Chi deve pagare i partiti?
Rimborso diretto o indiretto? La soluzione va cercata a monte, nel rapporto con lo Stato e gli organismi di controllo, avendo come punto di riferimento la legislazione europea.
Nei primi mesi del 2012, a circa venti anni di distanza dal referendum che, nel 1993, aveva abrogato le norme che disciplinavano il finanziamento dell’attività ordinaria dei partiti, la questione del finanziamento della politica è tornata al centro del dibattito pubblico italiano. In particolare, la polemica (mai del tutto sopita) intorno al ‘costo’ dei partiti politici – ossia l’ammontare delle risorse messe a loro disposizione dallo Stato – è stata innescata dall’emergere di nuovi scandali che hanno coinvolto, più o meno direttamente, i vertici di alcuni tra i più rilevanti partiti italiani. Queste vicende – che hanno riguardato formazioni di diversa collocazione politica e con differenti tradizioni ideologiche e organizzative – sono accomunate dall’aver avuto a oggetto un utilizzo nel migliore dei casi spregiudicato, quando non addirittura illecito, del denaro pubblico. Esse hanno inoltre messo a nudo due distinti (ma connessi) ordini di problemi. In primo luogo, la questione dei controlli istituzionali, a oggi del tutto inefficaci e affidati agli uffici di presidenza delle Camere (quindi sostanzialmente nelle mani degli stessi ‘controllati’), con la Corte dei Conti relegata a un semplice ruolo di verifica dei profili di legittimità e regolarità dei documenti a essa trasmessi.
In secondo luogo, il problema della totale assenza di trasparenza nelle modalità di gestione delle risorse all’interno dei partiti.
Si è posto quindi il dilemma di come regolamentare le forme di accesso e di impiego dei contributi pubblici (che la normativa italiana configura artatamente come ‘rimborsi elettorali’) da parte dei partiti, soprattutto a fronte di un crescente malcontento presso i cittadini. L’intera questione, tuttavia, rischia di essere mal posta se affrontata unicamente secondo la dimensione dei ‘costi’ della politica, e avanzando soluzioni imperniate sulla semplice riduzione o – nei casi più estremi – sull’abolizione del finanziamento pubblico. L’attuale dibattito può invece rappresentare un’utile opportunità per avviare una riflessione, in chiave propositiva, intorno al più generale rapporto tra i partiti e lo Stato, un tema per lungo tempo eluso dalla classe politica italiana. Occorre tenere presente che forme di finanziamento pubblico erano già state introdotte a partire dalla seconda metà del Novecento, in aggiunta ai tradizionali canali del finanziamento privato.
Data l’estrema varianza dei regimi di finanziamento pubblico-privato invalsi a livello europeo, appare peraltro assai improbabile ‘quantificare’, comparativamente, i costi complessivi della politica, se non a prezzo di brutali semplificazioni, spesso fuorvianti, e di confronti tra casi disomogenei. Cercando di individuare alcune linee di tendenza, è possibile osservare che, per quanto riguarda il finanziamento privato esso è generalmente disciplinato da specifiche previsioni normative, ma a differenza di ciò che avviene negli Stati Uniti i paesi europei non ricorrono a regolamentazioni eccessivamente rigide, data la natura per lo più privatistica e volontaria delle organizzazioni di partito. Il più delle volte le leggi fissano tetti massimi alle contribuzioni, specifici divieti (nel caso delle donazioni anonime o di contributi da parte di imprese a controllo pubblico), oppure impongono la pubblicità dei nominativi dei contribuenti.
Per quanto riguarda invece il finanziamento pubblico, esso può essere distinto in diretto e indiretto. Mentre il finanziamento diretto è finalizzato al sostegno delle attività ordinarie degli apparati dei partiti e della loro faccia ‘istituzionale’ (sotto forma di rimborsi elettorali e contributi ai gruppi parlamentari), le più diffuse forme di finanziamento indiretto consistono in: agevolazioni, ossia servizi di natura non monetaria attraverso i quali gli Stati supportano la competizione politica (materiale elettorale, edifici pubblici, accesso ai mass-media ecc.); contributi vincolati, vale a dire trasferimenti di denaro aventi specifiche finalità (supporto alla stampa di partito o ad associazioni collaterali); incentivi, che consistono generalmente in previsioni normative in materia di deducibilità fiscale, di esenzione fiscale, di credito.
