TUMEDEI, Cesare
TUMEDEI, Cesare. – Nacque a Montalto Marche (Ascoli Piceno) l’11 luglio 1894 da Giuseppe, medico, e da Marianna Sacconi.
Nel novembre del 1910 si iscrisse con il fratello gemello, Pompeo, alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna, dove ben presto li avrebbe raggiunti anche il fratello minore Angelo.
Vincitore del premio Ceneri in esegesi di diritto romano nel dicembre 1913, si laureò con il massimo dei voti il 6 febbraio 1915 discutendo con Giacomo Venezian una tesi in diritto civile sul tema La separazione dei beni ereditari. Il lavoro (poi pubblicato a Bologna nel 1917) gli consentì di vincere nel dicembre 1915 il premio Vittorio Emanuele II bandito dall’ateneo bolognese e nel 1916 di accedere al perfezionamento in diritto civile.
Frattanto, con l’ingresso dell’Italia in guerra, si era arruolato volontario. Alla decisione non erano stati estranei lo stesso Venezian (morto peraltro in guerra nel novembre del 1915) e Silvio Perozzi, titolare della cattedra di istituzioni di diritto romano a Bologna. I due giuristi erano i principali animatori della sezione bolognese del Partito nazionalista, alla quale Tumedei si era avvicinato nel 1912 fondando poi l’anno successivo il gruppo giovanile nazionalista. Nel 1919, anno in cui morì per i postumi delle ferite di guerra il fratello Pompeo (anch’egli fervente nazionalista), si arruolò volontario a Fiume con Gabriele D’Annunzio. In quello stesso anno fu tra i fondatori dell’Associazione combattenti di Bologna e della Lega antibolscevica nata dalla frattura con il neocostituito fascio bolognese. Attiva fu la sua collaborazione (sotto lo pseudonimo Caesar) al settimanale nazionalista La Battaglia, ma anche quelle a Il Secolo e al Giornale d’Italia.
Dagli inizi del 1920 al marzo 1921, da militare, fu chiamato a prestare servizio presso il ministero degli Esteri in qualità di addetto all’ambasciata italiana a Berlino: una destinazione alla quale non fu probabilmente estraneo Vittorio Scialoja, all’epoca titolare del ministero, e che per Tumedei si trasformò in un’occasione per approfondire gli studi romanistici grazie alla frequentazione dei corsi e dei seminari universitari di storia del diritto romano e di istituzioni di diritto romano dei giuristi Theodor Kipp e Emil Seckel.
Nella seconda metà del 1922, nel corso della guerra greco-turca, fu anche corrispondente di guerra per Il Resto del Carlino, il Giornale di Genova e il Giornale di Roma, viaggiando tra Asia Minore, Turchia, Palestina ed Egitto.
Risalgono a questo periodo due significativi contributi su temi di natura più specificamente politica: Il voto agli emigranti (in Bollettino della emigrazione, XX (1921), 6-7, pp. 1-21) e La questione tunisina e l’Italia (Bologna 1922), nei quali, soprattutto in quest’ultimo, si mostrò significativamente distante dalle posizioni dei nazionalisti come Enrico Corradini e più attento agli studi dell’economista agrario Ghino Valenti.
In questo periodo si trasferì stabilmente a Roma per svolgervi la professione di avvocato; dopo aver condiviso per un breve periodo lo studio con Filippo Vassalli, nel 1923 iniziò a lavorare nello studio legale di Scialoja. Una scelta che contribuì a pregiudicare la sua iniziale decisione di intraprendere la carriera universitaria, sebbene nel luglio del 1922 avesse conseguito la libera docenza in istituzioni di diritto romano presso l’ateneo romano. In realtà tenne i corsi solamente negli anni accademici 1923-24 e 1926-27, in sostituzione di Scialoja, spesso impegnato a Ginevra presso la Società delle Nazioni. In questi anni, seppure ricchi di diversi riconoscimenti negli studi – nel 1925 entrò a far parte della sezione giuridica dell’Enciclopedia italiana e nel 1927 di quella economica dirette rispettivamente da Angelo Sraffa e Costantino Bresciani-Turroni –, fu principalmente la passione per la politica ad assorbire gran parte delle sue energie.
Già nel 1920 era stato eletto, con il sostegno dei liberali, consigliere provinciale ad Ascoli Piceno, divenendone poi, tra il 1923 e il 1925, presidente dello stesso Consiglio. Eletto nelle liste nazionaliste alle elezioni politiche del 1921 (non ottenne però la convalida perché non aveva ancora compiuto trent’anni), nelle successive elezioni del 1924 fece ingresso alla Camera, cosa che avrebbe segnato una tappa decisiva nella sua esperienza politica. Era stato candidato nella Lista nazionale dopo la fusione dei nazionalisti con il Partito nazionale fascista; un evento che determinò anche la sua iscrizione a quest’ultimo sebbene in seno all’Associazione nazionalista italiana si fosse inizialmente dichiarato contrario alla fusione.
