzi praticanti ma, sotto la guida di valenti maestri, ebbero la possibilità di fondare su solide basi dottrinali la loro professione; aumentò quindi il loro prestigio e cominciarono a sorgere le accademie di medicina che sarebbero poi divenute centri di conoscenza reciproca e di controllo della preparazione professionale. La grandissima maggioranza dei medici, tuttavia, non praticava la chirurgia: alcuni atti chirurgici semplici come il salasso venivano eseguiti ancora assai frequentemente da praticanti, specialmente da barbieri. Nel 1700 avvenne finalmente la netta distinzione fra i chirurghi e i barbieri: evidentemente la chirurgia era allora ben poca cosa.
d) La chirurgia militare
Le guerre napoleoniche offrirono ai chirurghi militari la possibilità di eseguire interventi anche complessi. Al chirurgo di Napoleone, D. G. Larrey, spetta il merito di aver studiato gli interventi di resezione delle articolazioni e di amputazione degli arti, che poté eseguire, anche sul campo di battaglia, grazie alle precise conoscenze di anatomia e di medicina operatoria, importanti specialmente nei riguardi dell'arresto dell'emorragia e della legatura preventiva dei vasi per evitare il pericolo di emorragie nel corso degli interventi programmati.
3. Chirurgia moderna
a) L'antisepsi
Purtroppo, l'infezione annullava l'opera meravigliosa del chirurgo: in pochi giorni le gangrene nosocomiali (che poi si riconosceranno dovute a una infezione da germi anaerobi responsabili della putrefazione) trasformavano le chiese, ove i feriti venivano posti a giacere sulla paglia che ricopriva il pavimento, in obitori. Bassissima era infatti la percentuale di sopravvivenza alla temibile complicazione infettiva.
Ecco perché la scoperta dei germi, fatta da L. Pasteur, rappresenta uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il progresso chirurgico: alla dimostrazione che responsabili dell'infezione erano i germi e non miasmi o generazioni spontanee di malattia, o altre ipotetiche cause, seguì infatti la scoperta della antisepsi e quindi l'impiego di sostanze disinfettanti, cioè in grado di uccidere i microrganismi patogeni. Alcuni anni prima della scoperta del Pasteur, nel 1847, un professore di ostetricia di Budapest, Ignaz Philipp Semmelweis, aveva notato che successivamente al suo ordine che medici, studenti e levatrici si lavassero le mani con una soluzione di sublimato corrosivo, la mortalità per infezioni da parto si era ridotta a cifre trascurabili rispetto alla grande massa delle infezioni puerperali registrate in precedenza nello stesso reparto; purtroppo, questa sua osservazione così importante non ebbe l'attenzione che meritava, tanto che egli ne ebbe addirittura la mente sconvolta.
Nel 1867 lord J. Lister comunicava i risultati ottenuti con l'uso di una soluzione di acido fenico per disinfettare le mani dei chirurghi, gli strumenti, le bende e il materiale di medicazione e di sutura; poiché i germi sono presenti anche nell'aria, il Lister usava un apparecchio per la nebulizzazione della soluzione disinfettante (spray) così che periodicamente il campo operatorio, il chirurgo e il malato a un tempo, venivano inondati di grandi getti di soluzione disinfettante contenuta in catini. Un anno prima, E. Bottini, a Pavia, aveva introdotto l'uso sistematico dell'acido fenico.
Nella costruzione della Clinica chirurgica di Roma, progettata da Francesco Durante, era predisposto un sistema di tubazioni di vetro che da un contenitore posto sul tetto si distribuivano in modo da poter irrorare e nebulizzare la camera operatoria con una soluzione di sublimato corrosivo. Ben presto però l'esperienza dimostrò che il disinfettante o antisettico, come uccideva i germi, così arrecava un danno più o meno importante ai tessuti con cui veniva a contatto, alterando il processo di guarigione; tuttavia, grazie a questi metodi antisettici, si eseguirono interventi programmati che prima non potevano essere assolutamente compiuti.
b) L'anestesia
Il secondo pilastro su cui poggia il progresso chirurgico è rappresentato dall'anestesia. A meno che non si trattasse di feriti di guerra, generalmente in stato di shock, il dolore provocato rendeva impossibile l'esecuzione di atti operatori se non in pochi individui provvisti di temperamento eccezionale e di cui è tramandato il ricordo. Si era cercato, e con un discreto successo, di ricorrere alla ubriacatura con la somministrazione di vini, o con l'inalazione di vapori emessi da spugne imbevute con tinture alcoliche, ecc. A metà circa del XIX secolo, si ebbero le prime sensazionali osservazioni sulle possibilità di impiego di particolari sostanze dotate di proprietà anestetiche: dapprima, nel 1844, il dentista O. Wells sperimentò su se stesso il protossido d'azoto; poi, nel 1846, un altro dentista, W. T. Morton, su consiglio del chimico C. T. Jackson, eseguì un intervento in anestesia ottenuta con inalazione dei vapori di etere; un anno più tardi il chirurgo J. Simpson dava comunicazione alla Società medico-chirurgica di Edimburgo delle modalità di impiego del cloroformio per ottenere la narcosi. Il successivo, rapido sviluppo degli studi sull'anestesia non fu ostacolato dalle tragiche vicende di questi pionieri: il suicidio di Wells, ridicolizzato e sconvolto dall'insuccesso del suo primo tentativo, e la esasperata e criminosa rivalità sorta tra Jackson e Morton. Il chirurgo poteva ora disporre di un mezzo che gli permetteva di lavorare in tranquillità e senza la fretta altrimenti imposta dalla provocazione del dolore. Si ricordi che il Larrey aveva elaborato una tecnica che gli consentiva di procedere alla disarticolazione dell'anca in poco più di un minuto!
c) La asepsi
Altro fattore di fondamentale importanza per lo sviluppo della chirurgia fu la asepsi, il cui merito viene generalmente attribuito al chirurgo tedesco E. von Bergman. La breve guerra franco-prussiana del 1870, con una statistica tuttavia imponente di feriti, obbligò un notevole numero di medici a prestare la loro opera, così che molti di essi furono in grado di acquisire una ricca esperienza in tema di ferite d'arma da fuoco e di ferite cavitarie. L'impiego dei disinfettanti fu largo e abbondante, e altrettanto evidente risultò il danno provocato ai tessuti da questi mezzi antisettici: conseguente e apparentemente spontanea fu l'introduzione, in sostituzione di quello dell'antisepsi, del metodo della asepsi, basato sulla distruzione con il calore secco nel forno o umido nell'autoclave dei germi esistenti in tutto ciò che può venire a contatto con la ferita. Verranno ancora impiegati disinfettanti ma limitatamente alla sterilizzazione delle mani del chirurgo - che, secondo la proposta di W. S. Halsted di Baltimora, indosserà guanti di gomma - e della pelle dell'operando. Per questo ultimo scopo, A. Grossich di Fiume nel 1902 propose la tintura di iodio.
Il progresso meccanico permise la costruzione delle autoclavi, dei forni, dei cestelli per la conservazione del materiale sterile (C. Schimmelbusch, 1891).
d) Anatomia patologica e anatomia chirurgica
Il vigoroso impulso allo studio anatomopatologico delle alterazioni provocate dalle malattie e allo studio dell'anatomia chirurgica rappresentò per il chirurgo il vero insostituibile presupposto per una tecnica corretta. Per i vari interventi fu così possibile precisare la posizione dell'incisione sulla cute e quella a livello dei muscoli che in tal modo, pur divaricati o incisi, conservavano la caratteristica funzione; si stabilì quali arterie, vene, e nervi si devono conservare; furono fissate le modalità dell'atto chirurgico sui visceri, con l'indicazione della corretta esecuzione dell'incisione e delle suture. Lo studio della chirurgia sperimentale, con la dimostrazione delle modalità secondo le quali si svolgono i processi di cicatrizzazione e di riparazione con sutura, offre ai chirurghi sicure basi per decidere caso per caso la condotta idonea, prevedere le complicazioni, considerare le possibilità di conseguire buoni risultati. Alla fine del secolo scorso, le conoscenze di anatomia chirurgica si codificarono in trattati, di cui quello scritto da L.-H. F. Farabeuf costituì il più fulgido esempio. In Italia, fra i primi, Francesco Durante seguì questa strada di una trattazione sistematica di anatomia chirurgica in un'opera purtroppo incompiuta.
Lo studio anatomopatologico delle malattie di interesse chirurgico consentì di valutare esattamente le possibilità di trattamenti operatori in grado di riparare le lesioni e risolvere quindi la sintomatologia conseguente. Così, A. Wölfler nel 1881 e poco più tardi, nel 1885, V. Hacker dimostrarono la possibilità di risolvere la ostruzione gastrica nei casi di stenosi pilorica mediante la creazione di una nuova via di deflusso (anastomosi) fra stomaco e digiuno; in Austria, V. Billroth, nel 1881, operò con pari successo la resezione gastrica, già tentata due anni prima a Parigi con esito infelice da J. E. Péan. Sempre in quegli anni, caratterizzati dall'avventura pionieristica in chirurgia, si eseguirono i primi interventi sull'intestino, sul retto, sulla mammella, ecc. F. Durante ebbe il merito di eseguire, nel 1895, per la prima volta nel mondo, l'asportazione di un tumore cerebrale (meningioma della piccola ala dello sfenoide), con guarigione.
e) Nascita delle scuole di chirurgia
La strada dell'ulteriore progresso è ora ampiamente aperta, e sempre più numerosi sono i medici che si dedicano alla nuova specialità. È questa, naturalmente, una delle ragioni più evidenti della diffusione delle conoscenze attraverso la creazione delle grandi scuole chirurgiche europee e nordamericane, la fondazione delle Società di Chirurgia, la pubblicazione di trattati e di riviste specialistiche. Per menti ben preparate, l'applicazione pratica dei nuovi insegnamenti e il loro perfezionarsi e completarsi è non solo facile, ma entusiasmante per il risultato molto spesso brillante dell'opera svolta. Fra i chirurghi di quest'epoca troviamo in maggioranza nomi tedeschi: è questo infatti il momento del massimo fiorire delle scuole chirurgiche di lingua tedesca. Non va dimenticata, tuttavia, l'importanza dei contributi recati dalla scuola francese, così come da quelle italiane e inglesi. Anche i nordamericani, particolarmente segnalatisi poi nei decenni a noi più vicini con contributi di estrema importanza, vantarono in questo periodo pionieristico alcuni celebri chirurghi, che furono i fondatori delle loro scuole.
f) Progressi tecnici
Purtroppo si deve ammettere, e per ragioni evidenti, che le fasi del progresso chirurgico moderno corrispondono ai grandi eventi bellici del nostro secolo. L'esperienza chirurgica acquisita con il trattamento dei feriti della guerra franco-prussiana del 1870 ha rappresentato la ragione del fiorire degli studi chirurgici della fine del XIX secolo e del principio del XX secolo; è chiaro che la conquista della asepsi è stata la premessa indispensabile di tale progresso, avendo consentito l'esecuzione di interventi che possono essere considerati come operazioni programmate, anche nei riguardi di un esito favorevole. Dopo la prima guerra mondiale, con il grande sviluppo della tecnologia si verificò anche uno straordinario progresso delle tecniche chirurgiche, grazie soprattutto all'introduzione di nuovi, preziosi strumenti, all'organizzazione di sempre più numerosi reparti chirurgici, alla collaborazione del chirurgo con altri specialisti. È sufficiente appena accennare a quanto ha rappresentato l'avvento della radiologia nella semeiotica e nella diagnostica. Di estrema importanza furono altresì i perfezionamenti apportati in questo periodo allo strumentario chirurgico, non solo per quanto riguarda la fabbricazione di strumenti sempre più perfetti, ma anche relativamente al materiale scelto per la loro costruzione, l'acciaio inossidabile, oltretutto ottimamente tollerato dai tessuti; e l'introduzione dei mezzi di illuminazione, delle lampade scialitiche (che non proiettano ombra), che consentì di evitare la dipendenza dalla luce diurna e di illuminare in profondità anche campi operatori ristretti, offrendo così la possibilità di eseguire le varie manovre sotto continuo controllo visivo.
g) La trasfusione di sangue
Di importanza fondamentale per il progresso della chirurgia furono in questo periodo gli studi sulla trasfusione di sangue. K. Landsteiner, nel 1901, a Trieste, scoprì i gruppi sanguigni A, B, O, e consentì quindi di classificare gli uomini in quattro gruppi (O, A, B, AB) e conseguentemente di studiare le leggi fondamentali sulla trasfusione del sangue; più tardi, nel 1940, lo stesso Landsteiner e A. S. Wiener scoprirono anche il fattore Rh. Si perfezionavano intanto le tecniche: Jubé, a Parigi, nel 1922, ideò il primo tipo di siringa per la facile esecuzione di grandi trasfusioni dirette da vena a vena di sangue immodificato, e successivamente l'impiego dei sali anticoagulanti, come il citrato di sodio e di magnesio, consentì l'esecuzione delle trasfusioni indirette anche non immediate, ma a distanza di alcuni giorni dal prelievo. Durante la seconda guerra mondiale, la tecnica trasfusionale, specialmente per opera dei nordamericani, si perfezionò ulteriormente, così da entrare nella prassi quotidiana e diventare addirittura sistematica per alcuni interventi di media e di grande chirurgia. In questo periodo ebbe inizio l'organizzazione delle emoteche, delle banche del sangue e del plasma, delle associazioni dei donatori.
h) Mezzi antishock
Ancora alle due grandi guerre mondiali la chirurgia è debitrice di conoscenze preziose, che derivarono dall'osservazione dei feriti gravi, dei grandi traumatizzati: l'esperienza bellica consentì infatti di distinguere un particolare stato di depressione circolatoria e psichica, caratterizzato dalla insorgenza graduale, dalla lunga durata, dalla particolare gravità, al quale fu dato il nome di shock. Gli ulteriori, accurati studi sull'argomento misero in luce rapporti precisi tra stato di shock ed alterazioni del ricambio, e costituirono la base per l'interpretazione eziopatogenetica della sindrome: fu così possibile distinguere lo shock post-traumatico, quello operatorio, il postemorragico (A. Blalock). L'acquisizione di questi dati consentì l'impiego di efficaci trattamenti antishock, consistenti principalmente nella somministrazione di ossigeno e nella trasfusione di sangue e di plasma. Tali mezzi furono poi sistematicamente impiegati per prevenire l'insorgenza dello shock, e debbono oggi essere considerati l'elemento condizionante l'esecuzione degli interventi di chirurgia maggiore.
