DAVANZATI, Chiaro
Visse a Firenze nella seconda metà del sec. XIII, ma di lui restano sconosciuti sia l'anno della nascita sia quello della morte. Né la tradizione del suo nutrito canzoniere, rappresentato fondamentalmente dal ms. Vat. lat. 3793 della Bibl. Apost. Vaticana ci fornisce alcuna altra notizia su di lui.
Negli archivi fiorentini restano tuttavia le tracce di almeno due personaggi che a Firenze, nella seconda metà dei Duecento, portarono il nome di Chiaro Davanzati. Sono entrambi elencati tra i pavesari del sesto d'Oltrarno nel cosiddetto Libro di Montaperti (cfr. l'ediz. a cura di C. Paoli, in Docum. di st. ital. IX, Firenze 1889 pp. 17 s.): il primo è detto "Clarus f. Davanzati Banbakai populi sancti Fridiani", il secondo "Chiarus f. Davanzati populi Sancte Marie sopr'Arni". Per il secondo ebbe propensione il Novati, pubblicando di suo alcuni documenti desunti dai protocolli di ser Guido Mangiadori, da cui risulta che il 18 marzo 1280 una Guida, vedova di Chiaro Davanzati del popolo di S. Maria Soprarno, chiese al giudice Rodolfo del Pugliese che le fosse dato in mundualdum, cioè come tutore, un tal Arrigo detto Rapetta; e immediatamente dopo che la stessa Guida, tutrice testamentaria di Martinuccio, Bartolo, Lucia e Lori, figli minori di Chiaro Davanzati, costituì suo rappresentante per ogni necessità dinanzi al foro giudiziale tal Vincino di Alamanno (Novati, p. 405). Identificando, come faceva il Novati, questo Chiaro con l'autore delle rime del ms. vaticano, si poteva acquisire alla biografia del D. il dato che fosse già morto nel 1280.
In verità lo stesso Novati mostrava una certa perplessità dinanzi a un altro documento da lui stesso rintracciato, da cui risulta che il 27 apr. 1304 Bartolo e Lapo, figli di Chiaro Davanzati, cittadini e mercanti fiorentini del popolo di S. Frediano, comparirono come attori davanti al notaio Matteo Biliotti (Novati, p. 406 n.). Come mai, si chiedeva il Novati, Lapo non era tra i figli minori di Chiaro nel documento del 1280? Interrogativo a cui avrebbe dato risposta il Torraca, ricordando che il documento del 1304 non si riferisce ai figli del Chiaro già morto al 1280, ma all'altro Chiaro del Libro di Montaperti, che era appunto del popolo di S. Frediano, come il Bartolo e il Lapo dell'atto del 1304.
Ma a invalidare l'identificazione dei Novati sarebbe venuto, successivamente alla precisazione del Torraca, uno studio del Debenedetti sulla cosiddetta "giuntina di rime antiche", l'importante antologia dell'antica lirica toscana pubblicata a Firenze presso i Giunti nel 1527. Nel libro XI della silloge (Sonetti e canzoni di diversi autori toscani, cc. 140b ss.) era riportata una tenzone promossa da Dante da Maiano con il son. "Provedi, saggio, ad esta visione", e a cui avevano risposto insieme ad altri rimatori Dante Alighieri e il Davanzati. Se questa tenzone era avvenuta, come dimostrava il Debenedetti (p. 44), nel 1283, doveva di conseguenza escludersi ogni corrispondenza con il Chiaro del popolo di S. Maria Soprarno, che a quella data era ormai morto. Restava dunque valida, come unica possibile, l'identificazione con il "Clarus f. Davanzati Banbakai" del popolo di S. Frediano, del quale il Debenedetti, giovandosi in parte di documenti già pubblicati in parte di fonti inedite, riusciva a mettere, insieme il seguente profilo: combattente a Montaperti nel 1260, capitano di Orsarimichele nel 1294 procuratore di "Iohannes de Calona" in un atto del 20 ag. 1303, già morto alla data del 27 apr. 1304; oltre ai già ricordati Bartolo e Lapo, avrebbe avuto anche una figlia, chiamata Bionda, che andò in moglie a Banco di lacopo, setaiolo del popolo di S. Frediano.
Mancava solo da definire l'anno della nascita di Chiaro Davanzati Banbakai, che, stante la sua partecipazione alla battaglia di Montaperti, non poteva non cadere tra il 1230 e il 1240.
A identificare il D. con questo personaggio, vissuto tra il quarto decennio dei sec. XIII e i primissimi anni dei XIV, la critica è oggi per lo più propensa, anche se ancora manca la prova che documenti inequivocabilmente che i due costituiscano la stessa persona.
