GAMBACORTA, Chiara
, Chiara. - Nacque probabilmente a Firenze nel 1362 da Pietro e dalla prima moglie di questo e fu battezzata come Tora. Il padre, di eminente famiglia pisana ed esponente di punta della fazione filofiorentina dei bergolini, era infatti in esilio dal 1355 per l’allontanamento della sua famiglia dal governo cittadino.
Giunta a Pisa nel febbraio 1369 - quando Pietro fu richiamato in patria, dando poi di fatto vita a un reggimento signorile durato fino al 1392 - la G. venne promessa, nello stesso anno, a Simone Massa, nelle cui mani il padre la consegnò nel 1374, all’età di dodici anni. Poco tempo dopo si ammalò contemporaneamente al marito; questi mori nel 1377 lasciandola vedova a soli quindici anni. Come aveva già manifestato in tenera età, la G. in quegli anni cominciò a prodigarsi in favore dei poveri e dei malati e prese a ricorrere a pratiche penitenziali personali: digiuni, penitenze, preghiera assidua portati alle estreme conseguenze. Alla famiglia che la esortava a riprendere marito, la G. espresse il chiaro desiderio di entrare in convento, al punto che, aggiungendo ad atteggiamenti ribelli stranezze e mortificazioni, fu creduta pazza dai familiari.
La sua determinazione era accresciuta dalle esortazioni indirizza tele da Caterina Benincasa da Siena - che la G. aveva conosciuto in occasione del soggiorno di quest’ultima a Pisa nel 1375 - con la quale intratteneva una fitta corrispondenza; sempre in quegli anni iniziò inoltre a intessere contatti epistolari con il convento delle clarisse di S. Martino per chiederne l’ammissione. Constatata la scarsa rispondenza dei genitori alle aspirazioni che animavano la sua vita, la G. entrò a loro insaputa nel convento dove assunse il nome di Chiara. Il padre reagì con irruenza inviando i figli armati per riprendersi la figlia.
L’anonima Vita sottolinea con particolare efficacia come l’avversione dei genitori per la scelta della G. fosse dettata principalmente dall’affetto e non da motivazioni di carattere politico ed economico. Del resto, anche sul più formalizzato piano documentario, le concessioni impetrate da Pietro per la successiva fondazione del convento di S. Domenico, furono fatte in nome della «dilecta filia», elemento che non contraddice i toni affettuosi presenti nella Vita sopraccitata.
Dopo il ritorno alla casa paterna e la successiva reclusione nella stessa, iniziò un periodo, di durata imprecisata, durante il quale il G. ebbe modo di chiarire - e fortificare - la propria chiamata alla vita monastica. Fu allora che maturò con maggiore convinzione la propria scelta, per la quale si dimostrò fondamentale l’intervento di direzione spirituale dapprima di Carerina Benincasa, in seguito di Alfonso di Vadaterra, già confessore di Brigida di Svezia. Solo dopo il colloquio con Alfonso, il quale propose un modello di riferimento che non fosse solo l’imitatio Christi e che si avvicinasse di più all’«attiva santità» di Brigida, e la mediazione della nuova moglie di Pietro, una Oretta forse dei Doria di Genova, si giunse alla vera e propria professione monastica. Nel novembre del 1379 la G. entrò nel convento domenicano di S. Croce in Fossa Bandi.
Insoddisfatta dallo scarso rigore della vita claustrale in S. Croce, la G. riuscì a ottenere prima un luogo appartato in cui pregare con più fervore, poi addirittura la fondazione di un nuovo convento intitolato a S. Domenico. In questo, che viene comunemente considerato come il primo convento femminile dell’Osservanza domenicana, la G. entrò con alcune compagne il 29 ag. 1382. La sanzione ufficiale dell’avvenuta fondazione venne conferita da una bolla di Urbano VI del 17 sett. 1385, ratificata poi da una lettera vescovile del 4 maggio 1386 e da un’ulteriore bolla pontificia del 25 luglio 1387 con la quale si approvava canonicamente la comunità, dipendente dalla provincia romana dell’Ordine dei predicatori. La nuova fondazione venne posta nelle mani di Domenico da Peccioli che fu anche confèssore della comunità fino alla propria morte (1408); un ruolo non marginale ebbe anche Giovanni Dominici (Giovanni Bianchini), che si ispirerà all’azione riformatrice della G. nel dare vita, nel 1394, al celebre convento veneziano del Corpus Christi.
Nella nuova sede la G. ricopri il ruolo di sottopriora durante il priorato di Filippa Albizzi, almeno fino al 14 febbr. 1400, data in cui ancora firmava come «indegna monaca di S. Domenico» (Zucchelli, p. 355), quindi succedette come priora, ruolo che fu suo fino alla morte. La vita della G. nella nuova famiglia, tutta improntata alla strettissima e regolamentatissima clausura, verteva su due parallele direttrici: da un lato l’ascesi personale, condotta con rigore in astinenza e povertà, dall’altro il nuovo compito di guida e di consigliera spirituale.
La G. intraprese in questi anni anche una lunga corrispondenza con il mercante pratese Francesco Datini e la moglie, ai quali si rivolgerà sempre come amici e sostenitori per le necessità del convento. Si occupò inoltre della sopravvivenza finanziaria dell’ospizio degli esposti di Pisa dopo che, alla morte della sua guida, Donna Cea, l’istituto era rimasto senza una direzione e senza averi. La crescita della famiglia monastica, seppur gradualmente e lentamente, procedette con continuità fino a raggiungere una quarantina di presenze alla sua morte.
Fedele alla regola del convento, la G. giunse all’estrema concretizzazione del voto di ubbidienza alle norme pontificie, che avevano sancito limiti rigorosi per i contatti con l’esterno. Nel 1392, in occasione dei rivolgimenti politici che condussero alla destituzione del padre e al suo assassinio da parte della fazione filoviscontea capeggiata da Jacopo Appiani, si presentarono alle porte del convento due dei suoi fratelli, feriti durante gli scontri, a chiedere asilo, ma la G. negò loro l’accoglienza per non incorrere nella scomunica. L’episodio, che la Vita presenta come massimo esempio di virtù, propone un modello di fedeltà e ubbidienza alle norme precettistiche: la carità della G. viene maggiormente sottolineata nel successivo episodio dell’accoglimento delle figlie dell’Appiani, e in quello del perdono verso lo stesso Jacopo.
Durante la quaresima del 1419 la G. si ammalò per l’ennesima volta a causa degli stenti e la malattia degenerò presto in sinusite e febbre alta. Mori con i conforti religiosi il lunedì di Pasqua dello stesso anno (17 aprile). Pur mantenendosi le regole della clausura, il corpo fu visitato da un’enorme folla, e sotterrato con grandi onori presso il coro ai piedi dell’altare.
Il culto popolare nei confronti della G. non cessò mai di manifestarsi nel corso degli anni; tuttavia solo il 4 marzo 1830 si giunse a un rescritto di Pio VIII con il quale era decretata, tramite la congregazione dei Riti, la legittimità del culto, esteso alla diocesi pisana e all’Ordine domenicano, da tributare con celebrazioni di rito doppio. La festa liturgica in suo onore viene celebrata tuttora il 17 aprile, mentre quella definita ad concursum populi la quarta domenica dopo Pasqua, giorno nel quale le reliquie della beata sono esposte alla venerazione dei fedeli.
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