4. Chirurgia contemporanea
a) Perfezionamento delle tecniche
Nel periodo dal 1920 all'inizio della seconda guerra mondiale, il progresso chirurgico è caratterizzato anzitutto dalla sistematizzazione delle tecniche operatorie già elaborate negli anni precedenti. Uno dei risultati più spettacolari è rappresentato dal progresso della chirurgia addominale, che nello spazio di un ventennio diventa chirurgia ben ordinata, con precise scelte e indicazioni e con risultati sempre migliori, immediati e tardivi. Nello stesso periodo, in chirurgia traumatologica si registra, oltre al perfezionamento dei mezzi di contenzione, l'introduzione di nuovi metodi di riduzione delle fratture e di contenzione dei frammenti: al chiodo di A. Codivilla (1902) si sostituisce il filo di M. Kirschner, con più larghe indicazioni e con manovra più semplice; l'acciaio inossidabile permette la costruzione di chiodi, delle placche di V. Putti, delle viti di C. Marino Zuco per il trattamento delle fratture del collo del femore, in sostituzione del chiodo che era stato suggerito da M. N. Smith-Petersen. Con l'acciaio inossidabile si costruiscono, oltre alle placche e alle viti del Putti, altri strumenti che consentono una notevole evoluzione nel trattamento delle fratture, che da metodo incruento diventa così metodo cruento operatorio: il vantaggio consiste in una più perfetta riduzione e quindi in più rapide consolidazioni e guarigioni, grazie alla possibilità di eliminare l'interferenza di corpi estranei non tollerati. Il trattamento delle fratture con metodo cruento si afferma decisamente dopo la seconda guerra mondiale, grazie alla disponibilità di nuovi materiali plastici, come le resine acriliche, e del tantalio, che presentano, rispetto all'acciaio inossidabile, il vantaggio di una tolleranza migliore. Sull'esempio di Müller di Berna, di Charleley di Londra, di d'Aubigny di Parigi si diffonde l'intervento della sostituzione con protesi della testa del femore e dell'acetabolo nelle artrosi dell'anca, primitive e secondarie, e nel trattamento delle fratture sottocapitate del femore
Gli enormi progressi compiuti dalla chirurgia negli ultimi venti anni sono in rapporto alle conquiste scientifiche e tecnologiche, così come alle iniziative di studio e al grande lavoro svolto dai chirurghi dopo la seconda guerra mondiale. Durante gli anni di questa guerra, come ho già accennato, si è perfezionata la metodica trasfusionale, l'anestesia, la cura dei traumi aperti e chiusi, la chemio- e antibioticoterapia.
b) Anestesia
Per quanto riguarda l'anestesia, ha avuto grande importanza la scoperta di farmaci come il pentotal sodico e il curaro, alla cui prima forma di farmaci derivati dal curaro naturale, come la tubocurarina, è stata poi sostituita quella dei curarizzanti di sintesi per la loro più rapida metabolizzazione. Gli studi farmacologici in proposito dimostrano infatti che quando si impiega l'etere o il cloroformio, la fase del rilasciamento muscolare è molto vicina a quella della sospensione della vita: poiché il chirurgo, durante l'intervento, ha bisogno del massimo rilasciamento muscolare del paziente, l'anestesia eterea è di difficile controllo in quanto o troppo superficiale, e quindi insufficiente a produrre il rilasciamento, oppure troppo vicina alla fase mortale, il cui inizio è svelato dalla midriasi, dalla scomparsa del riflesso corneale, ecc. La somministrazione di curaro, meglio dei curarizzanti di sintesi, determina un rilasciamento muscolare completo, che naturalmente interessa anche i muscoli respiratori: in tal modo viene soppressa la possibilità della respirazione spontanea, che si mantiene invece nel corso dell'anestesia generale eterea quasi fino alla fase più profonda, e sorge quindi la necessità di provvedere allo scambio respiratorio polmonare. A tal fine si introduce nella trachea, per via transorale, sotto la guida di un laringoscopio, o per via transnasale, un tubo discretamente flessibile provvisto di un manicotto di gomma che, gonfiato, assicura la tenuta dell'aria insuffiata e, nello stesso tempo, impedisce la penetrazione nell'albero bronchiale di saliva e di eventuale materiale vomitato. Poiché è impossibile indurre e mantenere una paralisi muscolare totale in un malato vigile, si inietta per via endovenosa goccia a goccia il pentotal, che determina la persistenza nello stato di incoscienza e, a differenza dell'etere, non irrita l'apparato respiratorio. Un intervento può quindi durare molte ore senza grave danno per il malato, perché non si accumula il materiale curarizzante né l'anestetico somministrato per via endovenosa. La paralisi dei muscoli respiratori, d'altra parte, rende assai facile la distensione del polmone, così che può compiersi agevolmente l'ossigenazione del paziente senza che alcuna resistenza di tono muscolare si opponga alla modesta pressione inspiratoria. L'ossigeno viene erogato da bombole o, quando esiste, da un sistema di distribuzione centralizzato; il gas arriva in un pallone che viene ritmicamente compresso dall'anestesista. L'aria espirata dal pallone passa in un recipiente (cannister) contenente calce sodata anidra che fissa l'anidride carbonica in essa contenuta e così purificata è nuovamente disponibile per l'inspirazione. Oggi esistono macchine a regolazione elettrica che possono sostituire la compressione ritmica del pallone esercitata dall'anestesista, generalmente indicate come apparecchi respiratori, veri polmoni artificiali.
c) Rianimazione
La metodica dell'intubazione non è impiegata soltanto nelle sale operatorie, ma anche nel trattamento di pazienti in coma o in condizioni gravi con insufficienza respiratoria. Sono nati così i centri di rianimazione, detti anche reparti di cura intensiva, dove vengono ricoverati, oltre agli operati nelle prime ore dopo l'intervento, anche malati in coma di varia origine, in stato di shock, ecc. Questi reparti, ove trovano largo impiego la somministrazione di ossigeno e i vari trattamenti antishock, sono particolarmente attrezzati per l'osservazione continua del paziente mediante monitorizzazione: speciali apparecchi, detti ‛monitor', registrano continuamente su carta e su oscilloscopio vari dati, come il tracciato elettrocardiografico, i valori della pressione arteriosa e venosa, ecc.; spesso un catetere introdotto in una vena e fatto progredire fino alla cava o addirittura nell'atrio, consente di registrare la pressione venosa centrale e di prevenire la comparsa della sindrome da bassa gettata. Le sale di degenza sono generalmente organizzate in modo da poter rilevare il monitoraggio contemporaneo per 6-8 malati. Per mezzo dei cateteri è possibile inoltre il prelievo periodico di sangue per eseguire alcune importanti analisi, di solito mediante micrometodi (per es. di Astrup), quali i valori della acidità o alcalinità del sangue (pH), delle tensioni parziali di anidride carbonica (pCO2) e di ossigeno (pO2), del contenuto percentuale di alcuni elettroliti come potassio, sodio, ecc. L'assistenza è affidata a personale infermieristico particolarmente abile e preparato e a medici specializzati.
d) Antibiotici
Ho accennato all'importanza della scoperta degli antibiotici, cui dobbiamo la possibilità di eseguire la maggior parte degli interventi di chirurgia moderna. Per quanto si fosse predisposta da molti anni una rigorosa asepsi, purtroppo le complicazioni infettive non erano scomparse dalle sale operatorie nè dai reparti di degenza. Nel determinismo di una infezione ha importanza anche la condizione di resistenza del paziente, che, quanto più è provata dalla lunga durata dell'intervento e dall'intensità dello shock operatorio, tanto più facilmente cede rendendo possibile l'attecchimento di germi, non in grado di provocare l'infezione in condizioni normali. In un ospedale, poi, i germi sono addirittura selezionati nella loro maggiore aggressività, perché vengono diffusi dai malati nei quali hanno provocato lo stato di malattia, superando le resistenze abituali e acquisendo così un maggior potere patogeno.
Dopo che, nel 1935, G. Domagk aveva aperto la strada alla chemioterapia con la scoperta dei sulfammidici, di cui il primo esempio fu il Prontosil, numerosi sali appartenenti a tale tipo di medicamenti furono progressivamente sintetizzati e sperimentati dai farmacologi. La loro larga diffusione, tuttavia, mise ben presto in evidenza la resistenza spontanea presentata da alcuni germi, e quella acquisita da altri in un primo momento sensibili.
L'antibioticoterapia, basata sull'impiego di sostanze ad azione batteriostatica o battericida o batteriolitica prodotte da microrganismi ebbe inizio dagli studi di A. Fleming sul Penicillum notatum (donde il nome di ‛penicillina' attribuito nel 1929 al primo antibiotico) e da quelli immediatamente successivi di numerosi altri batteriologi, che poterono dimostrare sperimentalmente le proprietà antibatteriche di varie muffe. Più tardi, nel 1940, uno scienziato di Oxford, H. W. Florey, avvalendosi della collaborazione del chimico-biologo E. B. Chain, studiò chimicamente la penicillina, effettuò i primi esperimenti terapeutici e introdusse così l'uso degli antibiotici nella pratica clinica.
La produzione industriale della penicillina, impossibile allora nell'Inghilterra fortemente impegnata nell'industria bellica e sottoposta a continui attacchi aerei, fu iniziata negli Stati Uniti: ben 17 fabbriche americane si consorziarono per fabbricare in grandi quantità la sostanza, in un primo tempo riservata solo a feriti di guerra con infezione. I risultati clinici sono apparsi strabilianti, soprattutto per chi, come lo scrivente, aveva iniziato e compiuto la sua preparazione chirurgica nel periodo della grande diffusione delle infezioni: si videro ferite secernenti grandi quantità di pus in malati gravemente infermi e febbrili sterilizzarsi in pochi giorni così da permettere addirittura una sutura secondaria, senza dover attendere una guarigione per seconda intenzione; polmoniti crupali guarirono in poche ore con ristabilimento di un malato che appariva moribondo; scomparvero le setticemie, di solito mortali, dovute agli streptococchi, e scomparvero le non meno pericolose setticopioemie da stafilococchi. Ben presto si notò tuttavia che esistevano germi penicillinoresistenti, forse perché provvisti di una penicillinasi in grado di inattivare l'antibiotico, i quali davano origine a colonie caratterizzate dalla stessa difesa, cioè stipiti patogeni insensibili all'azione dell'antibiotico. Ciò spinse i microbiologi ad approfondire gli studi, così che nel corso di circa un trentennio poterono essere individuate centinaia di nuove specie di funghi e furono successivamente impiegati in clinica nuovi antibiotici in grado di colpire i germi divenuti resistenti ai primi. Un notevole impulso alle ricerche batteriologiche e farmacologiche fu poi determinato dalla possibilità della preparazione sintetica e semisintetica degli antibiotici.
Gli antibiotici trovano impiego anche nella profilassi delle infezioni negli operati, e a tale scopo vengono di solito utilizzati quelli a largo spettro onde superare le difese di germi che possano aver acquisito una resistenza verso alcuni di essi. L'antibioticoterapia ha così permesso anche l'esecuzione di interventi su organi con contenuto assai infettante come l'intestino e ha notevolmente ridotto la frequenza delle complicazioni settiche. Ad essa dobbiamo la quasi completa scomparsa di alcune complicazioni postoperatorie come quelle polmonari e la possibilità di tollerare da parte dell'organismo i corpi estranei che il chirurgo introduce: materiale di sutura non riassorbibile come la seta e il lino, sostanze plastiche, metalli, trapianti di tessuti e di organi ecc., tutti in grado di favorire l'insorgenza di una infezione, attraverso la virulentazione di germi che abitualmente sono considerati innocui.
Naturalmente, gli antibiotici non hanno determinato la scomparsa delle terapie precedenti e degli antisettici: anche oggi si procede alla disinfezione della pelle dell'operando con tintura di iodio, col mercurocromo, ecc., e a quella delle mani del chirurgo con l'alcool o con i saponi medicati con antisettici, ecc.
e) Ferite e grandi traumatismi
Nella cura delle ferite esterne e delle fratture esposte, l'esperienza della prima guerra mondiale dimostrò l'utilità di un trattamento antisettico con un medicamento meno velenoso e meno aggressivo per i tessuti dell'acido fenico e del sublimato corrosivo, l'ipoclorito di sodio, specie nella formula che ancora oggi caratterizza il ben noto liquido di H. D. Dakin. A. Carrel ebbe il merito di aver messo in evidenza l'importanza di un'applicazione continuata del disinfettante, particolarmente nelle ferite infette e molto secernenti e in quelle gangrenose. In un primo tempo, sembrava che gli antibiotici dovessero determinare la scomparsa di questi trattamenti locali, tuttavia l'esperienza delle recenti guerre di Corea e del Vietnam ha dimostrato l'utilità dell'associazione delle due terapie. È evidente che nel trattamento immediato di una ferita, accidentale o di guerra, l'impiego degli antibiotici e dei chemioterapici permette oggi al chirurgo di eseguire, subito dopo aver provveduto alla toeletta della ferita, una sutura immediata con chiusura del focolaio traumatico: e ciò non solo nelle parti molli, ma in qualunque sede, per esempio nei traumatismi aperti cranioencefalici e in quelli dell'addome, nelle fratture scheletriche come nelle ferite broncopolmonari. Naturalmente, il grande sviluppo delle branche specialistiche, quali la neurochirurgia, la chirurgia addominale, la chirurgia d'urgenza, ha offerto la possibilità che questi vari tipi di interventi siano eseguiti da chirurghi specializzati, determinando quindi un notevole miglioramento dei risultati immediati e a distanza. Di grande importanza è anche la precocità dell'intervento operatorio subordinata alle capacità diagnostiche del chirurgo e, nel caso dei traumatismi, alla possibilità del rapido trasporto dei feriti: a tal fine si va ora sempre più diffondendo l'impiego degli elicotteri, anche se ancora in fase di perfezionamento soprattutto per superare le difficoltà del volo nelle ore notturne e in avverse condizioni meteorologiche. L'esperienza ha inoltre dimostrato che per ogni traumatismo è necessario un intervento operatorio che può andare dalla semplice toeletta di una ferita a un'amputazione, a un intervento viscerale, a un intervento neurochirurgico ecc., il cui grado di urgenza è oggi ben valutabile: così, ad esempio, i feriti toracici sono sempre urgenti, perché occorre assicurare la regolarità degli atti respiratori, e altrettanto urgenti sono quelli con emorragia in atto che può provocare rapidamente la morte; una urgenza differita di alcune ore hanno i soggetti con ferite viscerali e i politraumatizzati, mentre un'urgenza ancora minore viene attribuita ai traumatizzati delle parti molli, dello scheletro e a quelli craniocerebrali. Molto indicative a tale proposito sono le statistiche di guarigione dei feriti di guerra, ed è proprio l'esperienza bellica, in modo particolare del secondo conflitto mondiale, che ha dimostrato che il trattamento operatorio di urgenza dei feriti nell'apparato digerente è assoluto e obbligatorio.
f) Ulteriori progressi nel trattamento dello shock
Abbiamo già visto come l'osservazione dei grandi traumatizzati, specialmente dei feriti di guerra, degli ustionati, degli operati, abbia consentito di individuare e di studiare accuratamente quella particolare condizione indicata come shock, il cui sintomo più caratteristico è costituito dalla caduta della pressione arteriosa. Le ricerche sulla patogenesi dello shock hanno chiaramente dimostrato come uno dei fattori più importanti per la sua insorgenza sia rappresentato essenzialmente da un immediato scompenso fra il volume delle cavità cardiache e vascolari e il loro contenuto ematico: questa cognizione ha posto le basi della moderna terapia, consistente nel mantenimento del volume ematico circolante e di una valida funzionalità cardiocircolatoria. I mezzi attuali consentono trasfusioni di grandi masse di sangue e di plasma e di soluzioni di destrano e di elettroliti in grado di trattenere in circolo una notevole quantità di acqua. Di grande importanza risulta anche la limitazione della perdita di liquidi dall'organismo, quale si verifica a livello delle superfici ustionate: a ciò si provvede con la compressione degli arti mediante bendaggi e con immediata toeletta delle parti ustionate per eliminare da esse le zone necrotiche e ricoprirle con trapianti di cute, prelevate dallo stesso individuo in altre regioni del corpo, con un apparecchio detto dermatotomo. Oggi è anzi possibile effettuare il prelievo da donatori o addirittura usare lembi di pelle prelevati da cadaveri, che sterilizzati con betapropiolattone, congelati a −80° e successivamente liofilizzati, acquistano l'aspetto di una pergamena secca e appena immersi in soluzione fisiologica riacquistano i caratteri di pelle fresca. Questi lembi servono solo come opercolo provvisorio fino a che sia possibile utilizzare quelli provenienti da donatori vivi o fino a che venga superato il momento critico conseguente allo shock da ustione.
