CHIAROSCURO
Dal Vocabolario toscano dell'Arte del Disegno di Filippo Baldinucci (1681) al più recente Dizionario Enciclopedico (1956) il valore del termine ch appare duplice. Lo si usa, infatti, per indicare un particolare effetto pittorico che tende a rendere il rilievo, il volume e le particolarità di una forma rispetto alla sorgente luminosa che l'investe, per mezzo del graduale variare del tono dei colori e fino all'applicazione dei lumi (piccole zone o macchie di colore chiarissimo, quasi bianco) nei punti più salienti sui quali la luce brilla. Ma il termine ch. viene usato anche per indicare "pitture d'un color solo, al quale si dà rilievo con chiari e con iscuri del color medesimo" come appunto si esprimeva il Baldinucci (e che in Francia son dette grisailles); e anche disegni a matita o a matita e gesso su carta colorata (o, a partire dal sec. XVI, stampe a più legni), sempre che siano limitati al variare di uno stesso colore, più il bianco dei "lumi". In questa seconda accezione ch. è stato spesso posto come equivalente del termine monochromata usato in vari passi di Plinio (v. più avanti). Le questioni sono dunque due: a) cercare di stabilire quando il particolare effetto pittorico che dicesi ch. fu introdotto e usato nella pittura antica; b) che cosa si debba intendere esattamente per monochromata, e cioè se questo termine possa corrispondere al termine ch. nella sua seconda accezione.
a) Il problema pittorico del ch. è strettamente connesso, oltre che con quello della luce, anche con quello del proponimento di rappresentare lo spazio in modo naturalistico; ne è, anzi il primo passo e si sviluppa con esso sino alla piena e immitata spazialità. Come tale è peculiare, nel mondo antico, alla pittura greca e alle civiltà artistiche direttamente influenzate da essa. Il ch. è rifiutato da civiltà artistiche come quella egiziana, quella cinese e, poi, dalla pittura bizantina (ancora Elisabetta I d'Inghilterra, alla fine del Cinquecento, voleva espressamente esser dipinta assolutamente senza ombreggiature; esempio, fra i tanti, che ai modi pittorici vien dato un valore morale).
Nelle pitture vascolari greche fra 480 e 470 a. C. (per esempio della cerchia di Brygos) il ch. è accennato con strisce nastriformi formate da brevi tratteggi che modellano il corpo dei cavalll e poi, più raramente, degli uomini. In relazione con l'interesse per i rapporti di spazio se ne trovano accenni più espliciti sui vasi cosiddetti polignotèi, che derivano dalla pittura del secondo quarto del V sec. Quando poi, verso la metà del secolo, si trovano esempî come il tratteggio dietro la testa di Telemaco presso al telaio di Penelope nel vaso del museo di Chiusi, ciò significa che alla concezione (ancora polignotèa) di una luce uniformemente sparsa, si è sostituita una determinazione della fonte luminosa e quindi una distribuzione unitaria di luce e ombra; e questa è a fondamento del ch. vero e proprio, anche se già prima poteva esserci il rendimento di particolari effetti di luce sopra un singolo elemento della figurazione, come sulla corazza del guerriero accerchiato nel vaso con l'amazzonomachia di Bologna (fra 460 e 450 a. C.).
Sembra certo che al problema del ch. abbia portato risolutive soluzioni Apollodoros (v. A. 20) attorno al 430 a. C.; da tutti i passi delle fonti letterarie, egli appare il vero "inventore" della pittura con passaggi di tono che rendono il modellato (Plutarc., De gloria Athen., 2: πρῶτος ἐξευρὼν ϕθορὰν καὶ ἀπόχρωσιν σκιᾶς) oltre che degli effetti prospettici. La definizione di Apollodoros come skiagràphos (σκηνογράϕος) si alterna o accompagna a quella di skenogràphos (σκηνογράϕος), il "disegnatore" o "pittore delle ombre" è anche disegnatore e pittore di composizioni scenografiche prospettiche (cfr. Hesych., s. v. σκιά). Tuttavia il ch. dovette rimanere ancora essenzialmente affidato al tratteggio a linee parallele modellanti la forma, rafforzate anche da incrocio (v. disegno).
Si può affermare che nella pittura del primo ellenismo (mosaico della battaglia di Alessandro, mosaici di Dioskourides al museo di Napoli, mosaico a Delo) i riflessi e i toni d'ombra, e quindi il vero ch., già esistessero. Ma non siamo in grado di fare con certezza la stessa affermazione per la pittura dei grandi maestri classici, anche se una cornice a hymàtion dipinta nel Leonidaion di Olimpia e quella dipinta sul sarcofago delle Amazzoni al Museo Archeologico di Firenze (prima metà del IV sec.) mostrano il ch. ottenuto per mezzo di passaggi di tono, chiari e ombre. Va notato infatti che, sullo stesso sarcofago, nelle scene figurate le ombre sono ancora sostenute dal tratteggio lineare (v. amazzoni, tav. a colori). D'altra parte le fonti letterarie ci descrivono pitture, riferibili alla seconda metà del sec. IV a. C. con effetti di luce artificiale (lampade, fiamma del fuoco), che presuppongono l'esistenza del ch. (v. aetion 1°; antiphilos). Sostanzialmente il passo di Plinio (Nat. hist., xxxv, 29) rispecchia le varie tappe di svolgimento, distinguendo il momento nel quale, nella pittura, si rappresentò la luce e le ombre (lumen atque umbras), cioè il ch., e si trovò la differenza dei colori acuita dal rapporto reciproco (differentia colorum alterna vice sese excitante), cioè la pittura tonale; in seguito fu aggiunto l'effetto di riflesso, il lume (splendor) "da distinguersi, in questo caso, dalla luce" (lumen). Aggiunge Plinio, che l'intervallo che sta fra la luce e l'ombra fu detto tònos (τόνος); il contatto e il passaggio dei colori harmogè (ἁρμογή: v. le voci relative). Pitture su lèkythoi della fine del V sec. a. C. e pitture pompeiane nelle quali è evidente che figure riprese da quadri di età classica sono state collocate entro sfondi paesistici del tardo ellenismo (come quello di Pan musico tra le Ninfe, inv. 111473 e le altre della stessa casa Reg. IX, 5, 18) possono dare un'idea della pittura basata sui principî di Apollodoros e di Zeusi. Nel tardo ellenismo e nelle sue propaggini di età romana il ch. rialzato dai lumi è attestato largamente da pitture esistenti.
