ROSSI, Cesare
– Nacque a Pescia (Pistoia) il 20 settembre 1887 da Guglielmo e da Amelia Nucci. Figlio unico, la madre morì quando egli aveva sette anni e suo padre, maestro elementare ed ex garibaldino, nel 1902.
Interrotti gli studi, si trasferì a Roma, dove trovò lavoro in una tipografia come correttore di bozze. Attratto dalle idee di Georges Sorel, s’iscrisse al circolo giovanile socialista e diede vita, con Alceste De Ambris e Michele Bianchi, alla frazione sindacalista rivoluzionaria. Nel 1905 iniziò a collaborare con Il sindacato operaio, un periodico sindacalista rivoluzionario diretto dal leader dei tipografi romani Romolo Sabbatini. L’alleanza tra la componente intransigente di Enrico Ferri e quella rivoluzionaria di Arturo Labriola, vittoriosa al congresso del Partito socialista italiano (PSI) del 1904, favorì l’ascesa di Rossi all’interno dell’organizzazione giovanile. Con il secondo congresso della Federazione nazionale giovanile socialista (FNGS), venne chiamato a far parte del suo comitato centrale. Il successivo ritorno dei riformisti alla direzione del PSI, con il congresso romano del 1906, determinò l’uscita dal Partito dei sindacalisti rivoluzionari. Questi fondarono il Segretariato della resistenza, al quale Rossi non poté aderire in quanto la categoria dei tipografi era rimasta affiliata alla Confederazione generale del lavoro (CGdL). Venne eletto segretario nazionale al terzo congresso dei giovani socialisti, tenuto a Bologna il 23 marzo 1907.
Richiamato alle armi, il 16 novembre 1907 partì per Sassari, dove rimase per tutto il periodo della ferma, durata fino all’agosto 1909.
Tornato all’attività politica, nell’ottobre 1911 fu nominato amministratore dell’Internazionale, organo della Camera del lavoro sindacalista rivoluzionaria di Parma, e nell’ottobre del 1912 fu inviato a Piacenza a dirigere la Camera del lavoro sindacalista rivoluzionaria. Il momento più significativo della sua segreteria fu nell’estate del 1913. Tra maggio e luglio l’Unione sindacalista milanese (USM) di Filippo Corridoni si era posta a capo di alcune lotte rivendicative dei metallurgici milanesi. Benito Mussolini all’inizio le aveva sostenute, ma quando il 9 agosto l’USM proclamò uno sciopero generale nazionale a oltranza, condannò l’inasprimento della lotta e con lui si schierò a sorpresa Cesare Rossi, che sulla Voce proletaria di Piacenza criticò l’abuso dell’arma dello sciopero generale. Anche se la dirigenza nazionale dell’Unione sindacale italiana (USI) preferì ignorare il dissenso di Rossi, non fu una coincidenza il suo successivo trasferimento a Milano, chiamato a far parte dell’apparato centrale dell’USI.
Insieme a De Ambris allo scoppio del conflitto europeo aderì al fronte interventista, perché, come scriveva il 19 settembre 1914 su L’Internazionale, una vittoria degli Imperi centrali avrebbe compromesso e distrutto «un ventennio di rivendicazioni nazionali, di lotte democratiche, di conquiste proletarie» (Contro il militarismo, in L’Internazionale, 19 settembre 1914). Nel gennaio del 1915 venne chiamato a far parte del Comitato centrale dell’interventista Fascio d’azione rivoluzionaria e iniziò la sua collaborazione con Il popolo d’Italia di Mussolini.
Chiamato alle armi il 21 maggio 1915, ricevette il ‘battesimo del fuoco’ sul San Michele, dove fu ferito leggermente alla testa; in ottobre partecipò alla terza battaglia dell’Isonzo e dal maggio del 1916 fu sul fronte albanese, dove rimase fino alla fine della guerra.
Come molti altri rivoluzionari, tornò dal fronte conquistato dall’eroismo e dalle doti di comando mostrati dai figli della borghesia e con la conferma della sorda ostilità della classe operaia verso la guerra. Durante la guerra – scrisse –, i sindacalisti rivoluzionari avevano «potuto apprezzare innumerevoli ignorati gesti eroici compiuti dai diffamati figli della borghesia e del patriziato, mentre il grosso del proletariato dava alla guerra il corpo e non l’anima». Si erano pertanto accorti che la loro «fede classista vacillava» e che «il proletariato poteva essere sì, una parte – cospicua ed indispensabile quanto si vuole – della collettività, ma che per ora non aveva nessun requisito morale superiore alla borghesia». Tali riflessioni avevano prodotto «la prima falla nel vascello del nostro credo carico di dogmi e di pregiudizi; ad affondarlo completamente è sopravvenuta la rivoluzione russa» (La critica alla critica del fascismo, in Gerarchia, 25 aprile 1922).
Nel giugno del 1918 iniziò a collaborare al Rinnovamento, un periodico dell’interventismo rivoluzionario diretto da De Ambris, ma fu tra i primi a convertirsi al sindacalismo nazionale e a rompere con gli interventisti di sinistra, dietro i quali vedeva profilarsi la minaccia bolscevica.
Nel marzo del 1919 riprese a collaborare con Il popolo d’Italia e il 23 fu così a Milano, a piazza San Sepolcro, tra i fondatori dei Fasci di combattimento. Il 15 aprile 1919 fu tra i protagonisti degli scontri tra nuclei di arditi, futuristi e nazionalisti e un corteo di anarchici e socialisti, culminati con la devastazione della sede dell’Avanti!. Nel frattempo liquidava il suo vecchio repubblicanesimo opponendosi alle richieste di una costituente avanzata dal Partito repubblicano, da lui definito il Kerenskij di una rivoluzione italiana.
Al secondo congresso dei Fasci di combattimento di Firenze, nell’ottobre del 1919, venne confermato nel Comitato centrale e chiamato a dirigere Il Fascio, il nuovo organo del movimento fascista. I deludenti risultati delle liste dei Fasci alle elezioni politiche di novembre, lo convinsero vieppiù dell’inutilità degli sforzi di Mussolini a mantenere il movimento fascista su un terreno di sinistra: il fascismo doveva cercare il suo spazio vitale a destra, tra i ceti medi borghesi, con una chiara piattaforma antisocialista e antioperaia. In occasione degli scioperi di postelegrafonici e ferrovieri del gennaio 1920, firmò sul Popolo d’Italia un editoriale dal titolo Non vogliamo i salti nel buio, in cui affermava che «di fronte alla certezza ineluttabile della dissoluzione generale a cui oggi fatalmente ci condurrebbe un movimento rivoluzionario» si aveva il dovere «di essere risolutamente dei conservatori e dei reazionari» (22 gennaio 1920). A Rossi venne dunque affidato il compito di ricollocare il fascismo a destra. Lo fece con il congresso straordinario del giugno 1920, tenutosi a Milano, che confermò il ruolo primario da lui ormai assunto ai vertici del fascismo. Quello che impose al movimento fu decisamente un programma conservatore, antioperaio e antisocialista, mentre sulla questione istituzionale respinse la soluzione repubblicana, tornando ad agitare lo spauracchio del kerenskismo come battistrada della rivoluzione bolscevica. Al termine del congresso, venne nominato vicesegretario nazionale dei Fasci.
Dall’estate del 1920 alla primavera del 1921 s’impegnò nella costruzione della struttura organizzativa dei Fasci. La crescita rapida e tumultuosa del fascismo dei ras dell’area padana, tra l’autunno del 1920 e l’inverno del 1921, faceva emergere ‘uomini nuovi’, espressione di un fascismo agrario che, dopo essersi affermato nella valle Padana, disarticolando la fitta rete delle organizzazioni sindacali e politiche socialiste, ancora faticava a riconoscere la leadership politica del Fascio milanese. Le dimissioni di Giovanni Giolitti portarono al governo l’ex socialista Ivanoe Bonomi, che si impegnò a bandire la violenza dalla lotta politica. Il suo ‘patto di pacificazione’ venne sottoscritto, per la parte fascista, da Mussolini e da Rossi, e ciò rese questi inviso al fascismo dei ras ostili alla pacificazione. Emarginato dal ritrovato accordo tra Mussolini e il fascismo provinciale sancito dal congresso di Roma del novembre 1921, patì un periodo di eclissi politica. Con la marcia su Roma e la conquista del potere da parte di Mussolini, il recupero di Rossi fu tuttavia completo: il duce lo mise a capo del suo ufficio stampa, carica che confermava a tutti i fascisti il suo avvenuto reinserimento e il delicato ruolo di ‘consigliere del principe’.
All’ufficio stampa si dotò subito di una piccola rete di informatori per tenere sotto controllo gli ambienti giornalistici e ottenne da Mussolini autonomia finanziaria dal ministero dell’Interno, da cui fino ad allora l’ufficio stampa della presidenza del Consiglio era dipeso. Favorì naturalmente i giornali ‘normalizzatori’, mentre boicottò quelli che facevano capo al fascismo intransigente e così tornò a essere uno dei bersagli preferiti dei ras. Da parte sua ricambiò l’ostilità, convinto che le insidie maggiori al governo fascista provenissero soprattutto dal fascismo provinciale.
Uno dei compiti più delicati che Mussolini gli affidò fu la costituzione della ‘Ceka fascista’, una struttura illegale e violenta, attiva contro gli oppositori più pericolosi. Responsabili esecutivi del nucleo originario della Ceka furono Amerigo Dumini, un fascista toscano della prima ora, e l’ardito milanese Albino Volpi, di cui Mussolini e Rossi si erano già serviti. Nei due anni di ‘governo legalitario’ la Ceka si rese protagonista, tra l’altro, di violenze ai danni del repubblicano Ulderico Mazzolani, dei dissidenti fascisti Cesare Forni e Alfredo Misuri, della devastazione dell’abitazione di Francesco Saverio Nitti e, infine, dell’assassinio di Giacomo Matteotti.
L’assassinio di Matteotti rappresentò la rovina politica di Rossi. La necessità di allontanare da sé i sospetti indusse Mussolini a liberarsi dei collaboratori più compromessi, tra cui, appunto, Cesare Rossi. Prima di consegnarsi alla polizia, