Amor, che movi tua vertù dal cielo
La canzone (Rime XC) è citata due volte nel De vulgari Eloquentia: la prima, come esempio di canzoni illustri che hanno il loro cominciamento con verso endecasillabo (II V 5); la seconda, come esempio di stanza di canzone in cui pedes caudam superant carminibus et sillabis (II XI 7). I quindici versi della stanza sono, infatti, distribuiti secondo lo schema 8 + 7: ABBC, ABBC ; CDDEFEF. La canzone si conclude con la quinta stanza, senza congedo; ma ci sono edizioni, a cominciare da quella del Fraticelli, seguito dal Moore per l'edizione oxfordiana, dal Serafini (1883), e dal Cossio (New York 1918), che le assegnano il congedo Canzone, a' tre men rei che appartiene legittimamente a Io sento sì d'Amor. Leonardo Bruni nella sua Vita di Dante la segnala insieme con altre due fra le " perfette " canzoni del poeta: " Le canzoni sue sono perfette, limate, leggiadre e piene d'alte sentenze, e tutte hanno generosi cominciamenti, siccome quella canzone che comincia Amor che muovi etc., dov'è comparazione filosofica e sottile infra gli effetti del sole e gli effetti d'.Amore, e l'altra che comincia Tre donne etc., e l'altra che comincia Donne ch'avete. E così in molte altre canzoni è sottile, limato e scientifico ".
La canzone figura fra le più autorevoli raccolte di rime di D. in antichi manoscritti, come il Chigiano L VIII 305, il Magliabechiano VI 143, il Veronese 445, ecc.; e occupa il quinto posto, dopo Le dolci rime e prima di Io sento si d'Amor, nell'elenco di quelle quindici canzoni ordinate con ogni probabilità dal Boccaccio nei suoi autografi (Chigiano L V 176; Toledano 104, 6), e di qui diffuse in numerosi altri manoscritti. L'ordine delle quindici canzoni della tradizione Boccaccio, ma con l'aggiunta di Donne ch'avete e Donna pietosa al primo e al secondo posto e di Ai faux ris al diciottesimo, è conservato nell'edizione del Canzoniere pubblicata a Venezia da Pietro Cremonese nel 1491, in appendice all'edizione della Commedia. Nell'importante edizione Giuntina del 1527, dove le rime di D. sono suddivise in quattro libri, Amor, che movi fa parte del terzo (" Canzoni amorose e morali ") insieme con altre otto, al secondo posto, dopo Così nel mio parlar e prima di Io sento sì d'Amor. Nell'ordinamento proposto dal Barbi nel testo critico delle Opere di Dante del 1921 la canzone Amor, che movi, seguita immediatamente dalla canzone Io sento sì d'Amor, fa parte del libro quinto (" Altre rime d'amore e di corrispondenza "), dopo il libro delle " Rime allegoriche e dottrinali " e prima del libro delle " Rime per la donna pietra ". Secondo il Barbi, tanto canzone Amor, che movi, quanto Io sento sì d'Amor segnano un ritorno alle ‛ dolci rime d'amor ' per donna reale o immaginata come reale, dopo l'esperienza delle rime dottrinali Le dolci rime e Poscia ch'Amor. La stretta vicinanza nel medesimo libro con le rime per la pargoletta (le due ballate I' mi son pargoletta e Perché ti vedi, e il sonetto Chi guarderà) lascia supporre che il Barbi non intendesse escludere che anche le due canzoni appartenessero al medesimo gruppo. Fra i critici moderni propendono per l'interpretazione allegorica di questa canzone e di Io sento sì d'Amor, riprendendo la tradizione rappresentata dal Witte, dal Fraticelli, dal Giuliani, dal Carducci (non senza qualche esitazione), dallo Zingarelli e da altri, il Mattalia (edizione delle Rime con commento, Torino 1943) e il Nardi (Dal " Convivio " alla " Commedia ", Roma 1960, 8). Il Contini (edizione delle Rime con commento, Torino 