Intanto altri dati in grado di diradare qualche ombra, dall'oscura biografia del D. sono sembrati desumibili dalla sua produzione poetica. Soprattutto il Mascetta Carracci ha puntato alla decifrazione dei riferimenti storici e politici che sarebbero celati nelle rime. Secondo questo studioso si ricostruisce che, pur se originariamente di parte guelfa, il D. si ribellerebbe con la canzone "Ahi dolze e gaia terra fiorentina" all'asservimento di Firenze da parte di Carlo d'Angiò dopo la battaglia di Benevento (1266); da questo momento il D., a dispetto delle origini guelfe, comincerebbe a sperare nella possibilità di un riscatto della casa di Svevia (v. i sonetti "Lo dragone regnando pur avanipa" e "Un sol si vede, ch'ogni luminare"). Intanto. intorno al 1268, il D. avrebbe avuto dei contatti con i ghibellini di Pisa, soggiomando addirittura nella città. Quando Giovanni Visconti giudice di Gallura promosse una lega di città guelfe contro Pisa, fidando sull'aiuto angioino, il D. avrebbe scritto alcuni sonetti per condannarne l'azione "(Poi so ch'io fallo per troppo volere" e "Non dico sia fallo, chi 'I suo difende"); e quando finalmente i guelfi prevalsero in Pisa e il D. sarebbe stato cacciato dalla città, l'occasione gli avrebbe'dettato il sonetto di rimpianto "Tutte le pene ch'io già mai portai".
In realtà una ricostruzione dell'evoluzione politica del D. da posizione guelfe a posizioni per lo meno filoghibelline, così come risulta dallo studio del Mascetta Carracci, non pare solidamente fondata nel testo delle rime; tanto più che non è del tutto corretto spremere succhi autobiografici dall'esperienza letteraria di un'autore in cui la tendenza alla rielaborazione dei temi e delle forme è del tutto preminente rispetto all'esigenza della novità del dettato e quindi della sofferta partecipazione personale. Se dei dati concementi la biografia del D. si devono desumere dal suo canzoniere, non si può andare molto più in là della pura enumerazione dei rimatori che furono in corrispondenza poetica con lui: Guittone, ser Cione, Pacino di ser Filippo, Dante da Maiano, frate Ubertino, Palamidesse e soprattutto Monte Andrea fiorentino. Il che naturalmente non è di importanza secondaria, perché quest'elenco contiene i nomi degli elementi più rappresentativi del gruppo di rimatori eredi e continuatori in Toscana della tradizione provenzale e siciliana, ma ai di qua del rinnovamento tematico e formale promosso dal nascente Stilnovo.
Nel passato si è anche creduto a una corrispondenza poetica tra il D. e Dante Alighieri, dato che il ms. Marc. it. IX, 191 della Marciana di Venezia e il Magl. VII, 1187 della Bibl. naz. di Firenze trascrivono una tenzone di quattro sonetti tra il D. e Dante. Ma in questo Dante sono però oggi tutti concordi nel vedere Dante da Maiano piuttosto che l'Alighieri: dei resto qaest'ultimo non menziona mai, neppure polemicamente, il D. nel corso dell'intera sua opera. Silenzio che può anche suonare doloroso per il D., ma che si spiega forse con la maniera della sua poesia, non ancora stilnovista ma neppure depositaria in modo esemplare di quei difetti che l'Alighieri rimproverava a Guittone e agli altri rimatori che si dicono siculo-toscani.
I componimenti sicuramente attribuiti al D. assommano a 61 canzoni e 122 Sonetti. Tra i siculo-toscani, se si esclude Guittone, il D. resta dunque il rimatore più fecondo; e la larga rappresentanza di cui gode nel ms. vaticano sopracitato, in cui il Contini riconosce "la silloge della cultura lirica fiorentina nella sua fase davanzatiana" (p. 399), è comunque un riconoscimento del ruolo preminente da lui avuto all'intemo di quel gruppo. Ma vano sarebbe il proposito di ricostruire un qualsiasi ordine all'interno di questo canzoniere. Chi, come il Casini, ha tentato la definizione di un percorso che movendo dalla stretta imitazione dei provenzali giungesse fino al Guinizzelli attraverso una fase guittoniana, non ha tenuto conto che la disponibilità verso tutti i modi della precedente lirica cortese è costantemente attiva nel D., anzi sua tendenza caratteristica è di amalgamare in un registro stilistico ed espressivo medio gli spunti della provenienza più disparata. Atteggiamento che si misura anche in relazione alla scarsa selettività tematica delle rime.