Non fu certo un caso che durante la crisi Matteotti facesse parte della tendenza ‘normalizzatrice’ del fascismo, la quale, avendo in Antonio Salandra e Vittorio Emanuele Orlando due dei principali punti di riferimento, mirava a trovare una soluzione moderata e legalitaria, auspicando un fascismo nazionale, liberale e conservatore all’ombra della monarchia.
Questa posizione avrebbe caratterizzato tutto il corso della sua esperienza politica durante il Ventennio – in questo periodo Mario Missiroli lo definì addirittura un giolittiano (Missiroli a Frassati, 29 dicembre 1924, in L. Frassati, Un uomo, un giornale: Alfredo Frassati, III, 2, Roma 1982, p. 171) – e fu la causa di diversi e latenti attriti con il regime forse non estranei al suo rifiuto di ricoprire l’incarico di sottosegretario al ministero delle Finanze nel giugno 1924. È certo difficile credere che – come pure si scrisse – in quella congiuntura politica le motivazioni del rifiuto di Tumedei fossero da ricondurre esclusivamente alle sue cagionevoli condizioni di salute (La Tribuna, 3 luglio 1924).
La sua partecipazione alla riunione che quarantaquattro deputati tennero nel dicembre del 1924 a casa del vicepresidente della Camera Raffaele Paolucci – fervente monarchico approdato al fascismo dopo l’adesione al nazionalismo – per chiedere, con un ordine del giorno, una maggiore osservanza della giustizia, della Costituzione e delle leggi contro ogni forma di violenza, aiuta ancor più a definire il profilo di Tumedei in questi concitati anni. La riunione, di cui dettero notizia diversi giornali, fu accolta come «l’adunata dei fascisti normalizzatori [che] ha segnato un netto distacco spirituale e politico dall’estremismo» (Giornale d’Italia, 23 dicembre 1924). In quegli stessi giorni, evocando l’art. 48 dello Statuto, Tumedei non esitò a dichiararsi apertamente contrario anche al nuovo disegno di legge restrittivo della libertà di stampa presentato alla Camera.
Fino alla fine della XXVII legislatura dette il suo contributo alla vita parlamentare partecipando sia ai lavori della giunta per il Regolamento interno della Camera – cosa che gli valse il plauso della stampa di opposizione per il modo in cui la giunta aveva fatto «giustizia sommaria di tutte le varie proposte del Grandi» (Il Popolo, 4 giugno 1925) – sia a quelli della giunta generale del Bilancio.
Fu in quest’ultimo organo (al quale era stato designato dall’allora presidente Salandra) che egli riversò gran parte delle proprie energie, grazie anche alla sua particolare predilezione per gli studi economici e finanziari. Significative furono le relazioni ‒ stese insieme a Giuseppe Mazzini, l’altro membro della giunta proveniente dalle file liberali ‒ con cui criticò i bilanci presentati dal ministro delle Finanze Giuseppe Volpi per gli esercizi finanziari del 1926-27 e 1927-28. Al centro delle critiche vi furono l’aumento delle spese e l’eccessiva rivalutazione della moneta, con cui Volpi aveva inaugurato una politica economica caratterizzata da un intervento diretto, diffuso e pervasivo dello Stato nell’economia. Tumedei, nelle sedute della Camera del 3 giugno 1927 e del 21 maggio 1928, metteva invece in guardia il governo su una politica che – temeva – avrebbe condotto a un eccessivo aumento della spesa pubblica con il rischio di mettere in deficit il bilancio dello Stato. Una posizione, quest’ultima, che gli procurò dichiarazioni di stima di economisti liberali come Luigi Einaudi e Attilio Cabiati, ma anche le aspre critiche di una parte della stampa fascista (il 24 luglio 1928 L’Impero lo avrebbe definito uomo vicino ad Alberto De Stefani e «celebre per la sua intrepidezza durante la quartarella»). È però significativo che la giustificazione con cui nel mese di luglio Benito Mussolini accreditò la sostituzione di Volpi con il nuovo ministro Antonio Mosconi fosse proprio il serio pericolo di deficit di bilancio e che subito dopo la nomina Mussolini provvide a inviare personalmente al nuovo ministro «alcuni documenti riservati concernenti le recenti discussioni in tema di politica finanziaria italiana [con] lettere e appunti di Tumedei» (Roma, Archivio centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei ministri, Gabinetto, 1928-30, 1.1.27 2982). In questo quadro, la nomina di Tumedei alla presidenza della giunta del Bilancio immediatamente dopo l’avvio della nuova legislatura, nell’aprile del 1929, appare del tutto naturale.