Per aumentare il tono vasale periferico e contrastare l'esaurimento delle ghiandole surrenali si somministrano la noradrenalina e altri farmaci ad azione ipertensiva, e i cortisonici, questi ultimi in grado inoltre di potenziare l'effetto delle ammine ipertensive.
g) Terapia postoperatoria
Lo studio del ricambio delle proteine, dei glucidi, dei grassi e degli elettroliti ha indubbiamente consentito notevoli progressi nei riguardi di un migliore trattamento dei pazienti nel periodo postoperatorio. Attraverso somministrazione di liquidi per via endovenosa, cioè per fleboclisi, è possibile mantenere invariato l'equilibrio fra l'introduzione di acqua e la sua eliminazione dai polmoni con l'aria espirata, dalla cute con il sudore, e dai reni con l'urina: rimane così inalterata la quantità di liquido circolante e di quello trattenuto nei tessuti, sia negli spazi intercellulari sia nelle cellule, evitando pericolosi spostamenti di elettroliti e la comparsa di stati di disidratazione o viceversa di edema (v. acqua e vita). Importante è pure la somministrazione di proteine, abitualmente eseguita per via endovenosa con trasfusioni di sangue, o meglio di plasma quando non coesista una diminuzione del numero dei globuli rossi, o di soluzioni contenenti amminoacidi che l'organismo può agevolmente utilizzare per la sintesi proteica; una diminuzione della protidemia determina alterazioni della pressione osmotica ed è in gran parte responsabile della comparsa dei cosiddetti edemi da fame.
È probabile che in futuro sarà possibile eseguire anche una introduzione parenterale di sostanze lipidiche: con questa tecnica recentemente sono stati effettuati numerosi tentativi che, tuttavia, non hanno consentito di realizzare modalità di somministrazione così semplici come quelle per il glucosio. Questa ultima sostanza, comunque, è sempre ottimamente tollerata dall'organismo e, anche se è in grado di fornire soltanto la metà circa di calorie rispetto ai grassi, rappresenta un valido apporto energetico; talvolta viene somministrato insieme all'insulina, onde evitare l'aumento della glicemia e la conseguente glicosuria. La somministrazione di materiali nutritivi è indispensabile al paziente che abbia subito un grave trauma o intervento, così come a quello debilitato da una malattia, sia per riequilibrare il bilancio energetico, sia per aumentare la capacità di resistenza alle infezioni e alle altre complicanze.
Di grande importanza è anche l'equilibrio degli elettroliti indispensabili alla vita cellulare, la cui variazione può facilmente indurre stati di alcalosi e di acidosi: il mezzo più efficace per svelare turbe anche minime di questa condizione di equilibrio consiste nella misurazione del pH ematico. Il cloro, il potassio, il sodio, sono gli elettroliti più importanti delle cellule e del plasma: stati di ipo- o di iperpotassiemia possono provocare il manifestarsi di alterazioni miocardiche, dimostrabili elettrocardiograficamente; una perdita di cloro può determinare la comparsa della cosiddetta iperazotemia cloropenica, curabile con la somministrazione per fleboclisi di soluzioni di cloruro di sodio. Occorre comunque ricordare che scompensi del ricambio degli elettroliti possono essere secondari alla presenza di adenomi corticosurrenalici, causa della sindrome di Cohn, e, insieme all'ipertensione arteriosa, rappresentarne sintomi caratteristici, così che in questi casi la determinazione del cloro, del sodio e del potassio può costituire un valido sussidio diagnostico.
h) Circolazione extracorporea, ipotermia, arresto cardiaco
La determinazione delle variazioni degli elettroliti e del contenuto in proteine e in glucosio del sangue ha anche notevole importanza quando si eseguono grandi trasfusioni di sangue, specialmente nel corso della circolazione extracorporea (C.E.C.) e nell'applicazione del rene artificiale. Come diremo sotto, molti interventi di cardiochirurgia sono possibili soltanto grazie alla C.E.C., che permette di escludere temporaneamente l'azione del cuore come organo motore della circolazione e quella dei polmoni per la ossigenazione del sangue. Tale pratica si basa sull'impiego di un apparato, detto anche ‛cuore-polmone artificiale', il cui funzionamento può essere così schematizzato: uno o due tubi, introdotti nel torace attraverso lo sterno sezionato sulla linea mediana, aspirano dall'atrio destro, attraverso le vene cave, il sangue venoso e lo convogliano alla macchina munita di dispositivo ossigenante; generalmente l'ossigenazione viene ottenuta con il gorgogliamento di ossigeno, talvolta invece con il contatto diretto con l'ossigeno di tutto il sangue distribuito in strato sottile su una vasta superficie. Divenuto così arteriosò, il sangue viene iniettato o nell'arteria femorale o nell'aorta ascendente per mezzo di una pompa, di solito quella di M. De Bakey, caratterizzata da un pistone eccentrico che comprime un tubo elastico così da evitare non solo qualunque contatto diretto con il sangue, ma anche una compressione troppo energica che potrebbe rompere i globuli rossi. Per prevenire una possibile embolia gassosa, si introduce un catetere aspirante nel ventricolo sinistro.
Poiché il sangue estratto dai vasi e posto a contatto con materiale estraneo rapidamente coagula, la C.E.C. è resa possibile dall'impiego della eparina, farmaco dotato di potere anticoagulante, oggi largamente usato; antagonista dell'eparina, e in grado di ripristinare la normale coagulabilità ematica, è il solfato di protammina. Indispensabile alla corretta esecuzione della C.E.C. è anche l'uso di tubi di sostanza plastica siliconati, alle cui pareti non possono aderire le piastrine, con conseguente netta riduzione dei rischi della microcoagulazione: in ogni modo, nell'apparecchio è incluso un filtro in grado di intrappolare i microcoaguli e uno scambiatore di calore per mantenere la temperatura ideale. Si è visto anche che durante la C.E.C. è necessario un controllo quasi continuo di alcune caratteristiche del sangue, come il pH, il pCO2, il pCO, il contenuto in elettroliti, onde vengono impiegati microanalizzatori, come quello di Astrup, che operano su pochi cc di sangue. Le prime macchine cuore-polmone derivarono da quella che J. H. Gibbon progettò nel 1937, ma che riuscì a rendere funzionale nell'uomo, dopo molti esperimenti, solo nel 1953. Importanti modifiche ai primi modelli furono recate da De Wall e W. Lillehay nel 1954: l'introduzione di un tubo disposto a elice, l'ossigenazione del sangue per gorgogliamento, l'uso di un motore detto ‛sigmamotor' a dita comprimenti un tubo in modo progressivo così da evitare contatti del sangue con altri componenti della pompa. Ulteriori perfezionamenti vennero poi realizzati da M. De Bakey, il cui modello di pompa è oggi, come abbiamo detto, generalmente usato. Attualmente, poi, si è ottenuta un'ulteriore semplificazione con l'impiego dei sacchi ossigenatori di plastica, a perdere. Gli innumerevoli perfezionamenti introdotti hanno reso la C.E.C. una metodica in grado di consentire un'interruzione circolatoria della durata anche di parecchie ore; quando impiegata per un'ora o poco più, e condotta da tecnici sperimentati, è oggi una prassi responsabile di una minima mortalità. Nei casi in cui la C.E.C. debba essere prolungata per molto tempo, si ricorre all'ipotermia, anche profonda (a 22°, secondo Drew): a tale temperatura il metabolismo cellulare si riduce notevolmente, tanto che è possibile interrompere completamente la circolazione per un tempo massimo di sei minuti, oltre il quale si provocherebbero danni irreversibili del tessuto nervoso. L'impiego ditali metodiche è tuttavia limitato dalla difficoltà di disporre di notevoli quantità di sangue dello stesso gruppo del paziente e prelevato recentemente. Non è infrequente, in tali circostanze, che il chirurgo si trovi ad affrontare singolari problemi, rappresentati da particolari norme religiose dell'operando, come ad esempio nel caso dei seguaci di Geova: la macchina viene allora rifornita con il sangue dello stesso paziente, precedentemente prelevato e diluito con la tecnica della emodiluizione.
Un altro mezzo che, in aggiunta alla ipotermia e alla C.E.C., consente di intervenire sul cuore a cielo aperto, è l'arresto cardiaco reversibile: proposto da Meirose, e realizzato per la prima volta nell'uomo da Effler, esso rende il cuore flaccido e immobile, riducendone le richieste metaboliche. L'arresto può essere ottenuto farmacologicamente con il citrato di potassio o con la neostigmina, iniettati in corrispondenza dell'origine dell'aorta, la cui temporanea occlusione con una pinza consente un'elettiva azione del farmaco sul circolo coronarico; altri mezzi impiegati sono l'anossia e la corrente elettrica, mentre il ripristino dell'attività cardiaca è assicurato da un defibrillatore elettrico. Il procedimento, tuttavia, comporta il rischio della comparsa di focolai di necrosi miocardica.
Tutti questi progressi sono stati resi possibili dallo sviluppo della bioingegneria, che, specialmente nel campo della chirurgia vascolare e della cardiochirurgia, può oggi risolvere numerosi problemi biologici e clinici. Le più profonde conoscenze anatomiche e fisiopatologiche e la disponibilità di mezzi tecnici in continua evoluzione ampliano così in modo quasi prodigioso i limiti della chirurgia contemporanea.
5. Mezzi diagnostici
Come abbiamo visto, lo stato attuale della chirurgia è il frutto di un lungo e continuo progresso, che soprattutto negli ultimi due decenni ha reso possibile l'esecuzione di interventi prima rigorosamente interdetti e il conseguimento di lusinghieri successi. Numerose altre discipline hanno contribuito in misura notevole, e molte volte determinante, alla realizzazione del complesso edificio della chirurgia contemporanea: basti pensare al ruolo svolto dall'elettronica nella messa a punto delle tecniche di monitorizzazione, cui abbiamo precedentemente fatto cenno.
Le rapide, tumultuose scoperte della fisica e della fisicochimica e le loro sorprendenti applicazioni in ingegneria e quindi in bioingegneria hanno offerto al chirurgo non soltanto la possibilità di perfezionare gli strumentari e le attrezzature impiegati negli interventi, e quindi di modificare sostanzialmente le tecniche operatorie, ma anche nuovi mezzi diagnostici che consentono lo studio sistematico di vari organi e apparati.
a) Gli isotopi radioattivi
Tra questi mezzi, di estrema importanza sono gli isotopi radioattivi, mediante i quali è possibile procedere all'esplorazione funzionale di numerosi organi, specialmente di quelli ghiandolari. Così, nella tiroide, lo iodio radioattivo viene captato dalle cellule tiroidee che ne sono avide, e la scintigrafia mediante apparecchio di Geiger-Müller modificato può dimostrare un'eventuale iperattività, come nel morbo di Basedow, o una mancata o scarsa captazione, come nei cosiddetti noduli freddi. Questa ricerca è oggi indispensabile nella diagnostica differenziale tiroidea fra gozzo e cancro, e nella diagnostica dei noduli isolati di gozzo che possono rappresentare una lesione precancerosa. Lo stesso radioisotopo è stato impiegato anche nella cura di gozzi tossici, in quanto l'elemento, eliminando raggi gamma, distrugge le cellule tiroidee alle quali si fissa. La terapia con isotopi non viene usata nelle malattie facilmente guaribili con un intervento ma viene riservata alle forme neoplastiche non operabili o per dominare le metastasi dei cancri tiroidei dopo asportazione della tiroide.
Analoga applicazione dei radioisotopi a scopo diagnostico ha'avuto larga diffusione anche nello studio delle malattie del fegato, della milza, del pancreas, in quello dei tumori cerebrali. Naturalmente, lo studio sperimentale e clinico non può dirsi ancora compiuto, soprattutto per la differente capacità di captazione degli isotopi da parte delle cellule nei vari casi: ecco perché si usano vari elementi, per esempio per il pancreas la seleniometionina, per il polmone il 67Ga, per il fegato l'albumina marcata con 131I. La grande esperienza acquisita con l'impiego della scintigrafia del fegato consente attualmente una buona dimostrazione della presenza, della sede e del numero di metastasi carcinomatose o di cisti da echinococco, come non è possibile con altri mezzi; inoltre, lo studio scintigrafico dopo somministrazione di rosa bengala isotopo, elettivamente captato dalla cellula epatica, consente una buona valutazione della sua funzione. Ricorderemo ancora che in terapia sono impiegati per infissione nei tessuti aghi piccoli e sottili contenenti isotopi gammaemittenti, come l'oro isotopo, il 47Ca, lo 85Sr, o beta emittenti come il 32Pu, il 45Ca, lo 89St: si preferiscono generalmente isotopi a breve durata di dimezzamento e di esaurimento, onde evitare un assoluto e prolungato isolamento del malato che emette radiazioni potenzialmente in grado di danneggiare chi lo assiste o comunque gli stia vicino. In ogni caso, l'introduzione degli isotopi nella diagnostica rende oggi possibili interventi mirati di assoluta precisione.
b) Cateterismo cardiaco
Gli studi della emodinamica hanno registrato un notevole progresso con l'impiego della tecnica del cateterismo cardiaco, mediante il quale è possibile compiere una serie di osservazioni sulle pressioni nelle varie cavità del cuore, anche in quelle di sinistra, grazie a misurazioni effettuate attraverso il setto interatriale, e sul contenuto in ossigeno del sangue nelle stesse cavità e in varie sedi. Il cateterismo, eseguito per la prima volta da W. T. O. Forssmann nel 1924 su se stesso, è oggi spesso impiegato con la contemporanea somministrazione di gas xenon per inalazione che permette di rilevare l'esistenza di pervietà settali.