Nel Canzoniere del D. disquisizioni filosofiche e morali seguono a trattazioni naturalistiche con pretese pseudoscientifiche (vera specialità del D. in questo campo sono i temi dei bestiari), le argomentazioni sulla natura d'amore si alternano agli spunti politici e civili, la fenomenologia amorosa è saggiata su tutte le corde che la tradizione offriva (dichiarazioni, lamenti, gelosie, canzoni di lontananza, tenzoni fittizie con madonna ecc.). E cosi, nell'uso delle fonti, l'influenza consistente dei provenzali, soprattutto quelli delle ultime generazioni, si combina con la ripresa del Notaro e degli altri siciliani; la pressione molto ben controllata di Guittone si stempera nel rifacimento della dolcezza della maniera guinizzelliana. L'ideale stilistico del D., tendendo ad escludere le rime caras e le asprezze del trobar clus, e neppure abusando del tecnicismo retorico di matrice guittoniana, finisce in tal modo per assestarsi su andamenti fluidi, inclini alla musicalità e alla grazia. Per illustrare l'uso che il D. fa delle sue fonti, basti l'esempio della già ricordata "Ahi dolze e gaia terra fiorentina", suggerita dalla canzone guittoniana "Ahi lasso, or è stagion de doler tanto", dove però la robusta ispirazione guittoniana, tesa fino all'invettiva, si scioglie nella pacatezza della rievocazione nostalgica di una condizione felice ormai negata al presente. Ma in questa "dolcezza", avvertita come una delle marche più tipiche dello stile del D. risiede anche il principale nodo dell'interpretazione della sua poesia. È il problema dei rapporti che intercorrono tra lo Stilnovo e il Davanzati. Se nelle sue rime si colgono echi guinizzelliani, è questo un indizio che il rimatore fiorentino ha intuito la sostanziale novità del Guinizzelli nel panorama ormai logoro della poesia tardo duecentesca? O non avviene piuttosto che nell'officina del D. il Guinizzelli si allinei alla rinfusa con provenzali, siciliani, Guittone e guittoniani a fornire i materiali su cui si esercita la capacità di rielaborare e di variare del rimatore?.
Oggi è opinione critica comune che il D. sia stato appena sfiorato dal rinnovamento stilnovista, ma che nella sostanza non gli si possa accreditare alcuna sensibilità precorritrice. Ed allora, se novità vanno riconosciute al D., queste sono piuttosto di ordine tecnico. Chiaro per primo spezza lo schema ripetitivo delle stanze nella canzone, variando la misura dei versi in corrispondenza delle stesse sedi ed anche non rispettando in tutte le stanze la stessa sequenza delle rime. Altra sua invenzione è la stanza di soli endecasillabi, che sarà poi ripresa da Dante.
Il corpus delle rime del D. è stato edito criticamente da Aldo Menichetti (C. Davanzati, Rime, a cura di A. Menichetti, Bologna 1965); a questo lavoro è obbligatorio far ricorso per tutti i problemi testuali e interpretativi concernenti i singoli componimenti.
Sull'ediz. Menichetti cfr. E. Vuolo, Sulle rime di C. D., in Studi medievali, X (1969), 2, pp. 301-412. Tra le numerose edizioni parziali delle rime del D., precedenti l'ed. Menichetti, è doveroso segnalare: Le antiche liriche volgari secondo la lezione del cod. Vat. 3793, a cura di A. D'Ancona-D. Comparetti, III, Bologna 1884, pp. 1-177; La poesia lirica del Duecento, a cura di C. Salinari, Torino 1951, pp. 322-76; e soprattutto Poeti del Duecento a cura di G. Contini, I, Milano-Napoli 1960, pp. 399-430, che si segnala anche per l'esemplare profilo introduttivo dei curatore.
Bibl.: T. Casini, recens. a Le antiche liriche, cit., in Riv. critica d. letter. ital. I (1884), coll. 69-78; F. Novati, Notizie biograf. di rimatori ital. dei sec. XIII e XIV, I, C. D., in Giorn. stor. d. letter. ital., V (1885), pp. 403-07; C. De Lollis, Sul canzoniere di C. D., ibid., Suppl., I (1898), pp. 82-117; F. Torraca, Per la storia letter. del sec. XIII, in Rass. crit. d. letter. ital., X (1905), pp. 117 ss.; S. Debenedetti, Nuovi studi sulla Giuntina di rime antiche, Città di Castello 1912, pp. 15-19; G. Bertoni, Il Duecento, Milano 1913, pp. 97 ss.; R. Palmieri, La poesia polit. di C. D., Ravenna 1913; Id., Saggio sulla metrica del Canzoniere di C. D., Ravenna 1913 (cfr. la recensione alle due opere del Palmieri di F. Pellegrini, in Rass. bibliogr. d. letter. ital., XXII [1914]. pp. 1-7); Id., Appunti Per servire alla biografia di C. D., in Zeitschrift für romanische Philologie, XXXVIII (1914), pp. 447-57 (recens. di F. Pellegrini, in Rass. bibliogr. d. letter. ital., XXIII [1915], pp. 1-11); Id., Studi di lirica toscana anteriore a Dante, Firenze 1915, pp. 5-55; E. Werder, Studien zur Gesch. der lyrischen Dichtung im alten Florenz, Zürich 1918, pp. 142-56; C. Mascetta Caracci, La Poesia Politica di C. D., Napoli 1925; A. Tartaro. Guittone e i rimatori siculo-toscani, in Storia della letter. ital., a cura di E. Cecchi-N. Sapegno, I, Milano 1965, pp. 413-17; A. E. Quaglio, I Poeti siculo-toscani, in Lett. ital. Storia e testi, a cura di C. Muscetta, 1, 1, Bari 1970, pp. 316-28; M. Marti, Storia dello stilnuovo, Lecce 1973, pp. 153-59 e passim; d'A. S. Avalle, Ai luoghi di delizia pieni, Milano-Napoli 1977, pp. 49-53 e passim; Encicl. dantesca, I, pp. 956 s., s. v.