CEVA GRIMALDI, Bartolomeo, duca di Telese
Nacque ad Aversa nel 1670 da Giovanni Antonio e Fortunata Dentice, di nobile famiglia napoletana ascritta al "seggio" di Nido. In gioventù coltivò gli studi letterari per cui fu ascritto all'Accademia degli Uniti - dove espose un suo Ragionamento contro l'Aminta del Tasso - e, nel 1691, all'Arcadia. Come arcade ebbe il nome di Clarisco Egireo e nella sede romana del Bosco Parrasio recitò alcuni sonetti e due discorsi filosofici.
Fin dagli anni Novanta, il C. risulta legato da amicizia al gruppo di nobili che darà vita, nel 1701, alla congiura di Macchia. Come alcuni di quei nobili, anch'egli si distinse allora per episodi di arroganza e di violenza, tra i quali è rimasta famosa la lite con Pompeo D'Anna, figlio dell'eletto del popolo di quel tempo. In seguito a uno scontro verbale, avvenuto nel teatro di S. Bartolomeo nel febbraio del 1694, tra il C., suo cugino Giuseppe. Capece e il D'Anna, quest'ultimo venne ferito a morte dal Capece alla presenza del vicerè conte di Santo Stefano. Il risentimento del ceto borghese, che vedeva nel comportamento del C. e del Capece una riprova dell'arroganza e delle prevaricazioni nobiliari, e dello stesso viceré, offeso dal fatto che, riguardo alla sua presenza, si fosse trascesi a tal punto, fece sì che si procedesse con molto rigore nei confronti dei due colpevoli. Furono perciò inviate a Telese due compagnie di soldati per trarre in arresto il C., che, però, dopo essersi rifugiato a Benevento, aveva già proseguito alla volta di Roma, dove poteva contare sull'appoggio dell'ambasciatore spagnolo Medinaceli. Questi, divenuto viceré di Napoli (1695), persuase il C. a costituirsi al fine di essere prosciolto dalla condanna emessa nei suoi confronti. Le cose andarono, tuttavia, diversamente, dal momento che il padre dell'ucciso si rifiutò, malgrado le pressioni del Medinaceli, di ritirare l'accusa. Il C. fu, quindi, condannato a cinque anni di esilio nell'isola di Ischia, e da allora nutrì vivo risentimento per il viceré.
Anche per questa ragione, forse, aderì ben volentieri al gruppo guidato da Malizia Carafa e da Francesco Spinelli, duca di Castelluccia, che cercavano di far proseliti tra coloro che avevano motivi di malcontento nei confronti del Medinaceli. A stare al giudizio che di lui dà il Granito e a quanto nelle sue Memorie racconta Tiberio Carafa, principe di Chiusano, che fu contemporaneo del C., non sembra che questi fosse uomo dotato di alte qualità morali: "quantunque sufficientemente colto era d'animo assai basso e doppio, non sapendo adoperare altri argomenti per soddisfare la sua ambizione che i raggiri e le cabale..." (Granito, I, p. 41). Mentre scontava il suo esilio a Ischia, il C. si preoccupava intanto di fare abbellire il palazzo che possedeva a Napoli, nei pressi della chiesa di S. Carlo all'Arena.
Nel 1701 fuggì da Ischia e si unì ai suoi compagni nei preparativi della sollevazione. La sua presenza a un incontro tra i congiurati a Benevento determinò contrasti e malumori a causa di una sua presa di posizione un po' troppo vivace e parziale a favore del duca di Castelluccia. Nella controversa questione circa l'opportunità di assassinare il viceré, il C. poi si dichiarò, prima con la maggioranza, successivamente da solo, a favore della soppressione del Medinaceli, ed ebbe inizio forse allora l'ostilità verso Tiberio Carafa che era, invece, riuscito a convincere i suoi compagni dell'inopportunità del gesto. Tra le richieste avanzate all'Austria dai congiurati vi era anche quella della dignità di gran connestabile per il Ceva Grimaldi.