c) Angiografia selettiva
La larga esperienza acquisita con il cateterismo ha perfezionato la tecnica della aortografia, consentendo di sostituire alla iniezione diretta del liquido di contrasto nell'aorta quella attraverso un sottile catetere introdotto nell'arteria ascellare (Selinger) o nella femorale, sulla guida di un ago relativamente sottile, e di compiere quindi un accurato studio radiologico. Queste tecniche di angiografia selettiva sono oggi largamente usate non solo nella diagnosi delle malattie delle arterie, quali arteriopatie obliteranti, stenosi malformative e acquisite, ecc., ma anche nello studio di organi come il pancreas prima praticamente non esplorabili senza un'operazione. Si sono messe così in evidenza ipertensioni renali da stenosi dell'arteria renale, crisi dolorose addominali da stenosi del tronco celiaco e dell'arteria mesenterica superiore, l'ostruzione della carotide interna in casi di sincopi cerebrali ricorrenti e abitualmente considerati dovuti a uno spasmo vascolare, ostruzioni delle arterie originarie dell'arco aortico, cosiddetti tronchi sopraortici, ecc. È certamente prevedibile la possibilità di eseguire l'angiografia totale del corpo umano mediante una iniezione endovenosa di un liquido radiopaco, che renderà la diagnostica estremamente precisa; le tecniche angiografiche selettive potranno risolvere molti problemi diagnostici, come oggi non lo consentono le indagini radiografiche, anche le più complesse. Un valido esempio in proposito è rappresentato dai progressi conseguiti nella diagnostica dell'apparato respiratorio: nella Clinica chirurgica di Roma, A. Reale ha per primo dimostrato l'importanza dell'angiografia endovenosa combinata a quella endoarteriosa selettiva nella diagnostica dei tumori del polmone; l'angiografia endovenosa ha reso inoltre molto semplice una diagnosi una volta molto difficile, quella dell'embolia polmonare, completando e sostituendo l'indagine scintigrafica che pochi anni fa sembrava insostituibile nella diagnosi di questa malattia. Del resto tutta la radiologia, negli anni a noi vicini, ha avuto progressi tecnici assai evidenti per cui, specialmente con le metodiche contrastografiche, ha contribuito enormemente a un più facile riconoscimento delle malattie di molti organi e apparati, come quelle dell'apparato digerente.
d) Endoscopia
Nell'esplorazione dell'apparato digerente, l'introduzione dell'endoscopia, in aggiunta alla diagnostica radiologica, ha rappresentato un eccezionale progresso. Con la costruzione degli apparecchi fibroscopici flessibili per l'endoscopia, è possibile esplorare direttamente con la vista tutto l'apparato digerente, dalla cavità orale all'ano: gli apparecchi, indicati come gastroduodenoscopio, ileoscopio, colonscopio, sono costituiti da un fascio di centinaia di migliaia di sottili fibre di materiale plastico, dette ottiche, che permettono non solo di illuminare con luce fredda le cavità gastrointestinali, ma anche di ottenere un'immagine nitida, filmabile a colori. Nella diagnosi di ulcera peptica postoperatoria, il valore del risultato dell'indagine endoscopica è di gran lunga superiore al responso radiologico, anche se molto ben eseguito; e non meno importante è questo esame nello studio delle gastriti, delle ulcere da stress, della duodenite, delle ulcere duodenali non penetranti, nelle quali l'indagine radiologica non dà alcun reperto per le piccole dimensioni e la superficialità dell'erosione e dell'ulcerazione. Situazioni nelle quali l'endoscopia si è dimostrata veramente insostituibile sono, per esempio, i casi di emorragia dell'apparato digerente, nei quali l'indagine radiologica spesso non riesce a dimostrare alcuna lesione, mentre con il gastroscopio è possibile individuare l'erosione sanguinante; gli itteri, la cui ben nota difficoltà diagnostica differenziale è oggi superata dal corretto impiego della gastroduodenoscopia, che rende possibile riconoscere la papilla e introdurvi un catetere, onde eseguire una colangiografia e un esame radiografico del dotto di Wirsung; le coliti e i polipi del colon, nella cui diagnosi è veramente prezioso il colonscopio.
Gli strumenti che abbiamo ora ricordato sono flessibili e seguono facilmente le curvature del tubo digerente, permettendo quindi di eseguire l'esame in anestesia di contatto sulla mucosa ed eliminando la necessità di curarizzare i malati, come sarebbe altrimenti necessario qualora si usassero strumenti rigidi: per esempio, nella esofagoscopia con tubo rigido è necessario curarizzare il paziente, perché solo così si rettificano le curve della colonna vertebrale e si evita il pericolo di perforazione dell'esofago; con lo strumento flessibile si seguono queste curve, e viene meglio precisata la diagnosi di esofagite da rigurgito o di un'ernia iatale da scivolamento di piccole dimensioni.
6. Chirurgia dell'esofago
a) Miotomia extramucosa
Il primo intervento di miotomia extramucosa, eseguito da E. Heller di Lipsia nel 1913, nella forma di una doppia incisione extramucosa dei cardias, si dimostrò risolutivo, ma poté affermarsi praticamente solo trent'anni dopo, quando l'intubazione endotracheale eliminò il pericolo del pneumotorace postoperatorio. Del resto, la dilatazione forzata del cardias con la sonda di Plummer dava risultati molto buoni, per quanto, essendo una manovra alla cieca, era accettata con riluttanza dai chirurghi. La stessa manovra dilatante era stata proposta nel secolo precedente da P. Loreta di Bologna, che eseguiva una gastrotomia e divulsionava il cardias introducendovi un dilatatore da guanti. L'intervento di Heller è stato eseguito anche per via addominale, e ancora oggi preferiscono questo accesso alcuni chirurghi che, per evitare un possibile rigurgito gastroesofageo con conseguente esofagite peptica, eseguono dopo la cardiotomia l'esofagogastroplicatio secondo R. Nissen. La tecnica originale è stata poi modificata nel senso che si pratica un'unica incisione per evitare il rigurgito gastroesofageo postoperatorio. Altri chirurghi, invece, e sono i più numerosi, preferiscono oggi accedere all'esofago attraverso un incisione toracica nel nono spazio a sinistra; per evitare una recidiva, dovuta allo stabilirsi di una cicatrice fra i margini dell'incisione muscolare, è stato proposto di portare in alto una plica di parete gastrica o l'omento.
b) Diverticoli
I diverticoli esofagei del tipo illustrato da F. A. Zenker, cioè localizzati alla giunzione laringoesofagea, già si operavano all'inizio del nostro secolo. L'intervento era eseguito in due tempi: nel primo, il diverticolo, e specialmente il suo fondo, veniva liberato, quindi rovesciato e il fondo si fissava in alto in modo da eliminare la difficoltà del passaggio del cibo e permettere così al malato un buon recupero delle condizioni generali; nel secondo tempo si asportava il diverticolo. Questo procedimento consentiva anche una minore incidenza di complicanze infettive.
Dopo l'avvento della antibioticoterapia, l'operazione viene eseguita in un tempo unico. I diverticoli esofagei, localizzati nella porzione toracica, vengono operati in un tempo per via transtoracica destra; si è rilevata l'utilità di aggiungere a questo tipo di intervento una corta miotomia sottostante il diverticolo.
c) Stenosi e tecniche di esofagoplastica
Molto interessante è l'evoluzione della chirurgia della stenosi esofagea da caustici, i cui primi tentativi furono effettuati da chirurghi romeni e russi. Ricordo che all'inizio del secolo il metodo in uso consisteva in una esofagoplastica con tubo di pelle che univa l'esofagostomia cervicale alla gastrostomia addominale. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, questi interventi di esofagodermatoplastica quasi mai erano seguiti da guarigione completa per la difficoltà di chiudere le fistole che si costituivano a livello della esofagostomia a causa del potere triptico della saliva.
L'affermarsi della chirurgia toracica ha portato alla esofagogastroplastica, cioè alla mobilizzazione dello stomaco dalla milza e alla sua trasposizione nel torace destro dove, chiuso il cardias, il fondo gastrico viene anastomizzato all'esofago dilatato nel tratto soprastenotico. L'intervento viene eseguito per via addominale e toracica destra.
Gavriliu di Bucarest e Lortat-Jacob di Parigi hanno elaborato una tecnica di formazione di un tubo gastrico a spese di tutta la grande curvatura, alimentato dall'arteria splenica e dai suoi vasi gastrici brevi; il tubo viene poi ribattuto verso l'alto e portato, attraverso un tunnel sottosternale, nel mediastino anteriore e poi al collo, dove viene anastomizzato all'esofago cervicale.
S. S. Judin di Mosca ha dimostrato che il digiuno può venire sezionato a livello della terza arcata e che il suo moncone inferiore irrorato dalla quarta arcata può essere mobilizzato, portato attraverso il mediastino anteriore e anastomizzato al collo, allo stoma esofageo; alla fine dell'intervento, il moncone efferente dell'ansa digiunale si anastomizza allo stomaco, e viene così ricostruita la continuità del digiuno. Questa tecnica di esofagodigiunoplastica ha incontrato largo favore, e una statistica di parecchie centinaia di casi è stata pubblicata da Petrov di Mosca; a essa si è aggiunta un'altra tecnica, la esofagocolonplastica, nella quale si impiega analogamente al digiuno il colon, con disposizione sia iso- sia antiperistaltica, la cui vitalità è assicurata dall'arteria colica media.
d) Cancro
Il problema della ricostruzione esofagea è altrettanto importante nella cura chirurgica del cancro esofageo. Nel cancro dell'esofago cervicale è stata proposta e attuata con successo da Nakayama di Tōkyō la sostituzione di questo segmento, dopo la resezione del tratto affetto da cancro, con il sigma, anastomizzando l'arteria e la vena sigmoidea ai rami della succlavia e della carotide esterna: le anastomosi vascolari vengono eseguite da Nakayama con un'apparecchiatura da lui costruita. È evidente che in tutti questi casi si tratta in effetti di un autotrapianto con anastomosi vascolare.
Nei casi di cancro dell'esofago toracico, il problema per il chirurgo è del tutto analogo a quello della plastica esofagea per stenosi, naturalmente non nei riguardi della resezione ma solo della ricostruzione. Nel 1913, Franz Torek, che per primo operò la resezione di un cancro esofageo, non eseguì la ricostruzione, ma con un tubo tentò di collegare lo stoma esofageo al collo con lo stoma gastrico addominale. Recentemente, anche per questa sede toracica è stato eseguito un intervento di trasposizione di un'ansa digiunale che viene interposta fra i monconi residuati alla resezione, e la cui vitalità viene assicurata dalla conservazione del peduncolo vascolare della quarta arcata o da sutura vascolare come quella suggerita da Nakayama.
La resezione gastroesofagea per i cancri del cardias è stata proposta con visione pionieristica dal nostro D. Biondi, di Siena, nel 1895, che poté sperimentalmente dimostrare la sopravvivenza di cani così operati: tuttavia, la presentazione di questo suo lavoro sperimentale alla Società Italiana di Chirurgia, nell'anno seguente, gli procurò vive rimostranze critiche. L'operazione progettata dal Biondi fu eseguita 40 anni dopo, nel 1937, da E. F. Sauerbruch: egli però eseguiva l'intervento non con una resezione immediata ma provocando una necrosi del tratto malato mediante l'annodamento di una fettuccia su uno stelo meccanico che veniva invaginato nello stomaco. Adams e Phemister, nel 1939, eseguirono la resezione gastroesofagea e successivamente l'anastomosi con sutura del moncone esofageo e del moncone gastrico mobilizzato, che in tal modo si possono trasferire in parte e trasporre nel mediastino posteriore. Dopo il 1946 W. F. Rienhoff, e poi Philip Allison di Oxford, procedettero a estese esofagectomie seguite da esofagodigiunoplastica. Oggi la tecnica preferita è quella della esofagocolonplastica, che rende possibile una estesa linfadenectomia periesofagea e perigastrica.
e) Ernia diaframmatica
L'ernia diaframmatica di origine traumatica viene aggredita a preferenza dalla via transtoracica, perché questa via permette un'eventuale toracoplastica delle costole inferiori e quindi la possibilità di ridurre l'ampiezza dell'emidiaframma e indirettamente della stessa porta erniaria evitando la tensione delle suture della breccia. D'altra parte, alla via toracica, che permette anche di controllare le aderenze dei visceri addominali erniati agli organi endotoracici, si può facilmente aggiungere, se necessario, un accesso addominale. L'ernia con esofago corto, di solito caratterizzata dalla esofagite da rigurgito, rappresenta oggi, assieme all'ulcera semplice dell'esofago, un'indicazione alla esofagodigiuno- o esofagocolonplastica. Nelle ernie iatali si dà la preferenza all'accesso addominale, che permette una facile riduzione del viscere e del cardias con controllo completo della porta erniaria nonché la mobilizzazione del frequente pseudolipoma erniario, costituito dal grasso retroperitoneale erniato nel mediastino dietro l'esofago e poi resosi ipertrofico. La breccia viene chiusa facilmente, con punti staccati, posteriormente all'esofago fino alle dimensioni necessarie a evitarne una stenosi, fissando su questo organo con il punto inferiore il lipoma erniario mobilizzato: tale procedimento rappresenta il mezzo migliore per ancorare lo stomaco nell'addome e per evitare la recidiva erniaria. Se coesiste uno stato di esofagite da rigurgito, diventa facile la manovra, consigliata da Nissen, della esofagogastroplicatio: in genere è opportuno in questi casi sezionare fra legature i vasi brevi superiori. Poiché l'esperienza dimostra la grande frequenza dell'associazione all'ernia iatale di una calcolosi della colecisti (e della diverticolosi del colon nella triade di Saint) è possibile, dopo aver provveduto alla riparazione dell'ernia, procedere a un intervento di colecistectomia o altro che sia indicato dalla colangiografia peroperatoria.
7. Chirurgia gastrica
Dopo un periodo identificabile nel ventennio precedente la seconda guerra mondiale, in cui la tecnica delle varie operazioni palliative e radicali era andata gradualmente perfezionandosi, per i rapidi progressi delle discipline collaterali sono presto divenuti possibili interventi più radicali fino a quelli detti ultraradicali.
a) Cancro
Indicativa a tale proposito è la gastrectomia totale associata alla splenectomia, alla resezione del pancreas e alla linfadenectomia sopramesocolica: tale tecnica ha reso possibile aggredire casi di cancro diffuso dello stomaco, altrimenti non operabili. La mortalità operatoria, ovviamente elevata in interventi così allargati, appare compensata dalla sopravvivenza di una discreta percentuale di operati che altrimenti non avrebbero avuto che pochi mesi di sopravvivenza. Tuttavia, poiché la percentuale di sopravvivenza dopo una resezione gastrica per cancro, sia pure ampia e allargata, è ancora bassa, di poco superiore al 20%, si tende oggi a sostituire a tale intervento la gastrectomia totale con ampia linfadenectomia. L'osservazione clinica ha dimostrato che i fenomeni di carenza (agastria) dovuti all'asportazione totale dello stomaco sono modesti o addirittura assenti se la ricostruzione della continuità fra esofago e intestino viene fatta piuttosto con il duodeno che con il digiuno. La mobilizzazione del duodeno e della testa del pancreas permette spesso un'anastomosi senza trazione tra l'esofago caudale e la porzione sottopilorica del duodeno; quando ciò non sia facile è preferibile interporre fra l'esofago e il duodeno un'ansa digiunale isolata, secondo la tecnica di Longmire e di Tosatti, mantenendo il corrispondente fascio vascolonervoso e situando l'ansa in senso isoperistaltico. Naturalmente, alla fine dell'intervento si ristabilisce la continuità del digiuno con anastomosi capo a capo. L'importanza della linfadenectomia, quanto più possibile completa, è stata dimostrata da O. Wangensteen con la sua proposta del second look: egli ha praticato in alcuni operati, sei mesi dopo l'intervento di resezione gastrica per cancro, un secondo intervento per ricercare altri linfonodi che potevano essere sfuggiti all'osservazione e all'asportazione nel corso del primo e che ora, aumentati di volume perché sede di metastasi, venivano individuati. Addirittura ha proposto un terzo intervento allo stesso scopo.