Relativamente alle procedure per l’accesso e la distribuzione del finanziamento pubblico, i principali criteri adottati dagli Stati europei hanno a oggetto requisiti di natura elettorale (il superamento di una specifica soglia, in termini di percentuali e/o di voti ottenuti dai partiti) o parlamentare (accedono al riparto quei partiti che eleggono candidati nella legislatura corrente o che hanno eletto propri rappresentanti nella legislatura conclusa).
Più specificamente, nei paesi europei è possibile individuare una prevalenza di modelli misti, orientati al supporto tanto delle attività extraparlamentari, quanto delle spese elettorali dei partiti. Una maggiore varianza può essere riscontrata in riferimento alle procedure per accedere al riparto del denaro pubblico e per la sua distribuzione: a prevalere sono tuttavia criteri di tipo elettorale. Sia questi sia i criteri di tipo parlamentare si basano sulle ‘dimensioni’ dei partiti, ossia sul numero di voti ricevuti o dei seggi ottenuti: in alcuni casi (Belgio, Olanda, Austria, Svezia e Italia fino al 1993) sono previste quote fisse di finanziamento da affiancare ai contributi ricevuti, da distribuire in parti eguali tra i partiti aventi diritto. Esistono inoltre procedure combinate – è il caso della Francia, dove sia i partiti che hanno ottenuto almeno l’1% in un minimo di 50 collegi uninominali, sia quelli con almeno un deputato o senatore affiliato sono ammessi al finanziamento annuale – o che collegano l’ammontare del contributo pubblico alla capacità estrattiva autonoma dei partiti.
La prassi del cosiddetto matching fund è in uso in Germania, dove la Corte Suprema ha stabilito nel 1994 che i partiti possono ricevere denaro pubblico pari alla quota di risorse autoprodotte; ma anche nella stessa Francia, dove i partiti che non sono riusciti a soddisfare i criteri sopra descritti, ma che sono stati in grado di raccogliere una determinata quota (fissata dalla legge) di risorse grazie ai contributi di 10.000 persone identificabili (compresi 500 rappresentanti eletti ai vari livelli istituzionali), possono accedere al matching fund pubblico.
Le regole in Europa
Questo rapido excursus dei regimi di finanziamento diffusi in Europa fornisce il quadro delle forti interrelazioni che, a partire dagli anni Settanta del Novecento, sono andate sviluppandosi tra i partiti politici e lo Stato. Secondo la letteratura specialistica, la penetrazione dei partiti all’interno dello Stato e il loro parallelo distacco dalla società civile avrebbero contribuito a mutare l’essenza stessa dei partiti, avvicinando i loro profili organizzativi e il tipo di funzioni svolte a quelli di vere e proprie agenzie parastatali o, come sostiene I. van Biezen, a forme peculiari di public utilities: in quanto organizzazioni che contribuiscono alla formazione di beni pubblici per la collettività, indispensabili per la democrazia, i partiti sarebbero quindi pienamente legittimati a ricevere quote di finanziamento pubblico da parte dello Stato, che a sua volta avrebbe il diritto di regolarne in dettaglio l’operato al fine di garantire la trasparenza dell’impiego delle risorse ricevute e di verificare il perseguimento effettivo degli scopi per i quali il denaro è stato erogato. È a partire da questa riconfigurazione complessiva del ruolo dei partiti – come ‘produttori’ di beni pubblici – che è a nostro avviso possibile riconsiderare i termini del loro ‘contratto’ con lo Stato, in quanto sono percettori di finanziamenti pubblici.
A questo scopo, la revisione della disciplina costituzionale sulla natura dei partiti potrebbe essere informata alla definizione di uno ‘statuto dei partiti’, che dovrebbe fungere da riferimento obbligatorio per gli statuti delle singole formazioni politiche italiane, sulla scia di quanto elaborato a livello europeo per la regolamentazione dei Partiti politici di livello europeo (Reg. CE 2004/2003).
Tale Regolamento prevede che per essere riconosciuto come Partito europeo e accedere al finanziamento pubblico, un partito deve presentare una serie di prerequisiti, che rappresentano un mix di criteri legali, parlamentari ed elettorali: la distribuzione dei fondi avviene sulla base di un criterio parlamentare puro. Rispetto ai requisiti per accedere al finanziamento, il Regolamento si basa su uno schema misto, che integra un ulteriore criterio rispetto agli schemi nazionali, ossia il criterio del vincolo programmatico, che ha a oggetto il rispetto dei principi fondamentali sui quali si basa l’Unione Europea.
