chimera
Gli organismi chimera e i trapianti d’organo
Nel 1945, Ray D. Owen, studiando i gemelli dizigotici bovini, si rese conto che ciascuno dei gemelli possedeva nel circolo sanguigno globuli rossi propri e del gemello. Postulò quindi il principio che il midollo di ciascuno dei due organismi fosse stato popolato da cellule di entrambi nella vita in utero, nel momento in cui il sangue circolava nelle due placente. Owen sperimentò anche con successo il trapianto di cute tra due bovini gemelli dizigotici e pochi anni dopo, nel 1955, un altro ricercatore, Simonson, provò che in una situazione biologica di quel tipo è possibile trapiantare da un bovino all’altro anche un rene. Nel 1959, Woodruff e Lennox riuscirono a eseguire con successo trapianti di cute tra gemelli umani dizigotici chimerici per i gruppi sanguigni A e 0, cioè gemelli che condividevano globuli rossi l’uno dell’altro. Se un trapianto cutaneo veniva eseguito in assenza di tale chimerismo veniva regolarmente rigettato. Si comprese che il chimerismo, quindi, permetteva una condizione di “non-reattività” immunologica, definita tolleranza immunitaria.
Per tolleranza immunitaria si intende la condizione normale di non-reattività agli antigeni presenti sulle cellule del proprio corpo che vengono quindi riconosciuti come propri (self). In tutte le altre condizioni gli antigeni vengono riconosciuti come estranei (non self) ed è per questo motivo che, al fine di ottenere la sopravvivenza di un organo trapiantato, è necessario intervenire con l’immunosoppressione, la terapia antirigetto che permette di sopprimere la risposta immunitaria ad antigeni estranei. La prima dimostrazione nell’uomo di una condizione chimerica risale allo studio da parte del gruppo di Thomas E. Starzl, nel 1969, del cariotipo di soggetti femminili che avevano ricevuto un trapianto di fegato da un donatore di sesso maschile. Nel periodo postoperatorio fu infatti possibile dimostrare con alcune biopsie che le cellule epatiche e quelle dell’endotelio delle arterie e delle vene del fegato conservavano il sesso del donatore (maschile), mentre macrofagi e cellule di Kupffer venivano rimpiazzati da cellule femminili del ricevente. In quegli anni si pensò che una tale convivenza di cellule con patrimoni genetici differenti (microchimerismo) fosse possibile solo nel fegato. Ventuno anni dopo, con i primi trapianti di intestino, si comprese che un fenomeno analogo era presente anche nei pazienti sottoposti a trapianto intestinale. L’epitelio dell’intestino trapiantato continuava ad avere le caratteristiche genetiche del donatore, ma l’intestino trapiantato veniva presto popolato da leucociti, cellule dendritiche e altre cellule del tessuto linfoide di appartenenza del ricevente. Così nel 1991 si arrivò a supporre che la presenza di microchimerismo fosse una caratteristica costante di un organo trapiantato. Nel 1991 Robin Fox, editor della rivista scientifica The Lancet, nel corrispondere con l’autore di un articolo scientifico gli chiese di precisare meglio quale poteva essere secondo lui il destino dei linfociti trasportati dal donatore al ricevente in un trapianto. Quella domanda fu la prima di una lunga serie di interrogativi che medici e ricercatori, impegnati nel campo dell’immunologia dei trapianti, iniziarono a porsi per arrivare alla comprensione del chimerismo. Molti di questi interrogativi non hanno ancora trovato risposte certe e al momento attuale gli studi non sono ancora giunti a una conoscenza completa del fenomeno.
Negli anni Novanta, l’università di Pittsburgh era la più attiva del mondo in quanto a ricerca e sperimentazione nell’ambito della chirurgia e della medicina dei trapianti. Molti ricercatori si concentravano sugli aspetti immunologici e proprio nell’ambito di una di queste ricerche ci si rese conto che almeno 6 pazienti, trapiantati di fegato tra il 1973 e il 1980, avevano sospeso ogni tipo di farmaco antirigetto per un periodo variabile tra i 5 e i 13 anni e tutti, eccetto uno, mantenevano una ottima funzione dell’organo trapiantato. Così nel 1992 si decise di invitare a Pittsburgh questi pazienti, assieme ad altri trapiantati da oltre 10 anni. Nove di questi pazienti erano di sesso femminile e avevano ricevuto un fegato da un donatore di sesso maschile. Questo permetteva di ricercare il cromosoma Y che, ovviamente, non è presente in un soggetto di sesso femminile. Le aspettative vennero confermate perché in tutte le 9 pazienti fu possibile individuare sia nelle biopsie cutanee sia nelle biopsie dei linfonodi la presenza del cromosoma Y. Il ragionamento seguito era basato sul fatto che, se venivano individuate in altre parti del corpo cellule con il cromosoma maschile Y, esse non potevano che essere di derivazione del sangue del donatore. In altre parole si sarebbe trattato di cellule provenienti dal sangue del donatore, rimaste in microscopiche quantità nell’organo trapiantato. Infatti, anche se prima del trapianto l’organo viene svuotato dal sangue del donatore, all’interno dei vasi sanguigni permane necessariamente un certo numero di cellule. Il fenomeno del chimerismo nei trapianti fu dimostrabile pochi mesi dopo nel paziente sottoposto al primo xenotrapianto al mondo di fegato con un organo proveniente da un babbuino. Il DNA del babbuino fu identificato in molti tessuti del paziente trapiantato: nel cuore, nei polmoni, nei reni e nei linfonodi. Il concetto del chimerismo sistemico ha innalzato l’interesse verso strategie che possano indurre una tolleranza immunologica e quindi l’accettazione di un organo trapiantato da parte dell’organismo ricevente. Tuttavia, al momento attuale non è ancora possibile disporre di una metodologia che riesca a produrre regolarmente tolleranza nei confronti degli antigeni di un organo trapiantato nell’uomo. Di conseguenza a tutt’oggi il successo dei trapianti è legato allo sviluppo e all’utilizzo dei farmaci immunosoppressivi per prevenire e controllare episodi di rigetto.