L'aver riconosciuto oramai universalmente l'importanza dell'ulcera gastrica (non di quella duodenale) quale malattia precancerosa, ha indotto tutti i chirurghi a trattare tale malattia con un intervento radicale; è probabilmente per questo motivo che il cancro dello stomaco nelle statistiche operatorie americane non è più al primo posto come frequenza di sede, e in quelle italiane, nelle quali invece occupa ancora il primo posto, non mostra quell'aumento di frequenza che si osserva per tutte le altre localizzazioni del cancro.
b) Ulcera gastroduodenale
Sembrava acquisito che la cura più razionale di questa malattia fosse rappresentata dalla resezione gastrica anziché dalla gastroenteroanastomosi o gastrodigiunostomia, intervento seguito, in almeno il 30% dei casi, dalla comparsa di una nuova ulcera a livello dell'anastomosi, l'ulcera peptica postoperatoria. Gli studi sulla secrezione gastrica, iniziati già al principio del secolo scorso e mai interrotti, hanno dimostrato che la resezione gastrica interessa la metà destra dello stomaco, che si continua con il piloro e viene indicata come antro, lasciando intatta la porzione che secerne il succo gastrico: questo infatti viene secreto dalla parte prossimale, sottoesofagea dello stomaco, cioè dal corpo e fondo gastrico, parte che giustamente è considerata la fabbrica dell'acido cloridrico e della pepsina. L'operazione di resezione che demolisce l'antro, tuttavia, elimina la sede della formazione della gastrina, sostanza responsabile dell'attività della porzione secernente dello stomaco.
L'eccessiva secrezione gastrica appare in ultima analisi la vera causa dell'ulcera gastroduodenale, per autodigestione mucosa: ciò sarebbe confermato dalla osservazione che nei casi di sindrome di Zollinger-Ellison, nei quali la quantità di succo gastrico acido, anzi iperacido, secreto nelle 24 ore supera i due litri, ogni intervento sullo stomaco è seguito dalla formazione di una nuova ulcera, a meno che non si proceda a una gastrectomia totale. L'eccesso di gastrina caratteristico di tale condizione sembra dipendente da un tumore (gastrinoma) costituito da cellule delle isole pancreatiche, dette ‛non beta', talvolta proliferanti diffusamente così da dar luogo a un'adenomatosi del pancreas. Nella cura di tale malattia, oggi, piuttosto che a un intervento di demolizione pancreatica, si dà la preferenza all'asportazione totale dello stomaco.
È stato dimostrato che la vagotomia bilaterale sopprime praticamente la secrezione della gastrina: l'intervento consigliato in Francia nel 1922 da Latarjet ed eseguito in Italia nel 1927 e 1932 da Pieri, è stato poi ripreso e propagandato in America da L. R. Dragstedt, di Chicago, nel 1943 e attualmente un numero sempre maggiore di chirurghi, seppure ancora sempre costituenti una minoranza, mostra di preferirlo. Poiché la resezione dei vaghi è seguita da uno stato spastico del piloro e da diarrea, si esegue la cosiddetta vagotomia selettiva, limitata alla sezione dei rami nervosi che vanno allo stomaco con conservazione dei rami per le vie biliari, per il pancreas e per il resto dell'apparato digerente; inoltre, per ovviare allo spasmo pilorico, viene generalmente associata una piloroplastica o una gastroenteroanastomosi. Alcuni chirurghi addirittura asportano un piccolo tratto di antro gastrico con il piloro, eseguono cioè un'operazione detta antrectomia. Questo intervento è praticamente privo di mortalità e i risultati, specie nelle ulcere non penetranti, sembrano buoni e sovrapponibili a quelli che si ottengono con la resezione gastrica, intervento che richiede indubbiamente maggior grado di abilità ed esperienza da parte del chirurgo. All'eccessiva secrezione gastrinica è attribuita una forma particolare dell'ulcera, detta ulcera da stress, perché consegue a sforzi eccessivi e spesso compare dopo ustioni o nel decorso postoperatorio, specialmente dopo interventi per esempio sul cervello, per aneurismi aortici, di resezione polmonare e di resezione del colon, o per fratture maggiori dello scheletro: l'ulcera si rivela attraverso profuse emorragie gastriche, con conseguenti copiose ematemesi e melene, tanto che ripetute e abbondanti emotrasfusioni sono seguite solo da un effimero miglioramento e la morte sopravviene in oltre il 50% dei casi. Fra le prime osservazioni di queste ulcere si ricordano quelle di T. B. Curling in casi di ustionati morti poi per ematemesi, e quelle successive di M. Cushing su pazienti deceduti per emorragie conseguenti a ulcera acuta dello stomaco dopo interventi per tumori del cervello. I progressi compiuti in questi ultimi anni nella conoscenza di questa forma morbosa hanno consentito di dimostrare la possibilità della sua insorgenza in pieno benessere, al di fuori di alcun precedente anamnestico, in soggetti che abbiano fatto abbondante uso di determinati farmaci, quali l'aspirina o altri antireumatici, o dopo intensa ebbrezza alcolica, ecc. Con ricerche di fisiopatologia, condotte anche con l'impiego della gastroscopia mediante fibroscopio flessibile, si è potuto accertare che la sede delle lesioni ulcerose è duodenale e gastrica, e che la loro causa è identificabile in un eccesso di secrezione gastrica, dipendente da una abnorme produzione di gastrina, forse sulla base di una predisposizione rappresentata dal rigurgito del contenuto duodenale nella regione centrale. In questi casi, se non si riesce ad arrestare l'emorragia, la terapia di elezione consiste in un intervento di resezione gastrica di urgenza.
8. Chirurgia del fegato e delle vie biliari
Anche qui, come per la chirurgia dello stomaco, si può dire che l'opera di sistematizzazione è stata completata nei primi quattro decenni del secolo; è di questo periodo l'introduzione di tecniche e di strumenti di importanza fondamentale, quali la coledocoduodenostomia proposta da Sasse e sostenuta da R. Alessandri e P. Valdoni, il drenaggio transduodenale di Voelcker, il tubo di Cattel, il tubo di H. Kehr per il drenaggio del coledoco.
a) Calcolosi e discinesie delle vie biliari extraepatiche
In tutto il mondo, la proposta di Mirizzi di Cordoba di eseguire la colangiografia intraoperatoria è stata accolta così, largamente che oggi può essere considerato negligente il chirurgo che voglia eseguire un intervento sulle vie biliari senza questa indagine: si è così dimostrata la frequenza della calcolosi del coledoco, cosiddetta minima, associata alla calcolosi della colecisti e asintomatica e degli stati di spasmo e di discinesia dello sfintere coledocico. Essenzialmente per questa ragione, si è enormemente diffusa la papillostomia transduodenale, intervento che assicura un facile deflusso della bile dal coledoco.
La colangiografia intraoperatoria è importante anche nella diagnostica delle pancreatiti croniche, specie delle forme indurative che possono essere equivocate con il cancro della testa del pancreas, in quanto attraverso la papilla si può facilmente procedere al cateterismo del dotto pancreatico di Wirsung; in questi casi è inoltre importante un dato indiretto colangiografico, rappresentato dal modesto calibro del coledoco nel tratto intrapancreatico e dalla dilatazione della porzione soprapancreatica. Nel trattamento di queste forme, la coledocoduodenostomia ha naturalmente una più esatta indicazione rispetto alla papillostomia.
b) Stenosi del coledoco
La epaticodigiunostomia con ansa a Y ha ormai superato la fase sperimentale, e per alcuni chirurghi francesi è anzi l'intervento sempre indicato nella calcolosi multipla del coledoco con dilatazione dell'epatico. Mi sembra tuttavia che l'indicazione sia talora eccessiva, perché la papilloplastica transduodenale può dare risultati assai brillanti con un intervento molto meno aggressivo. Certamente, però, nelle stenosi cicatriziali del coledoco e nella riparazione delle lesioni operatorie delle vie biliari, è preferibile l'anastomosi terminoterminale epaticodigiunale. Nelle perdite di sostanza di origine operatoria, ha trovato applicazione il metodo di drenaggio esterno di Rodney Smith, l'unico a poter risolvere nei casi più gravi e complessi lo stato di ittero cronico e di cirrosi biliare.
c) Ipertensione portale
Notevole è stato il progresso compiuto negli ultimi due decenni nella diagnostica e nella cura della ipertensione portale: oltre all'importante contributo del laboratorio nei riguardi di alcuni esami come la bilirubinemia diretta e indiretta, la proteinemia, il rapporto A/G, il quadro sieroproteico, lo studio della ritenzione della fenolsuifonftaleina e del rosa bengala, bisogna ricordare l'enorme importanza della splenoportografia, introdotta prima sperimentalmente da S. Abeatici e L. Campi, e del cateterismo delle sovraepatiche che, a catetere occludente la vena, è in grado di fornire i valori di pressione esistenti nel territorio portale. Grazie a questi esami è possibile classificare le ipertensioni portali in sopraepatiche e sottoepatiche, e queste in ipertensioni a fegato sano per trombosi portale e ipertensioni con fegato cirrotico. Tali ultimi tipi di ipertensione si sono riconosciuti in rapporto, piuttosto che a un ostacolo al circolo venoso, a uno shunt o cortocircuito fra i rami dell'arteria epatica di ordine precapillare e le vene sovraepatiche e i sinusoidi portali, in dipendenza del fatto che i capillari del lobulo, al pari delle cellule, degenerano. L'ipertensione rappresenta un'indicazione a una decompressione anche della porta intraepatica: per conseguire questo risultato nelle ipertensioni con cirrosi epatica, anche se di origine etilica, per le quali l'indicazione è meno precisa e l'esito lontano meno buono di quanto non lo sia per le cirrosi postnecrotiche e postepatitiche, si procede a un'anastomosi portacava laterolaterale.
Personalmente, consiglio come primo atto dell'operazione l'esecuzione della splenectotnia, in quanto l'anastomosi vascolare risolve il problema delle varici esofagee e quello dell'ascite, non l'ipersplenismo. La scomparsa dell'ascite è in rapporto alla caduta pressoria postoperatoria nei sinusoidi, che rende facile il deflusso transepatico dei linfatici. Si è cercato di sostituire all'anastomosi portocava anastomosi minori, anche con trapianti venosi (per es. Stipa usa la vena giugulare interna dello stesso paziente), o sezionando la vena renale a valle della surrenale e della spermatica, onde mantenere inalterata la circolazione venosa renale e impiantando il moncone capo a capo nella vena splenica, dopo splenectomia, o nella vena mesenterica superiore. L'anastomosi splenorenale terminoterminale è da preferire a quella terminolaterale, che va incontro a facile ostruzione trombotica; l'anastomosi mesentericorenale è particolarmente indicata nei casi di ipertensione a fegato sano, perché nei casi di cirrosi non decomprime la parte intraepatica della porta. Nei casi di varici esofagee sanguinanti, oltre all'immediata applicazione della sonda esofagea emostatica di Sengstacken (preferibile a quella di Blackmore), si può eseguire, come intervento d'urgenza, l'anastomosi portacava o l'operazione suggerita da Walker: in questo intervento si apre alla base l'emitorace destro, si estrinseca dal mediastino posteriore l'esofago e se ne incide poi longitudinalmente, secondo la direzione dei fascetti muscolari, la tonaca muscolare, quindi si seziona fra enterostati e un po' obliquamente il cilindro mucoso. Le varici sono distribuite su tre colonne: si provvede alla loro legatura, e poi si suturano capo a capo a punti staccati i due monconi, ricostituendo la continuità della tonaca mucosa dell'esofago. Si affrontano poi a punti staccati i margini della tonaca muscolare e, rimesso in sede l'esofago, si chiude il torace lasciando un drenaggio pleurico a tenuta, attraverso uno spazio intercostale.
d) Tumori del fegato
Un compito importante nella chirurgia del fegato è stata la sistematizzazione dell'intervento della resezione epatica. In analogia a quanto già si conosceva per il polmone, anche nel fegato è stata riconosciuta una costituzione in unità elementari anatomiche individualizzabili e rappresentate dai segmenti, dei quali è così possibile compiere accurate resezioni, tralasciando le lobectomie atipiche che erano prima praticate: per la corretta esecuzione di tali interventi si identificano e si sezionano progressivamente i rami arteriosi, quelli venosi portali e sopraepatici e il dotto corrispondente al segmento. Questo tipo di chirurgia demolitiva si è dimostrato efficiente in casi di tumori (epatomi) circoscritti del fegato, e nei casi di metastasi uniche che vengono messe in evidenza nel corso di un intervento demolitivo per cancro dello stomaco o per cancro intestinale.
e) Coma epatico
Il trapianto omologo del fegato ha dato qualche risultato eccezionale nelle mani di Starzel di Denver; le difficoltà tecniche, per quanto assai notevoli, sono state superate anche grazie a particolari accorgimenti nei riguardi della sezione della cava per l'allacciamento delle sovraepatiche e dell'aorta per quello dell'arteria epatica. Un fegato di animale è stato usato in modo analogo al rene artificiale in alcuni casi di coma epatico. Il problema è ancora in fase sperimentale.
9. Chirurgia del pancreas
a) Tumori insulari
Come ho già accennato, un notevole vantaggio ha rappresentato per lo studio e la diagnosi delle malattie del pancreas l'introduzione della angiografia selettiva del tronco celiaco e della mesenterica superiore, e quella della scintigrafia. Tali tecniche consentono la dimostrazione radiologica dei tumori insulari con la precisazione della sede e del numero; in precedenza, la ricerca di queste neoplasie, specialmente se di piccole dimensioni, era molto difficile e poteva risultare vana costringendo talvolta il chirurgo a operare resezioni pancreatiche estese. Occorre ricordare che nel pancreas è possibile non soltanto lo sviluppo di tumori insulari ipoglicemizzanti, ma anche di gastrinomi (vedi ulcera gastrica) e, sia pur raramente, di lipomatosi, responsabili del cosiddetto ‛colera pancreatico'.
b) Calcolosi, pancreatiti croniche, cancro
La scintigrafia è particolarmente utile per lo studio delle pancreatiti croniche in cui manchino calcificazioni e in assenza di calcoli pancreatici, sempre ben riconoscibili perché radiopachi. Per la cura della calcolosi pancreatica è stato consigliato da Pustow un intervento non demolitivo, consistente nell'isolare un'ansa digiunale a Y secondo Roux e nel fissarla, spaccata sul versante antemesenterico, ai margini sclerotici del pancreas e del suo dotto ampiamente aperto. L'esperienza non è tuttavia ancora così estesa da far sostituire questo metodo a quello abituale della resezione del corpo e della coda con ampia papillostomia transduodenale e sfinterotomia del dotto pancreatico. Nella pancreatite prevalentemente cefalica è indicata l'operazione che è stata progettata ed eseguita dal Codivilla già alla fine del secolo scorso, e cioè la cefaloduodenopancreatectomia: oggi, questo intervento è naturalmente meglio regolato, meglio sopportato dai pazienti, ma è pur sempre complesso e grave, e trova la sua indicazione nei cancri del pancreas e nelle pancreatiti croniche caratterizzate dall'estrema intensità dei dolori pancreatici.
c) Pancreatiti acute
La prognosi delle pancreatiti acute, la cui diagnosi è affidata principalmente alla determinazione del tasso della amilasemia, della lipasemia, della amilasuria, è molto migliorata in seguito a trattamento medico con callicreina, cortisonici ad alte dosi ed emotrasfusioni. Poiché nella maggior parte dei casi c'è una condizione infettiva spesso impiantata su una calcolosi delle vie biliari, l'intervento di drenaggio esterno della bile determina un'azione favorevole assai evidente.