1939) rimane incerto se l'ispiratrice di Amor, che movi sia o no la pargoletta, mentre per Io sento sì d'Amor inclinerebbe verso l'interpretazione allegorica (" forse allusione all'amore della sapienza "). Nel gruppo delle rime per la pargoletta la collocano, insieme con Io sento si d'Amor, il Sapegno (Le Rime di Dante, Corso accademico 1956-57, Roma, 100) e l'Apollonio (edizione commentata delle Rime, Milano 1966), e anche il Casella (voce Rime di Dante nel Dizionario Bompiani delle Opere), affermando che " nelle rime della Pargoletta (due ballate e un sonetto) il tema dell'amore è colto poeticamente in un'atmosfera rarefatta di dolce stil novo; ma nelle canzoni Amor, che movi e Io sento sì d'Amor, il motivo che le informa si fa canto solenne ed eloquente, ragionato e commosso ", pare che lasci aperta la possibilità di intenderle composte per la pargoletta. È senz'altro l'ipotesi più probabile che anche noi condividiamo, confermando l'opinione del Barbi che esse furono composte per un amore diverso da quello per la Donna gentile, sia essa da identificare o no con la filosofia, che non sono allegoriche, e che, cronologicamente, precedono le rime per la donna pietra.
Nella canzone Amor, che movi D. riprende il tema della definizione di Amore innovando rispetto a quanto aveva accettato dal Guinizzelli (v. sonetto Amore e 'l cor gentil). Per intendere il significato dell'innovazione bisogna tener presenti le due canzoni dottrinali Le dolci rime e Poscia ch'Amor. Nella prima, D. definisce la gentilezza, cioè la nobiltà dell'uomo, come bontate che Dio dona all'anima che vede in sua persona / perfettamente star (vv. 117-118). Da tale bontate discende l'abito della virtù che si attua praticamente nell'esercizio delle virtù morali e intellettuali. Nella seconda, per dimostrare che cosa è leggiadria, si parte dal presupposto della nobiltà da cui deriva la virtù, alla quale si deve unire Sollazzo e Amore per costituire la leggiadria che adorna la vita del gentiluomo, del cavaliere. Amore, dunque, non è considerato come elemento costitutivo della nobiltà e della virtù, potendosi dedurre dalle due canzoni che può esistere la nobiltà e la virtù senza Amore (cfr. Rime LXXXIII 80-82, dove si afferma che la leggiadria, appunto per le componenti di Sollazzo e Amore, non si addice a gente onesta / di vita spiritale / o in abito che di scienza tiene, per la quale più si richiede la pura virtù, e quindi la nobiltà). Ora, nella canzone Amor, che movi c'è come un ripensamento di D. sulla vera natura di Amore, che porta a conclusioni diverse rispetto a quanto era stato detto nelle due canzoni dottrinali, e alla stessa teoria guinizzelliana della canzone Al cor gentil. Secondo il Guinizzelli, Amore, che ha la sua dimora nel cuore gentile dell'uomo, diventa operante per gli effetti della bellezza della donna. Nei vv. 9-42 della nostra canzone (da te conven che ciascun ben si mova / per lo qual si travaglia il mondo tutto; / sanza te è distrutto / quanto avemo in potenzia di ben fare) D., invece, determina specificamente la natura di Amore da lui invocato, concependolo come principio attivo necessario perché diventi operante nell'uomo dotato di nobiltà la potenzialità all'esercizio delle virtù morali e intellettuali. Questo Amore, dunque, coincide con quell'amore d'animo, distinto dall'amore naturale, di cui D. parlerà per mezzo di Virgilio in Pg XVII 91-139 (cfr. specialmente vv. 103-104 Quinci comprender puoi ch'esser convene amor sementa in voi d'ogne virtute), e con l'appetito [d'animo] che