Inoltre, nei vasi detti di Gnathia (v. àpuli, vasi, che iniziano nella seconda metà del IV sec., e poi nei vasi del tipo pocolom, che ne rappresentano in parte una continuazione verso la metà del III sec. a. C., il ch. monocromo è ottenuto con freschezza di tocco, e solo negli esemplari più antichi con minima traccia di tratteggio.
L'esempio più esteso di ch. monocromo è dato dal fregio giallo della cosiddetta Casa di Livia sul Palatino, databile a circa il 30-25 a. C., ma risalente senza dubbio a modelli ellenistici, forse ancora dell'ellenismo medio (v. pittura). Nei ritratti provenienti dalle mummie del Fayyūm, il ch. permane evidente sino all'età gallienica (250-260 a. C.); ma negli esemplari databili agli inizi del sec. IV d. C. esso è però già del tutto abbandonato e l'immagine si fà disegnativa al tempo stesso che con la frontalità si rinunzia alla rappresentazione della prospettiva naturalistica (v. fayyūm).
b) I passi di Plinio (Nat. hist., xxxiii, 39; xxxv, 15; 20; 56; 64) che parlano di monochromata si riferiscono, tranne l'ultimo citato, a uno stadio di pittura primitiva: il monocromo è usato dagli antichi (veteres); è un modo di dipingere che seguì alla fase del disegno lineare di contorno (primam picturam repertam ... linearem, secundam singulis coloribus et monochromaton dictam). Si potrebbe pensare che si volesse indicare in tal modo la pittura nell'aspetto di disegno campito di colore piano (come la pittura egiziana). Il primo dei passi citati dice, inoltre, che quelli che ancora al tempo di Plinio si chiamano monochromata, venivano dipinti a cinabro, colore costoso poi sostituito dalla sinopia e dalla rubrica. Plinio usa il verbo pingere; ma il corrispondente termine greco graphein (γραϕεῖν) può significare ugualmente disegnare. Sicché si è ritenuto dagli studiosi più recenti che per monochromata siano da intendere disegni a sinopia nei quali il chiaroscuro era ottenuto mediante il tratteggio (Pfuhl). Questa opinione è sorretta soprattutto da quanto riferisce Plinio nel passo citato per ultimo, nel quale si concludono le notizie sull'attività di Zeusi, e si indica che egli dipinse anche monochromata ex albo, cioè monocromi in bianco; espressione che si è voluta applicare ai chiaroscuri disegnati su marmo, quali quello di una centauromachia e di un apobates del museo di Napoli (inv. 9560 e 9564; v. disegno, tav. a colori). Questi, e specialmente il primo, sono stati per molto tempo (Robert, Pfuhl, Rumpf) ritenuti copie da composizioni di età classica (o addirittura da Zeusi); altri (Kraiker) ha voluto riconoscerli invece come esercitazioni di gusto eclettico-classicistico, imitanti solo nella tecnica e nel tratteggio lo stile classico. Non si può, comunque, a rigore porre il termine di monochromaton equivalente a quello di ch. nel senso del francese grisaille, cioè di composizioni a mezzetinte di un solo colore, come quelle accennate nel paragrafo a), esemplificate nel fregio giallo della casa sul Palatino. A dipinti di questo tipo sembra accennare Quintiliano (Inst. or., ii, 33, 46) quando osserva che anche in pitture a un solo colore vi sono parti che appaiono in rilievo e altre no (qui singulis pinxerunt coloribus, alia tamen eminentiora alia reductiora fecerunt). Ma non risulta che a queste pitture si estendesse il termine monochromaton.
Bibl.: C. Robert, 22. Hall. Winckelmannsprogr., Halle 1898; E. Pfuhl, Malerei u. Zeichnung, Monaco 1923, pp. 626 ss., 674 ss.; A. Rumpf, in Jahrbuch, 49, 1934, pp. 6 ss.; S. Ferri, Plinio il Vecchio, Roma 1946, traduzione e commento ai passi citati; W. Kraiker, 106, Berlin. Winckelmannsprogr., Berlino 1950, pp. 14 ss., 21 ss.; A. Rumpf, Malerei u. Zeichnung (Handb. d. Arch., IV, i), Monaco 1953, pp. 97, 121, ss., 126 ss.