10. Chirurgia del tenue, del colon e del retto
a) Adiposità
Si è recentemente osservato che nei casi di adiposità resistente ai trattamenti medici, estese resezioni ileali o enteroenteroanastomosi, realizzando dei cortocircuiti e quindi riducendo la superficie assorbente intestinale nei riguardi degli ingesti, sono seguite da perdita del peso.
b) Aderenze e sindromi ostruttive duodenodigiunali
Meno recente è l'introduzione di una importante tecnica nella risoluzione degli stati di ostruzione intermittente aderenziale, di solito postoperatoria: in questi casi, Noble ha proposto di eseguire una viscerolisi completa, e di disporre poi le anse ileali a fisarmonica, fissandole in questa posizione con alcuni punti sieromuscolari. Allo stesso scopo è stato da noi proposto l'intervento di derotazione intestinale, mediante il quale si raggiunge una condizione che esiste spontanea in patologia, nel mesenterio comune. L'indicazione a questo intervento si ha anche nella sindrome ostruttiva duodenodigiunale da compasso aortomesenterico e nei casi in cui sia necessario procedere a una resezione dell'angolo duodenodigiunale (ansa di Treitz) o quando, dopo colectomia, si debba ricostruire la continuità del digerente con anastomosi ileorettale.
c) Ileite regionale
Nel 1935, B. B. Chron, L. Ginzburg e G. D. Oppenheimer descrissero la cosiddetta ileite terminale, oggi meglio definita come ileite regionale; questo quadro patologico, in realtà, come si osservò già nei primi anni dopo il suo riconoscimento, può interessare oltre la porzione terminale dell'ileo anche il colon. Nonostante i molti casi studiati, non si sono ancora compiuti progressi decisivi nei riguardi della conoscenza dell'eziologia di tale malattia; è certo comunque che questa rappresenta una netta indicazione alla resezione del tratto colpito e che solo l'intervento è in grado di portare a guarigione. Purtroppo, proprio per l'assenza di conoscenze sulla causa della malattia, non mancano le recidive e vi sono alcuni casi di ileite gangrenosa di estrema gravità. La diagnosi differenziale nei riguardi della colite ulcerosa cronica, molto più frequente, non è facile: può soccorrere l'esame macro- e microscopico del tratto colpito, che nei casi di malattia di Chron consente di rilevare il tipico aspetto ad ‛acciottolato romano' della mucosa, la presenza di zone pressoché indenni corrispondenti alle isole delimitate dalle ulcerazioni, i caratteri dell'infiltrazione che non interessa la tonaca muscolare e dell'ulcerazione che non si approfonda di solito sotto la muscolare della mucosa; inoltre nelle forme segmentarie i linfonodi sono notevolmente ingrossati e piuttosto facile è il reperto di fistole enteroenteriche. Il segno radiologico che appariva caratteristico della ileite, quello cosiddetto ‛della corda', è in realtà di riscontro poco frequente.
d) Cancro del sigma e del retto
La chirurgia del colon e del retto, fino a non molti anni fa essenzialmente demolitiva, è divenuta piuttosto conservativa soprattutto in considerazione della grave menomazione derivata ai pazienti dalla costituzione di un ano preternaturale. Il cancro del retto fu inizialmente operato, alla fine del secolo scorso, con criteri esclusivamente demolitivi da grandi chirurghi, quali Kraske e Hochenegg. La sistematizzazione degli interventi per cancro del retto e del colon sigmoideo si deve ai chirurghi inglesi, come il Lockhart Mummery e soprattutto W. E. Miles, le cui precise regole per l'amputazione addominoperineale, per l'alta percentuale di guarigioni definitive, vennero largamente accettate: purtroppo, il buon risultato lontano è ottenuto a spese di una invalidante colostomia permanente. Thomson, Abel, Morgan sono i più conosciuti allievi che continuano l'opera del maestro. Dopo la guerra, la tecnica operatoria subisce modificazioni importanti: la maggiore ampiezza della linfadenectomia, ottenuta sezionando, all'origine dell'aorta, l'arteria mesenterica superiore anziché l'arteria sigmoidea; la conservazione parziale dell'ano e del retto, resa possibile dagli studi anatomopatologici dimostranti che il tumore si diffonde verso l'alto, mentre a pochi centimetri sotto il margine apparente, cioè distalmente, il tessuto non è mai invaso. Questi concetti, inizialmente accettati da F. d'Allaines in Francia, da H. Bacon in America e da chi scrive in Italia, ebbero presto rapida diffusione: oggi, nel 70% dei casi, il cancro del rettosigma può venire operato con le nuove tecniche altrettanto radicalmente che con l'operazione di amputazione e con gli stessi esiti lontani, ma con conservazione della integrità funzionale. Dopo ampia resezione della parte superiore del retto e del colon sinistro, viene eseguita una anastomosi fra il colon trasverso e la giunzione del retto, designata come resezione anteriore, o tra lo stesso colon trasverso e la parte inferiore del retto, cosiddetto metodo del pull through.
e) Colite ulcerosa
La prognosi della colite ulcerosa è oggi meno severa grazie ai progressi compiuti dalla terapia e dalla diagnostica. Nelle forme acute, infatti, contrassegnate dalla estrema gravità, la terapia medica ha potuto registrare notevoli successi grazie soprattutto a un accurato mantenimento dell'equilibrio idrosalino, a una chemioterapia basata principalmente sulla salazopirina, sulfammidico dotato di un elevato grado di affinità per il tessuto connettivo, all'impiego dei cortisonici per ridurre l'entità della risposta tessutale e combattere l'eventuale fattore allergico implicato nella patogenesi della malattia. Nelle forme croniche è possibile la diagnosi precoce, nelle fasi iniziali, sia radiologicamente con la tecnica del clisma misto consistente nella verniciatura della parete intestinale con sospensione di bario e nella distensione dell'intestino con aria, sia mediante colonfibroscopia: il colonscopio a fibre ottiche, flessibile, nei modelli recenti, permette una facile esplorazione visiva diretta di tutto il colon fino al cieco, rendendo facile la diagnosi differenziale con la colite, con i polipi e la poliposi diffusa, con il cancro, con l'ileite regionale. Nella cura chirurgica della malattia, poiché la ciecostomia, introdotta già all'inizio del secolo, non dà quasi mai l'esclusione funzionale completa del colon dal transito fecale, si preferisce attualmente un'ileostomia definitiva, a meno che le condizioni del malato non siano estremamente gravi. La colectomia totale determina la guarigione; l'impiego di borse di plastica contenitive, a perdere, autoaderenti alla cute dell'addome, allevia in parte il disturbo provocato da un ano addominale artificiale. Nelle forme gravi, alla colectomia si aggiunge la rettoproctectomia, cioè l'asportazione del retto e dell'ano. Nelle forme meno gravi si conserva il retto, in attesa di una successiva possibile guarigione della rettoproctite che renda possibile l'eliminazione dell'ano ileale trasferendo il moncone intestinale all'ampolla, con tecniche operatorie complesse di plastica ricostruttiva.
f) Poliposi intestinale
La poliposi intestinale, quasi sempre familiare, rappresenta una lesione precancerosa: accertata la diagnosi, è necessario praticare l'asportazione del tratto del colon malato. Generalmente, i polipi del retto guariscono spontaneamente dopo colectomia e possono venire elettrocoagulati per via endoscopica, così che di solito si elimina la necessità di creare un ano preternaturale permanente. I polipi isolati, che debbono essere anche considerati lesioni precancerose, possono venire elettrocoagulati e asportati per via colonfibroscopica, a eccezione di quelli di più grandi dimensioni.
g) Appendicite
Per concludere l'argomento della chirurgia del colon, basterà appena accennare all'appendicite, la cui diagnosi è oggi notevolmente più facile per il progresso degli studi e dell'esperienza: l'impiego largamente esteso degli antibiotici nei processi morbosi più vari, anche di lieve entità, ha certamente ridotto la frequenza della malattia, e d'altra parte la possibilità di eseguire un intervento precoce, in assenza di complicazioni maggiori, determina praticamente una guarigione costante.
11. Chirurgia toracica
Tale branca della chirurgia nacque alla fine dello scorso secolo: a Siena il Biondi studiò sperimentalmente la tecnica di resezione di un lobo polmonare, quale metodica di cura che avrebbe potuto essere impiegata nella tubercolosi polmonare, e più tardi F. Rizzoli a Bologna eseguì la prima lobectomia nell'uomo. Già comunque venivano eseguiti interventi di demolizione della parete toracica nella cura degli empiemi tubercolari, e C. Forlanini aveva iniziato a praticare la collassoterapia con il pneumotorace. L'ostacolo principale all'evoluzione di una vera e propria chirurgia polmonare consisté per molti anni nell'impossibilità di aprire il cavo pleurico senza provocare un pneumotorace aperto, del quale non si era in grado di contrastare efficacemente le temibili conseguenze: collasso del polmone, spostamento del mediastino, infine sbandieramento mediastinico per mancata espansione del polmone sano e penetrazione in esso di aria nell'inspirazione, quindi morte del paziente per asfissia. Fu il Sauerbruch che, dopo uno studio molto accurato di tale condizione, escogitò il mezzo per eliminarne i gravi inconvenienti, consistente nella inclusione in sala operatoria di una camera respiratoria iperbarica ove introdurre la testa del paziente, così che il polmone fosse costretto a espandersi dall'aumento della pressione respiratoria. Fu anche costruita una macchina a motore per somministrare l'aria respiratoria a pressione, ma per l'assenza di un completo rilasciamento muscolare del paziente, che solo la curarizzazione avrebbe dovuto successivamente indurre, l'elevato regime pressorio determinava la rottura degli alveoli e la comparsa di enfisema interstiziale e di false cisti aeree. La soluzione di questi problemi, resa possibile dai progressi conseguiti dall'anestesiologia, doveva presto consentire gli interventi sul polmone.
a) Tubercolosi
Nei casi di tubercolosi polmonare in cui per le estese aderenze pleuriche era impossibile praticare il pneumotorace artificiale, si preferiva impiegare le tecniche di demolizione del torace, cioè la toracoplastica e in alcune circostanze il cosiddetto pneumotorace extrapleurico, consistente nel distaccare la pleura dal piano della fascia endotoracica, e nel mantenere il cavo risultante mediante l'iniezione di aria sotto pressione o di olio o di materiale inerte come la paraffina. Ancora Sauerbruch legò il suo nome a questo periodo dell'inizio della chirurgia della parete toracica: egli eseguiva grandi toracoplastiche di quasi tutte le costole di un lato, demolizioni che tuttavia sono state successivamente ridotte, perché tale ampia asportazione rappresentava un trauma notevole anche se eseguita in anestesia locale. E d'altronde non erano allora conosciute e rispettate quelle fondamentali regole fisiologiche, che furono poi in gran parte studiate da V. Monaldi: questi poté allora suggerire, in collaborazione con E. Morelli, una tecnica operatoria che consentiva di eseguire interventi meno estesi, meno lesivi dell'estetica e altrettanto efficienti. Seguirono presto altre importanti modificazioni della primitiva tecnica di Sauerbruch, come quella proposta da C. Semb e largamente impiegata in tutto il mondo, e l'introduzione di nuove importanti metodiche: l'aspirazione cavitaria transtoracica nelle caverne isolate del polmone di Monaldi, il pneumotorace extrapleurico di A. Omodei Zorini, gli interventi di A. W. Mayer e R. Nissen in Germania, di R. Overholt negli Stati Uniti.
b) Cisti da echinococco e ascessi
Il piombaggio extrapleurico, fino al periodo immediatamente seguente la seconda guerra mondiale, è stato anche dallo scrivente largamente applicato nella cura della cisti da echinococco del polmone, perché le tecniche di Posadas e di altri chirurghi argentini erano purtroppo gravate da una mortalità eccessiva rispetto alla benignità della malattia. Nella corretta esecuzione dell'intervento, dopo la localizzazione radiologica della cisti, si resecava per breve tratto la costola corrispondente al punto indicato dal radiologo, si incideva il periostio, si scollava la pleura parietale così da creare una cavità grande quanto mezza arancia che veniva riempita con garza iodoformica non troppo stipata, quindi si chiudeva completamente la pelle soprastante; dopo quindici giorni, asportata la garza, si trovavano le due pleure tenacemente aderenti, e in tal modo era possibile e facile aprire il tratto di polmone compresso e accedere alla cisti, che veniva svuotata. Questo intervento, presso a poco con una tecnica analoga, è stato largamente usato poi nel trattamento degli ascessi del polmone, che oggi, grazie agli antibiotici, sono praticamente scomparsi.
c) Focolai tubercolari, cisti e malformazioni, tumori
R. Nissen e R. Graham per primi eseguirono, nel 1933, la pneumonectomia. Nissen, a Berlino, mentre curava una giovane affetta da empiema da bronchiectasie, sorpreso dalla improvvisa emorragia dal polmone che stava causticando, decise estemporaneamente di distaccare l'organo dalla parete toracica e di circondarne l'ilo con un tubo di gomma, che allacciò strettamente per assicurare una completa emostasi: nelle giornate seguenti poté quindi osservare la progressiva eliminazione per necrosi del polmone, e più tardi la guarigione della paziente senza fistola. R. Graham di Saint Louis, invece, operò di pneumonectomia un medico affetto da cancro del polmone isolando gli elementi dell'ilo singolarmente e sezionandoli dopo averli legati: anche questo malato guarì, ed era in vita 20 anni dopo l'operazione. Shenstone di Londra propose, poco prima dell'inizio della seconda guerra mondiale, l'uso di un tourniquet da lui appositamente disegnato così da comprimere e schiacciare l'ilo del lobo polmonare. Nel 1939, al Congresso della Società Internazionale di Chirurgia, a Bruxelles, Tudor Edwards di Londra poté presentare nove casi operati di lobectomia.
Gli interventi di resezione polmonare sono subordinati alla possibilità di aprire il cavo pleurico, che per molti anni rappresentò un problema assai arduo per i chirurghi; l'introduzione dell'anestesia con intubazione endotracheale e curarizzazione permise di superare l'ostacolo. Inoltre gli studi di anatomia chirurgica condotti da Overholt consentirono l'esatta individuazione dei lobi e dei segmenti polmonari, e resero così possibile eseguire lobectomie, resezioni polmonari e pneumonectomie. Inizialmente, tali interventi trovavano la loro indicazione nella cura di focolai tubercolari; divenuti progressivamente meno traumatizzanti, furono estesi poi a curare le forme meno gravi di tubercolosi e a eliminare una lesione specifica iniziale onde prevenirne la diffusione al parenchima sano. L'introduzione nella terapia della tubercolosi polmonare degli antibiotici e dei chemioterapici ha praticamente concluso il periodo della cura chirurgica della malattia.
Oggi, le indicazioni maggiori alla exeresi sono rappresentate dalle cisti, dalle malformazioni congenite, dalle rare bronchiectasie, dai tumori benigni come gli adenomi bronchiali, dal cancro. Gli adenomi sono considerati generalmente come tumori dell'apparato cromaffine e vengono diagnosticati facilmente con la broncografia e con la broncoscopia: anche per questo esame si usa un apparecchio costituito da un fascio di fibre ottiche estremamente flessibile, quindi impiegabile con la sola anestesia locale di superficie e in grado di consentire il prelievo di frammenti del tessuto patologico per mezzo di speciali pinze da biopsia in esso introdotte.