è solamente quello che spetta a la parte razionale, cioè la volontade e lo intelletto, di cui si parla in Cv IV XXII 10. Amore così concepito, come si chiarisce nei versi della seconda stanza della canzone, non se ne sta in riposo dormendo nel cuore nobile per svegliarsi dopo che una bellezza di donna ha fatto nascere un disio de la cosa piacente (Vn XX 5 11), ma è già operante nel cuore che egli ha liberato da ogni viltà, rendendolo perciò compiutamente nobile, al fine del conseguimento di ciascun ben da parte dell'uomo. La contemplazione della bellezza che rifulge nelle singole cose è uno di tali beni, e il poeta l'ha raggiunto contemplando la bellezza di una giovane donna che, entratagli nella mente, l'ha fatto suo. Da questo momento comincia per il poeta l'esperienza specifica di una determinata avventura del suo sentimento amoroso per una determinata donna, che nel suo particolare è pur sempre una manifestazione degli effetti di quell'Amore universale che deriva dal cielo la sua virtù, e senza il quale è distrutto / quanto avemo in potenzia di ben fare (vv. 11-12). Il prosaico Dunque dell'inizio della quarta stanza segna appunto questo passaggio dal sottile, perché filosofico e scientifico, linguaggio delle prime tre stanze, a quello più consueto della tradizione della lirica cortese e anche stilnovistica coi luoghi comuni di Amore invocato e deprecato come fattore determinante, in senso positivo o negativo, di una vicenda amorosa. Qui il poeta lo invoca a venirgli in aiuto perché la donna amata, per la sua ancora immatura giovinezza, si mostra insensibile al suo amore (Falle sentire, Amor, per tua dolcezza, / il gran disio ch'i' ho di veder lei; / non soffrir che costei / per giovanezza mi conduca a morte, vv. 54-57). La disponga, dunque, ad amare: sarà un grande onore per lui, e un ricco dono per il poeta che, per il dolore di non essere corrisposto, si sente vicino a morte. E, in queste due ultime stanze, il medesimo atteggiamento psicologico e il medesimo linguaggio delle due ballate e del sonetto per la pargoletta (cfr. Rime LXXXVII 20-24 e io che per veder lei mirai fiso, / ne sono a rischio di perder la vita; / però ch'io ricevetti tal ferita / da un ch'io vidi dentro a li occhi sui, / ch'i' vo' piangendo e non m'acchetai pui; LXXXVIII 4-7 Orgogliosa se' fatta e per me dura, po' che d'ancider me, lasso!, ti prove: / credo che 'l facci per esser sicura / se la vertü d'Amore a morte move; LXXXIX 1-4 Chi guarderà già mai santa paura / ne li occhi d'esta bella pargoletta, / che m'hanno concio sì, che non s'aspetta / per me se non la morte, che m'è dura?). Più coerentemente col linguaggio delle prime tre stanze il discorso sarà ripreso nella canzone Io sento sì d'Amor.
Bibl. - D.A., Il Canzoniere, a c. di P. Fraticelli, Firenze 1834, 19022; K. Witte e K.L. Kannegiesser, D. Alighieri's lyrische Gedichte, II, Lipsia 1842, 125 ss.; G.B. Giuliani, La Vita Nuova e il Canzoniere di D. A., Firenze 1863; G. Carducci, Delle rime di D., in Opere, X 151; Contini, Rime 122 ss.; D.A., Rime, a e. di D. Mattalia, Torino 1943, 102 ss.; Zingarelli, Dante 349 Ss.; M. Casella, Le Rime di D., in Dizion. delle Opere e dei personaggi VI (1951); N. Sapegno, Le Rime di D., Roma, dispense anno accad. 1956-57, II, 98-100; B. Nardi, Dal ‛ Convivio ' alla ‛ Commedia ', Roma 1960, 1-20; D.A., Rime, a e. di M. Apollonio, Milano 1965, 168 ss.; D.A., Oeuvres complètes, a c. di A. Pézard, Parigi 1965, 174 ss.; Dante's Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, II, Oxford 1967, 191 ss.