Considerare i partiti alla stregua di public utilities, regolamentandone in parte le modalità di funzionamento interno e di gestione delle risorse, nel segno di una maggiore democraticità, trasparenza e di una accresciuta accountability, non significa svuotare di significato la loro fondamentale funzione di elaborazione di identità collettive. Al contrario, una maggiore apertura delle loro organizzazioni verso l’esterno e la garanzia di un sistema efficace di controlli, affidato a un organo terzo come la Corte dei Conti, renderebbero più immediato e vincolante il rapporto tra il partito e i suoi elettori, favorendo una più elevata responsiveness della classe politica. Ovviamente, la regolamentazione pubblica delle organizzazioni di partito – che, nel caso italiano, dovrebbe accompagnarsi a una completa revisione del metodo di calcolo dell’importo complessivo da assegnare ai partiti, nell’ottica di una drastica riduzione dei contributi – non rappresenta la panacea per la soluzione di tutti i problemi. Il buon esito di una tale strategia si lega indissolubilmente all’adozione di specifiche e incisive norme volte a combattere fenomeni degenerativi, come la corruzione politica, e a fissare regole per la selezione dei candidati alle elezioni di ogni ordine e grado, finalizzate a rendere impossibile la candidatura di pregiudicati o di quanti abbiano ricevuto condanne per reati amministrativi, civili e penali.
Criteri parlamentari
Per quanto concerne i criteri parlamentari, generalmente per poter ottenere il finanziamento pubblico i partiti devono ottenere un numero minimo di seggi. In Olanda, tutti i partiti rappresentati in Parlamento ricevono contributi pubblici, mentre in Finlandia e in Belgio ottengono il finanziamento solo quei partiti che hanno eletto loro candidati in entrambe le Camere. In Spagna e in Portogallo il riparto dei contributi pubblici avviene in considerazione sia dei voti sia dei seggi ottenuti. In Italia il criterio del minimo di seggi ottenuti si applica per le elezioni europee e per quelle regionali, mentre in Gran Bretagna soltanto i partiti registrati che hanno eletto almeno due candidati alla House of Commons accedono ai fondi.
Finanziamenti diretti
Con riferimento ai criteri elettorali, le leggi fissano specifiche soglie per accedere al finanziamento: da un minimo numerico di voti (es. 1000 in Danimarca) a determinate percentuali elettorali ottenute a livello nazionale. In Italia la legge 515/1993 stabiliva una soglia del 3% per ottenere i rimborsi elettorali, successivamente abbassata all’1% nel 1999. In Irlanda sono i singoli candidati che hanno ottenuto un numero minimo di voti a essere rimborsati mentre in Svezia quei partiti che non hanno eletto candidati in Parlamento, ma che hanno ottenuto almeno il 2,5% dei voti in una delle due consultazioni elettorali nazionali più recenti accedono al riparto.
Finanziamenti indiretti
L’accesso gratuito ai mass-media rappresenta una delle principali agevolazioni concesse ai partiti, variabile anche in questo caso a seconda di criteri di tipo elettorale (commisurando il minutaggio in proporzione ai voti: Belgio, Germania), parlamentare (Austria, Olanda) o misto (Italia). Altri tipi di servizi ai partiti a spese dello Stato possono consistere in:
■ copertura delle spese di trasporto per recarsi e fare ritorno dai seggi elettorali (Svezia, Italia);
■ concessione gratuita di spazi pubblici per l’affissione dei manifesti elettorali (Belgio, Francia, Germania, Italia, Olanda, Spagna);
■ sconti sulle spedizioni postali e sulle marche da bollo (Belgio, Italia, Svezia, Spagna, Irlanda, Gran Bretagna);
■ concessione gratuita di luoghi pubblici (Francia, Spagna, Italia, Gran Bretagna);
■ possibilità di organizzare lotterie (Italia, Svezia);
■ erogazione di contributi pubblici a istituzioni vincolati a scopi specifici (ricerca, formazione, gioventù: Austria, Germania, Olanda fino al 1999);
■ finanziamento di particolari attività volte a incrementare la partecipazione dei cittadini (è il caso delle norme sulla partecipazione femminile e sul sostegno alla stampa di partito, in Italia). In genere, i contributi vincolati non possono essere spesi per scopi elettorali. Anche gli incentivi pubblici sotto forma di benefici fiscali sono impiegati per stimolare un maggiore coinvolgimento dei cittadini in politica;
■ la legge danese prevede la completa deducibilità delle tessere di partito, mentre in Germania e Francia sono stabilite particolari agevolazioni fiscali per i cittadini, estese anche alle imprese dalla normativa italiana (che prevedeva pure la possibilità di versare il 4x1000 ai partiti, misura risultata fallimentare e quindi abrogata) e da quella olandese.