L'indicazione più frequente alla exeresi polmonare è però rappresentata dal cancro del polmone: la malattia in alcuni paesi è oggi al primo posto nella frequenza delle localizzazioni cancerose nelle varie sedi, e la sua più efficace terapia è quella chirurgica. L'esperienza moderna dimostra però che l'operazione deve essere precoce, addirittura eseguita quando la malattia è sorpresa in fase preclinica: ciò è reso possibile dalla pratica di sistematiche indagini radiografiche di massa o di controlli radiologici periodici. In queste condizioni si può risparmiare al massimo l'estensione della exeresi e limitare l'intervento a una lobectomia, a cui si aggiunge un'ampia asportazione dei linfonodi dell'ilo e di quelli mediastinici.
Gli interventi di demolizione polmonare sono oggi assai ben regolati, assai ben tollerati e, in ragione delle direttive di una massima conservazione del parenchima polmonare, non sono invalidanti. Nel suo insieme, la chirurgia della parete toracica, del polmone e dei bronchi rappresenta una delle più belle conquiste degli ultimi due decenni.
12. Chirurgia cardiovascolare
Questa branca della chirurgia, il cui progresso è strettamente connesso con quello della chirurgia polmonare, viene oggi preferibilmente considerata scissa nei suoi due rami: la chirurgia cardiaca e quella vascolare, notevolmente diverse per oggetto di studio e per nozioni tecniche. La chirurgia cardiaca, infatti, è diventata una vera superspecialità che richiede un'approfondita preparazione cardiologica e l'abilità a eseguire manovre chirurgiche peculiari che non possono essere di competenza del chirurgo generale; in venti anni essa ha registrato progressi così imponenti da giustificare l'istituzione di specialità collaterali, quali la cardiologia specializzata nella diagnostica strumentale e la radiologia specializzata nell'angiografia selettiva. La necessità di assistere i cardiopazienti nel loro decorso postoperatorio con personale altamente qualificato e con apparecchiature complesse, dai monitor, agli strumenti impiegati per i micrometodi analitici, ha determinato la costituzione di speciali reparti di rianimazione e di cura intensiva cardiochirurgica, ai quali si è fatto cenno in precedenza. Per l'esecuzione di un intervento sul cuore occorre la presenza di anestesisti particolarmente esperti nelle tecniche di rianimazione, di specialisti per il funzionamento della macchina cuore-polmone, per il prelievo e la trasfusione del sangue: non meno di dieci persone, oltre all'operatore. E naturalmente la disponibilità di tutte le attrezzature indispensabili durante l'intervento e nel decorso postoperatorio. Il costo enorme di simili organizzazioni rappresenta ovviamente un notevole problema, per cui si è riservata soltanto agli ospedali più importanti l'istituzione di un reparto di cardiochirurgia.
a) Ferite del cuore e pericardite costrittiva
I primi interventi sul cuore furono eseguiti alla fine del secolo scorso: nel 1897 Parozzani, a Roma, suturò con successo una ferita da coltello del ventricolo sinistro, ripetendo l'operazione tentata l'anno precedente sempre a Roma da Farina e seguita da esito infausto per decesso del malato al quinto giorno; ancora nel 1897, in circostanze identiche, il tedesco L. Rehn praticò lo stesso intervento, ottenendo la guarigione del paziente. Nel 1920, Rehn operò poi per la prima volta un caso di pericardite costrittiva: egli asportò il pericardio ispessito, secondo quanto poi insegnava, ‟così come si fa quando si sbucci una mela e non come quando si sbucci un'arancia". Con l'esecuzione di tale intervento, già previsto da E. Delorme in Francia nel 1898, e più volte ipotizzato teoricamente, parve realizzato il massimo progresso in chirurgia cardiaca! Holman, di San Francisco, perfezionò poi la tecnica della pericardiectomia, dimostrando che tanto più ampia è l'asportazione del pericardio ispessito, tanto migliori sono i risultati lontani dell'intervento: gli accurati studi su numerosi casi di pericardite costrittiva, infatti, avevano potuto metterne in evidenza da un lato la frequente eziologia tubercolare responsabile della formazione di estese aderenze, dall'altro la possibile e non rara esistenza di anelli cicatriziali costringenti le vene cave e causa di ipertensione atriale destra. In tutti i casi, dopo l'intervento di pericardiectomia, la pressione nell'atrio destro torna a valori normali.
b) Embolia della polmonare
Nel 1907, Trendelenburg, in base a un accurato studio anatomico dell'embolia polmonare, illustrò le modalità tecniche per poter intervenire chirurgicamente in questa condizione, ideando anche i necessari strumenti: egli propose di circondare l'arteria polmonare alla base del cuore con un tubo guidato da un passalacci, di sollevarla, aprirla e introdurvi speciali pinze onde asportare l'embolo prima da un ramo e poi dall'altro, quindi di applicare un altro tipo di pinza per chiudere temporaneamente la breccia polmonare senza interrompere la circolazione e in tal modo eseguire infine la sutura dei margini dell'incisione. Tuttavia, dovettero passare venti anni perché un'embolectomia polmonare fosse seguita da guarigione: a questo caso, del chirurgo M. Kirschner, di Monaco, seguirono poi quelli dei chirurghi svedesi Nyström (due interventi), di A. C. Crawford (2), di R. W. Mayer di Berlino (4), quello di Valdoni in Italia nel 1932, quello di Ivor Lewis a Londra nel 1938. Dopo la seconda guerra mondiale furono ancora praticati sporadicamente interventi di questo tipo; poi i rapidi progressi della diagnostica con l'impiego dell'angiografia per via venosa e della scintigrafia, determinarono un notevole miglioramento della tecnica ormai largamente sperimentata quale accesso sistematico per tutte le operazioni sul cuore e in circolazione extracorporea. I casi operati, che fino al 1960 erano appena 23, sono ora centinaia.
c) Persistenza del dotto di Botallo
Nel 1939, R. E. Gross di Boston eseguì il primo intervento di legatura del dotto di Botallo: questo condotto vascolare, mettendo in comunicazione l'arteria polmonare con l'aorta, determina nel feto un cortocircuito tra i due vasi e, insieme al forame di comunicazione interatriale, l'esclusione dei polmoni dalla circolazione. Alla nascita, normalmente, dotto arterioso e forame interatriale si obliterano: la persistenza della loro pervietà costituisce la malformazione descritta da L. Botallo nel 1560, nella quale una parte più o meno importante del sangue aortico a pressione più elevata è deviata nell'arteria polmonare, con conseguente sovraccarico del circolo polmonare ed eccesso di lavoro del ventricolo sinistro. La legatura del dotto di Botallo, perciò, assicura le condizioni anatomiche per una normale circolazione e corregge la malformazione. Questo intervento fu eseguito in Europa per la prima volta da Valdoni nel 1939.
d) Coartazione aortica e tetralogia di Fallot
Nel 1944 Crawford comunicò l'esito favorevole della prima operazione eseguita per correggere la coartazione aortica: egli resecò la porzione stenotica e ricostruì la continuità dell'aorta con sutura capo a capo dei due monconi. Questa malformazione, descritta nel 1750 da G. B. Morgagni, consiste in una stenosi dell'aorta a livello della inserzione del dotto di Botallo, per cui viene detta botalliana, ed è probabilmente conseguente alla diffusione abnorme del normale processo regressivo spontaneo che porta all'obliterazione del dotto: in tali condizioni il sangue, non potendo passare che in minima quantità lungo il tratto stenotico, raggiunge il segmento sottostante dell'aorta e i suoi rami attraverso il circolo collaterale che si costituisce fra i rami della succlavia e la più alta delle arterie intercostali.
Sempre nel 1944, A. Blalock di Baltimora, per suggerimento della collega cardiologa H. B. Taussig, dopo un accurato studio sperimentale, eseguì un'anastomosi terminolaterale fra l'arteria succlavia destra e l'arteria polmonare su un bambino affetto da morbo blu, o malattia cerulea, o tetralogia di Fallot. È anche questa una malformazione: descritta nel 1888 dall'anatomico francese E. L. A. Fallot, è caratterizzata dalla tipica tetralogia consistente in pervietà del setto interventricolare, stenosi istmica dell'arteria poimonare alla sua origine dal ventricolo destro, ipertrofia del ventricolo destro, origine dell'aorta a cavallo del setto interventricolare o destroposizione aortica. I vizi anatomici spiegano le abnormi condizioni circolatorie: il sangue venoso del ventricolo destro passa in gran parte nel ventricolo sinistro e nell'aorta e soltanto in piccola quantità, attraverso l'orifizio stenotico, nella polmonare e quindi ai polmoni; ne consegue un'insufficiente ossigenazione, responsabile di vari sintomi e manifestazioni, come la cianosi, le dita a bacchetta di tamburo, l'accovacciamento o squatting. L'intervento proposto e praticato da Blalock, in definitiva, aggiunge una anormalità anatomica alla tetralogia, in quanto l'anastomosi tra succlavia e polmone ripristina le condizioni esistenti nella vita fetale con la pervietà del dotto di Botallo: esso, tuttavia, consente un maggiore afflusso di sangue ai polmoni, e conseguentemente un'efficiente ossigenazione. Successivamente, W. Lillehay eseguì la prima correzione radicale della tetralogia di Fallot aprendo le cavità cardiache in circolazione extracorporea.
Questi interventi di Blalock, anche se extracardiaci, segnarono l'inizio di una nuova era per la chirurgia e la nascita della cardiochirurgia.
e) Stenosi della polmonare e trilogia di Fallot
Il periodo delle operazioni intracardiache ebbe inizio nel 1948, quando lord R. C. Brock propose la sezione della valvola anormale nella malformazione cardiaca costituita dalla stenosi isolata dell'arteria polmonare. Questa malformazione si associa spesso alla pervietà interatriale, costituendo in tal caso la cosiddetta trilogia di Fallot: pervietà interatriale, stenosi valvolare della polmonare, ipertrofia del ventricolo destro. L'intervento proposto da Russel Brock viene eseguito introducendo successivamente nel ventricolo destro, vicino alla punta in direzione dell'arteria polmonare, due strumenti di sua concezione: prima il cosiddetto valvulotomo per incidere la valvola, quindi il divulsore per provocarne la dilacerazione ed eliminarne il restringimento.
f) Pervietà interatriale
A questo primo intervento intracardiaco ne seguirono altri, come il tentativo di chiudere la pervietà interatriale impiantando nell'atrio un imbuto che si riempie di sangue e che permette, con il controllo digitale, di riconoscere i margini della breccia atriale: su questa viene fatta passare con un porta aghi, sulla guida del dito, un'ansa di filo non riassorbibile, quindi annodando le singole suture viene chiusa la breccia, e infine si elimina l'imbuto e si chiude la parete atriale. Bailey tentò la chiusura della pervietà introflettendo nella breccia la parete dell'atrio e suturandola con punti staccati ai margini della pervietà interatriale.
g) Stenosi mitralica e protesi valvolari
I primi tentativi di correzione chirurgica della stenosi mitralica vennero eseguiti introducendo nel ventricolo sinistro un valvulotomo col quale perforare il velo valvolare e asportarne un piccolo rettangolo: l'intervento, proposto e sperimentato dall'americano E. C. Cutier, presentava lo svantaggio di dover operare una valvulotomia non mirata, seguita poi da un'inevitabile insufficienza acuta che più o meno presto portava a morte il paziente. Anche la tecnica illustrata nel 1922 dall'inglese H. S. Souttar non ebbe seguito, e queste prime operazioni furono del tutto abbandonate. Fu Bailey che fondò i presupposti della cura chirurgica su precise considerazioni anatomo-fisiopatologiche: nella stenosi mitralica, infatti, i margini dei due veli valvolari si fondono tra loro per un processo endocarditico generalmente conseguente alla malattia reumatica, determinando una progressiva riduzione di ampiezza dell'orifizio mitralico fino a minime dimensioni compatibili con la vita. Il chirurgo americano effettuò nel 1949 un intervento definito commissurotomia, consistente nella dilacerazione delle cosiddette commissure o aderenze e quindi nella separazione dei due margini valvolari eseguita con la punta del dito indice introdotto attraverso l'appendice atriale, che alla fine dell'operazione può venire chiusa completamente. Per quei casi nei quali la particolare resistenza delle aderenze rende impossibile la commissurotomia digitale, A. M. Dogliotti di Torino ideò uno strumento consistente in una piccola lamina impiantata su un anellino da applicare al dito indice, onde poter tagliare le aderenze. Vennero usati numerosi altri strumenti, alcuni con meccanismo a ghigliottina, ma soprattutto si affermò il divulsore valvolare a opera del francese Dubost, che consentiva di esercitare una potente azione di commissurotomia. Questo divulsore, perfezionato poi da Frank Gerbode di San Francisco, viene usato comunemente negli interventi di commissurotomia eseguiti con la tecnica attuale nei casi di stenosi mitralica: lo strumento viene fatto penetrare nella cavità del ventricolo sinistro da un foro praticato alla punta del cuore e spinto verso l'alto, ove il dito indice del chirurgo, precedentemente introdotto nell'atrio, può guidarlo nell'esatta posizione nell'ostio valvolare e graduarne l'azione, così che non si provochi uno sbrigliamento eccessivo e una conseguente insufficienza valvolare.
Tutti gli interventi finora descritti vengono eseguiti in anestesia generale con pentotal e curaro, sotto continuo controllo elettrocardiografico e con continua registrazione della pressione arteriosa per mezzo di un catetere introdotto nell'arteria radiale, mentre la contemporanea cateterizzazione di una vena consente di eseguire fleboclisi e trasfusioni di plasma e sangue, nonché di controllare la pressione venosa centrale. La penetrazione nella cavità toracica si opera attraverso uno spazio intercostale o mediante resezione di una costola. La difficoltà di procedere ad alcuni interventi, legata all'impossibilità di eseguire determinate manovre essenziali sotto il controllo della vista, di aprire largamente le cavità cardiache, di operare correttamente a causa delle continue pulsazioni cardiache, possono essere agevolmente superate con l'impiego della circolazione extracorporea, dell'ipotermia e dell'arresto cardiaco.
Il largo impiego di materiale plastico e metallico ha consentito di realizzare efficienti protesi con le quali sostituire le valvole cardiache malate e deformate. Il primo modello di valvola fu quello di Starr Edwards: si tratta di una gabbietta di tantalio costituita da tre raggi impiantati ad arco su un anello rivestito di teflon, nel cui interno è contenuta una pallina di silastic. Dopo l'escissione della valvola malata, si fissava la protesi mediante sutura con punti non assorbibili tra teflon e cercine fibroso di impianto dei veli valvolari; così allogata, la protesi consentiva il fluire del sangue nella direzione normale della corrente ematica per lo spostamento della pallina verso i raggi della gabbietta, opponendosi al reflusso del sangue per lo spostamento della pallina verso l'anello di inserzione. Attualmente sono di comune impiego le valvole a disco, nei vari modelli di Lillehay, di Bliörck-Shiley, che presentano il notevole vantaggio dell'assenza di ostacolo al deflusso del sangue, che può così avvenire in senso verticale come in una valvola normale senza alcun gradiente di stenosi e con minor traumatismo del sangue stesso. Occorre infatti ricordare che si è descritta anche una patologia della pallina di silastic, come la rottura, il rigonfiamento, la riduzione di calibro, la deformazione, l'aumento di volume per opera di fibrina stratificata, ecc. In chirurgia cardiaca è risultato di importanza fondamentale l'impiego delle materie plastiche che per i loro caratteristici attributi di inerzia e di resistenza si sono rivelate particolarmente adatte all'esecuzione di particolari interventi. Si sono così usati feltri di ivolon come lembi per la chiusura dei difetti settali o per l'ampliamento dell'istmo stenotico del ventricolo destro nella tetralogia di Fallot, tubi di teflon e di dacron nella sostituzione dell'aorta ascendente aneurismatica con condizione di insufficienza e nella ricostruzione della continuità del vaso dopo resezione della coartazione aortica, quando non sia possibile eseguire la sutura capo a capo dei monconi.
h) Insufficienza e ostruzione delle coronarie, aneurismi del cuore
Il più recente degli interventi cardiaci è il trapianto aortosafenocoronarico per la terapia dell'ostruzione delle coronarie, di importanza fondamentale per la frequenza e la gravità di questa condizione morbosa. Dopo i primi tentativi di disostruzione delle coronarie e di scollamento del trombo e dell'endoarteria con getto di gas, operati rispettivamente da Longmire nel 1963 e da De Bakey nel 1966, si affermò decisamente il trapianto. In Italia si erano registrati incoraggianti risultati con l'intervento di legatura della mammaria interna, proposto da Fieschi e largamente sperimentato da A. M. Dogliotti, Battezzati e Gucci; l'operazione fu poi perfezionata da Vineberg, che, dopo aver eseguito la preparazione dei vasi mammari, li interrompeva distalmente senza legame i rami collaterali e li introduceva in una lacuna scavata a tunnel nello spessore del muscolo cardiaco, che in tal modo poteva essere rivascolarizzato.
Ulteriori modifiche furono introdotte da Effler e collaboratori, che pensarono di scheletrizzare i vasi anziché innestare in blocco il fascio arterovenoso. I successi così ottenuti favorirono la diffusione di tali interventi e costituirono un impulso al perfezionamento dei mezzi diagnostici. Il radiologo Mason Sones, di Cleveland, ottenne un sostanziale miglioramento della tecnica della angiografia selettiva delle coronarie introducendo nell'arteria radiale un sottile catetere che viene fatto progredire fino al cuore: sotto controllo radiologico-televisivo se ne fa penetrare la punta una volta nella coronaria di destra e una volta in quella di sinistra, così che è possibile individuare con assoluta precisione la sede dell'ostruzione. L'intervento, secondo le modalità tecniche attualmente in uso, fu eseguito per la prima volta da Favaloro nel 1968, e consiste nell'impiantare un segmento della vena grande safena, prelevato allo stesso paziente, sull'aorta ascendente per una estremità, sulla coronaria sotto l'ostruzione per l'altra. L'operazione, per i brillanti risultati, e per la mortalità inferiore al 5%, è largamente entrata nella pratica: i casi operati sono oggi più di diecimila. Nell'ultimo decennio si è anche realizzata la terapia chirurgica degli aneurismi del cuore: l'intervento consiste nell'asportazione della parete dell'aneurisma, i cui margini, costituiti dal miocardio valido, vengono poi affrontati e suturati fra di loro. In tal modo è possibile ripristinare la validità della parete ventricolare e la regolarità della sua contrazione, evitando l'altrimenti ineluttabile e drammatico evento della rottura dell'aneurisma.
i) Trasposizione dei grossi vasi
La maggior parte dei neonati che decedono per malattia cardiaca con cianosi sono portatori di un vizio cardiaco complesso consistente nella trasposizione dei grossi vasi. Questa condizione anatomica, incompatibile con la vita, può essere modificata chirurgicamente facendo progredire lungo la vena cava fino all'atrio destro un catetere recante inserito al suo estremo un palloncino gonfiabile; perforato il setto interatriale con la punta del catetere, si gonfia il palloncino, quindi si compie un movimento a ritroso di estrazione, così che il foro praticato nel setto viene lacerato. Si crea in tal modo una comunicazione interatriale che permette ai neonati di sopravvivere e di subire successivamente l'intervento correttivo proposto da Mustard. La prima comunicazione interatriale nella trasposizione dei grossi vasi era stata operata da Blalock e Hanlon con una pinza da loro disegnata.
l) Dissociazione atrioventricolare
L'applicazione di un segnapassi elettrico, o pacemaker, consente la sopravvivenza nei casi di dissociazione atrioventricolare, caratterizzati da una frequenza notevolmente ridotta del battito cardiaco, fino a 40 pulsazioni e anche meno, tipici della malattia di Adams-Stokes. Precedentemente si impiantavano gli elettrodi direttamente sulla parete del ventricolo sinistro; oggi si preferisce introdurre un elettrodo direttamente nel ventricolo destro, attraverso l'atrio e la vena cefalica o basilica, tramite un catetere la cui punta si ancora fra le corde tendinee e i muscoli trabecolari nella cavità ventricolare. La sorgente dell'energia elettrica è rappresentata da una pila, alla quale vengono apportati continui miglioramenti tecnici e perfezionamenti, che è di solito inserita sotto la cute dell'ascella.
m) Sutura dei vasi
Analogamente alla chirurgia cardiaca, anche quella dei vasi arteriosi e venosi ha registrato progressi veramente imponenti ed è divenuta una nuova specialità chirurgica. Il principio fondamentale che ha reso possibile l'esecuzione di tutti gli interventi sui vasi è la tecnica delle suture secondo la cosiddetta ‛triangolazione dei monconi' ideata da A. Carrel: consistente essenzialmente nell'applicare ai due monconi vasali tre punti che oltre a mantenerli ravvicinati ne dividono la circonferenza in tre terzi retti, ognuno dei quali affrontabile quindi nei margini con quello corrispondente dell'opposto moncone mediante sutura lineare; questa metodica evita la necessità di procedere comunque a una preventiva fissazione dei monconi vasali ad altre strutture, spesso difficile da eseguire, per poterli poi più agevolmente suturare. Per evitare la possibile trombosi, i margini vasali debbono essere suturati estroflessi, in modo da affrontare endotelio a endotelio. Nella ulteriore evoluzione della tecnica di A. Carrel sono stati realizzati particolari apparecchi per sutura, dei quali il più recente è quello ideato da Nakayama nel 1968 e che perfeziona una tecnica elaborata in Russia vent'anni prima; ma l'esperienza ha dimostrato che la sutura a mano eseguita da un chirurgo esperto è preferibile a quella meccanica. Così pure i vari tentativi di ricostituire la continuità di vasi con tubi di vetro o di metallo non hanno avuto successo. Per effettuare la sutura dei vasi, il chirurgo possiede oggi i mezzi più idonei: speciali porta aghi, aghi atraumatici estremamente sottili, angiostati particolari come quello di De Bakey caratterizzati da presa sicura e da compressione delicata così da non produrre lesioni delle tonache vascolari, materiale da sutura di solito sintetico (nylon, orlon, ecc.) spesso monofilamento e che dalla dimensione più comunemente usata di cinque 0 va fino addirittura a otto 0. Questo ultimo tipo di filo è stato usato alcuni anni fa nel ricupero di arti amputati per trauma, in cui è necessario praticare numerose anastomosi fra vasi di piccolo calibro, dai chirurghi di Shang hai, che vantano ancor oggi la più estesa casistica sull'argomento.
L'esito felice delle suture vasali, inoltre, è assicurato dall'uso di farmaci anticoagulanti, come l'eparina, che evitano l'insorgenza delle trombosi postoperatorie.
n) Aneurismi aortici e ostruzioni arteriosclerotiche: protesi vascolari, endoarteriectomia, omo- e autotrapianti
Un elemento di progresso di estrema importanza è risultato l'impiego di protesi vascolari fabbricate con materiale plastico (dacron, teflon, nylon) variamente tessuto o confezionato come una maglia a uncinetto. Pioniere in questo settore può essere considerato M. De Bakey di Houston, autore di importanti studi che gli hanno consentito di mettere a punto la tecnica, di precisare le indicazioni e di dimostrare gli enormi vantaggi della sostituzione vascolare. De Bakey per primo ha sostituito l'arco dell'aorta sede di aneurisma, applicando naturalmente tutti i progressi raggiunti dalla cardiochirurgia nell'esclusione funzionale del cuore dalla circolazione; oggi, la resezione del tratto del vaso sede dell'aneurisma e la sua sostituzione con una protesi di teflon o di dacron, è una tecnica corrente, che ha fatto completamente cadere in disuso le varie altre metodiche quali l'introduzione di un filo di acciaio inossidabile nelle sacche aneurismatiche o il loro avvolgimento con pezze di nylon. De Bakey ha progettato, sulla base di una enorme esperienza personale, la sostituzione protesica dei vasi ostruiti per un processo arteriosclerotico, causa di gravi gangrene degli arti, per il cui trattamento l'unica soluzione fino a non molti anni fa era rappresentata dall'amputazione. Le nuove concezioni nella terapia chirurgica dell'arteriosclerosi obliterante sono state favorite dalle migliori possibilità diagnostiche offerte dalle perfezionate tecniche della angiografia, che consentono sia di precisare la sede della lesione e di dimostrare lo stato anatomico dell'arteria, sia di procedere a un accurato studio della circolazione collaterale in un periodo precedente l'insorgenza della gangrena, onde prevenirla e, se possibile, guarire completamente il malato. In rapporto alla frequenza delle malattie metaboliche, l'ostruzione di origine arteriosclerotica è possibile in qualunque arteria, nella carotide interna, nelle arterie degli arti superiori, nei tronchi sopraortici, nelle arterie che nascono dall'aorta addominale. Si può verificare l'ostruzione del tronco celiaco e della mesenterica superiore, causa di gastralgia postprandiale e della cosiddetta claudicazione addominale; l'ostruzione dell'arteria renale, con conseguente ipertensione arteriosa da ischemia renale; quella della parte terminale dell'aorta causa della malattia di Lériche, delle arterie iliache, delle femorali, ecc. In questi casi, la tecnica operatoria consiste nel creare un ponte vascolare, cosiddetto bypass o pontaggio, o nella sostituzione del tratto leso; attualmente, si esegue di nuovo anche l'intervento di endoarteriectomia.
Nella ricostruzione della continuità vasale si usano sia le protesi con materiale plastico, che presentano il grande vantaggio dell'ottima tolleranza tessutale, sia gli omo- e gli autotrapianti. Gli omotrapianti consistono nell'innesto di frammenti di vasi prelevati ad altri individui della stessa specie, dapprima sterilizzati con raggi gamma o con il betapropiolactone, successivamente raffreddati a −80 °C e poi liofilizzati così da poter essere conservati per anni: i pezzi così preparati appaiono come pergamene, ma appena immersi in soluzione fisiologica, subito prima di essere innestati, assumono nuovamente l'aspetto del vaso normale appena prelevato. L'esperienza ha tuttavia dimostrato che i migliori risultati lontani si ottengono impiegando autotrapianti, cioè segmenti di vasi prelevati allo stesso soggetto: la safena è la vena più frequentemente usata nella sostituzione dell'arteria iliaca esterna, della femorale superficiale e recentemente nella rivascolarizzazione coronarica, come già detto.
o) Ipertensione portale e varici esofagee: anastomosi venose
Per quanto riguarda il sistema venoso, ha assunto grande interesse l'esecuzione delle anastomosi portacava e di quelle minori portasistemiche, come vengono designate le anastomosi venose fra i rami della vena porta e i rami della vena cava inferiore, per esempio le anastomosi splenorenali, mesentericorenali. L'indicazione e l'utilità di questi interventi sono state già illustrate nel capitolo della chirurgia epatica, a proposito del trattamento chirurgico dell'ipertensione portale (v. sopra, cap. 8, § c). L'esecuzione tecnica delle anastomosi è resa agevole dall'uso di particolari angiostati, che fissano i vasi durante le suture. Si è potuto dimostrare che l'intervento che io stesso avevo proposto, cioè l'anastomosi laterolaterale fra porta e cava, è senz'altro preferibile, perché in tal modo una parte del sangue continua ad affluire al fegato, e, il che è particolarmente importante, si decomprime anche la porzione intraepatica della porta. Per quanto riguarda le anastomosi minori, l'esperienza ha dimostrato che quelle termino- terminali vanno incontro meno facilmente delle terminolaterali a un'ostruzione trombotica postoperatoria; è stato anche dimostrato che la sezione della vena renale può essere effettuata al di sopra della vena spermatica interna e della vena surrenale, così da conservare queste due vene, sufficienti ad assicurare il circolo venoso del rene. Inoltre, il lungo moncone prossimale della vena renale è facilmente mobilizzabile, e ciò rende meno difficile l'esecuzione di una anastomosi splenorenale terminoterminale, ovviamente previa splenectomia. Le anastomosi fra vena mesenterica superiore e vena renale hanno trovato particolare indicazione nei casi di trombosi portale. Per quanto riguarda il trattamento delle varici esofagee, così evidenti in questi casi di trombosi, non sempre l'anastomosi mesentericorenale è efficiente a eliminarle; spesso si rende necessaria un'interruzione azigosportale.
p) Trapianti d'organo
La chirurgia vascolare è nata in questi ultimi decenni, prima in stretta relazione con la chirurgia del cuore e dei grossi vasi, poi a seguito dei grandi progressi compiuti è divenuta del tutto indipendente, affermandosi come chirurgia dei vasi periferici. Attualmente, la chirurgia vascolare è alla base dei complessi interventi di trapianti d'organo, sempre più frequenti e dei quali è facile prevedere un grandioso sviluppo, una volta che ne verranno risolti soprattutto i problemi biologici. Così, nel più comune dei trapianti, quello del rene, i momenti più importanti dell'intervento sono rappresentati dall'anastomosi capo a capo dell'arteria e della vena dell'organo che viene trapiantato, rispettivamente sull'arteria e sulla vena iliaca del ricevente, secondo le tecniche di chirurgia vascolare; ovviamente, si deve anche procedere all'impianto dell'uretere in vescica. In questo tipo di intervento la preparazione del malato con il rene artificiale, la tipizzazione del datore e del ricevitore, i criteri di scelta del datore e quelli di scelta preferenziale fra rene di cadavere e rene di vivente, esulano già oggi dalla competenza del chirurgo per interessare specialisti di nefrologia, di biologia e di genetica.
Mentre il trapianto renale ha un reale valore pratico, perché molti sono attualmente i casi operati nei quali il trapianto si conserva con successo da anni, non si può ancora dire lo stesso per quello del cuore: la complessa tecnica operatoria, proposta e sperimentata sugli animali da Shumway ed eseguita per la prima volta sull'uomo da Chr. M. Barnard nel 1969, è risultata perfetta e in grado di consentire l'audace intervento. Tuttavia, i numerosi problemi di ordine biologico che ancora non hanno trovato soluzione rappresentano i veri limiti al buon esito del trapianto, e il solo trattamento medico postoperatorio attualmente praticato non vale ad assicurarne la tolleranza e a evitare la reazione di rigetto che rappresenta la principale causa di insuccesso di tali interventi (v. trapianti).
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