Fallito il tentativo di rivolta (22 sett. 1701), riuscì a mettersi in salvo con l'aiuto di un frate del convento di S. Lorenzo di Napoli, che, dopo averlo nascosto nella sua cella, lo fece uscire di notte. Rifornitosi del necessario in casa sua e fatti mettere in salvo i propri valori nel monastero dove erano le sue sorelle, il C. si imbarcò alla volta del Circeo, dove si riunì al fratello Angelo e al marchese di Rofrano, che avevano anch'essi preso parte alla congiura. Nell'ottobre del 1701 egli fu condannato come reo di fellonia, i suoi beni confiscati e il suo palazzo abbattuto, nonostante ne avesse simulato la vendita, già parecchio tempo prima del tentativo rivoluzionario, a suo zio, il cardinale Marcello d'Aste. Dallo Stato della Chiesa il C. passò a Vienna, dove cominciò a diffondere maldicenze sul conto degli altri congiurati, dando così avvio a una serie di contrasti che certamente non giovarono alla causa dei napoletani in esilio.
A Vienna continuò a sostenere l'opportunità di un'azione austriaca nel Regno di Napoli. Già nel dicembre 1701, in una lettera inviata a un amico napoletano, egli aveva ribadito, sulla linea espressa nel manifesto del duca di Castelluccia, il sostegno da lui e dai suoi compagni prestato agli Austriaci e le ragioni di esso. Successivamente, sempre a Vienna, si dichiarò contrario all'opinione del marchese di Vasto di rinviare la conquista del Regno di Napoli a dopo che Carlo d'Austria si fosse impadronito della Spagna, dimostrandosi anche giustamente scettico circa la riuscita di quest'ultima impresa. Intanto il C., che a Vienna si era conquistata la protezione del principe di Liechtenstein, non cessava di essere al centro delle beghe tra gli esuli napoletani, cosa che provocò disprezzo e risentimento nei suoi confronti da parte di alcuni di quelli, quali, ad esempio, Tiberio Carafa, il principe di Macchia e il marchese di Rofrano. Con quest'ultimo egli si scontrò anche in duello, senza che, tuttavia, ciò fosse sufficiente a sanare l'inimicizia tra i due; più famoso è rimasto, comunque, il duello con Tiberio Carafa, avvenuto nel 1703. Ne furono all'origine un nuovo tentativo fatto dal C. per mettere in cattiva luce presso la corte asburgica il duca di Castelluccia che, precedentemente, al suo arrivo a Vienna, lo aveva obbligato a smentire formalmente le voci tendenziose fatte circolare sul suo conto su quello del Carafa, del Macchia e di altri e alcuni pettegolezzi sul conto di Tiberio Carafa. Il duello si concluse a favore di quest'ultimo e con il ferimento del Ceva Grimaldi.
Con la conquista del Regno di Napoli da parte degli Austriaci, nel 1707, poté tornare in patria e riacquistare i suoi beni, confiscati nel 1702. Il patrimonio feudale era costituito dal feudo di Telese e Solopaca, nella provincia di Terra di Lavoro, comprendente anche le terre di Ponterotto, Casolle Sant'Adiutore, nei pressi di Aversa, Gricignano, nonché Santa Croce di Migliano in Capitanata. Nello stesso 1707, recandosi da Napoli a Barcellona, il C. trovò la morte nel naufragio di una nave inglese, durante l'inseguimento di un vascello francese. Erede dei suoi beni fu il fratello Angelo Maria.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Biblioteca, nn. 76-76/5: T. Carafa, Memorie, V, ff. 4-6; VII, ff. 55-57; IX, ff. 50 ss.; XV, ff. 87-88; A. Granito, Storia della congiura del principe di Macchia..., Napoli 1861, I-II, ad Ind.; I.Carini, L'Arcadia dal 1690 al 1890, Roma 1891, p. 393; R. Colapietra, Vita pubblica e classi polit. del viceregno napoletano(1656-1734), Roma 1961, pp. 138, 152 s., 162; G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello. Politica,cultura,società, Napoli 1972, pp. 366, 503, 596, 598.