Nell’espletamento di questo suo nuovo incarico non rinunciò alle proprie idee. Le critiche e i moniti ai bilanci e ai progetti di legge presentati dai ministeri, tutti sostanzialmente miranti a limitare le spese da parte dello Stato, non mancarono di generare dei confronti, anche aspri, con i ministri. Valgano per tutti lo scambio polemico con Galeazzo Ciano, ministro delle Comunicazioni, nella seduta della Camera del 12 giugno 1929 sulla gestione ferroviaria; la divergenza con lo stesso Mussolini emersa nella successiva seduta del 19 giugno a proposito del disegno di legge sui provvedimenti a favore del personale della pubblica amministrazione; o ancora la risposta del ministero delle Colonie, guidato allora da Emilio De Bono, nella quale si osservava come vi fossero «fra i componenti la Giunta del bilancio, con in capite il suo Presidente, troppi che hanno la idiosincrasia di tutto ciò che sa di colonie e di materia coloniale» (Roma, Archivio centrale dello Stato, Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo, Titolo VIII).
La polemica aperta nei suoi confronti il 14 novembre 1930 da Arnaldo Mussolini sulle colonne del Popolo d’Italia a proposito del modo con cui l’Italia avrebbe dovuto affrontare la crisi economica mondiale restituisce per molti versi la cifra delle divergenze emerse sulla materia nell’ultimo anno. Tumedei replicò il 16 novembre dalle colonne del Giornale d’Italia e non fu certo una coincidenza se pochi giorni dopo, in anticipo sui tempi, fu invitato a dare le dimissioni (poi formalizzate il 4 dicembre) dalla presidenza della giunta. Da allora egli ridusse drasticamente la sua partecipazione all’attività parlamentare.
Nel 1931 cessò anche dall’incarico di delegato aggiunto presso l’assemblea della Società delle Nazioni, dove era approdato nel 1927 per volontà di Scialoja. Si protrasse invece ancora per un quinquennio, grazie alle competenze giuridico-economiche che gli venivano riconosciute, la sua partecipazione ai diversi comitati tecnici e di studio della Società.
In quel periodo sposò Adelina (detta Alina) Casalis (nipote del senatore Bartolomeo Casalis) e nel 1932 nacque la figlia Anna Maria (detta Marianella).
Al novembre del 1931 risale la nomina a vicepresidente del neocostituito Istituto mobiliare italiano per volontà dell’allora presidente Teodoro Mayer. Tumedei avrebbe voluto continuare a rivestire ancora a lungo quel ruolo se non fosse sopraggiunta, nel gennaio del 1935, la nomina a sottosegretario presso il ministero di Grazia e Giustizia da poco affidato ad Arrigo Solmi (gli incarichi furono dichiarati incompatibili dal Consiglio dei ministri). Nomina che, giunta inaspettata, egli provò a evitare sia tramite l’interessamento di Mayer sia scrivendo e chiedendo personalmente udienza a Mussolini. Di questo suo tentativo rimane traccia nei comunicati diramati in occasione delle dimissioni dopo poco più di un anno: il 13 novembre Il Popolo d’Italia scrisse che erano dovute alle «insistenti richieste per motivi di carattere personale».
Nominato consigliere nazionale nella Camera dei fasci e delle corporazioni in qualità di componente della corporazione della previdenza e del credito, con l’ingresso dell’Italia in guerra fu subito mobilitato e, nonostante la sua posizione apertamente neutralista, nel 1941 prese parte al conflitto combattendo in Libia. Ma ormai la sua distanza dall’operato del fascismo era sempre più esplicita. Nel febbraio del 1943 rifiutò persino un invito di Camillo Pellizzi a partecipare a un ciclo di seminari sui «codici mussoliniani» organizzato dall’Istituto nazionale di cultura fascista: «non potrei dire in quella occasione ciò che non penso» scrisse a Pellizzi (cfr. le lettere in Roma, Archivio centrale dello Stato, Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo, Titolo VIII).
Dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, fu vicino agli ambienti della Corona e, attraverso Giovanni Visconti Venosta e alcuni degli avvocati romani coinvolti nella lotta di liberazione, prese contatti con il Comitato di liberazione nazionale e l’organizzazione clandestina dei militari che non avevano seguito Mussolini al Nord. La sua collaborazione all’attività della Resistenza, attestata anche dall’Ufficio servizi strategici degli Stati Uniti, contribuì, dopo l’arresto nell’agosto del 1944, alla decisione dell’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo di archiviare i procedimenti di epurazione a suo carico.
In questo periodo si concluse anche l’esperienza nel consiglio d’amministrazione dell’Istituto italiano di credito fondiario (nel quale era entrato nel 1927 per volontà di Salandra, presidente dell’Istituto) e in quello della Società Montecatini, nel quale sedeva dal 1942 (dal 1925 al 1932 era stato anche consigliere d’amministrazione dell’American express). Nel dopoguerra fece invece parte del consiglio d’amministrazione dell’Istituto romano beni stabili, della SME - Società meridionale finanziaria e della Montedison, ricoprendo anche l’incarico di vicepresidente della società Bastogi.
Il periodo del secondo dopoguerra coincise con un sostanziale ritiro di Tumedei dalla vita politica, se si fa eccezione per alcuni contributi pubblicati su Nuova Antologia a metà degli anni Cinquanta e inerenti temi specifici come la legge elettorale e gli idrocarburi. Un interesse, quest’ultimo, di vecchia data, sul quale, nel maggio del 1954, fu anche chiamato a riferire al Quirinale dal presidente della Repubblica Einaudi.
Nel 1965, per raggiunti limiti di età, si interruppe anche il suo rapporto, da decenni ormai solo formale, con l’ateneo romano, dove ancora risultava libero docente.
Gran parte delle sue energie furono invece rivolte all’attività professionale e agli studi di diritto civile e commerciale pubblicati su diverse riviste giuridiche e in volumi collettanei scritti in onore di maestri e amici.
Poco prima di morire dispose che i suoi consistenti beni fossero lasciati alla collettività: villa Lontana (sulla via Cassia) allo Stato, con l’obbligo di farne la residenza del presidente del Consiglio; i restanti beni all’Accademia delle scienze, con l’impegno di devolverli integralmente al miglioramento e al potenziamento di alcune strutture ospedaliere della città di Roma.
Morì a Roma il 4 aprile 1980.
Opere. Tra i suoi scritti, oltre quelli citati nel testo: La separazione dei beni ereditari, Bologna 1917; Distinzioni postclassiche riguardo all’età. ‘Infanti proximus’ e ‘Pubertati proximus’, Bologna 1922; La questione tunisina e l’Italia, Bologna 1922.
Fonti e Bibl.: Bologna, Archivio storico dell’Università, ff. studenti; Roma, Archivio storico della Sapienza Università di Roma, ff. docenti; Archivio centrale dello Stato, Ministero di Grazia e giustizia, Gabinetto, Archivio generale, 1925-1983, b. 2; Presidenza del Consiglio dei ministri, Gabinetto, 1926, 14.2.2534 e 3.7.3764, 1928-30, 1.1.27 2982 e 1.1.27 12651, 1931-33, 6.1.3309/2; 1934-36, 1.4.2.3287, 6.1.3331 e 1.4.2.8064; Ministero dell’Interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione servizi informativi speciali, 1946-1949, Sezione seconda, ff. personali, b. 170; Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo, Titolo III, f. 7, Titolo VIII, f. 28, Titolo XVI, f. 11, sottofascicolo 107; Archivio storico dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Enciclopedia italiana di scienze lettere ed arti, 1925-1939, sez. II, Attività scientifica e redazionale, 1925-1939, s. 5, Corrispondenza, b. 8, f. 247 e b. 31, f. 1284; Presidenza della Repubblica, Portale storico, https://archivio.quirinale.it/aspr/diari/EVENT-002-001322/ presidente/luigi-einaudi.html; Annuario della Regia università di Bologna, anno scolastico 1913-1914 e 1915-1916, Bologna 1914 e 1916.
C. Valente, La Ribellione antisocialista di Bologna, prefazione di L. Federzoni, Bologna 1921, ad ind.; C. Camoglio, La nuova Camera fascista. Profili e figure dei deputati della XXVIII Legislatura, Roma 1929, s.v.; E. Savino, La nazione operante. Profili e figure, Milano 1934, s.v.; Chi è? Dizionario degli italiani d’oggi, Roma 1940, s.v.; R. Paolucci di Valmaggiore, Il mio piccolo mondo perduto, Bologna 1947, pp. 316-318; E. Biamonti, Ricordo dell’avvocato C. T., in Telecomunicazioni ed informatica nel futuro dell’assistenza sociale. In onore di C. T., Roma 1986, pp. 159-161; G.U. Sardo, T. C., in Avvocati a Roma. Il nostro Ordine nel Notiziario del primo quarantennio, a cura di V. Gaito, Roma 1995; G. Lombardo, L’Istituto mobiliare italiano, I, Modello istituzionale e indirizzi operativi, 1931-1936, Bologna 1998, pp. 416-420; A. Meniconi, La maschia avvocatura. Istituzioni e professione forense in epoca fascista, 1922-1943, Bologna 2006, ad ind.; F.M. Berardi, Parafrasando Gurdjieff. Incontri con colleghi straordinari, in Foro Romano, 2014, n. 4-6, p. 6; G. Paoloni, La Fenice repubblicana. L’Accademia dei XL dal dopoguerra al XXI secolo, Roma 2018, pp. 88-92, 116-122.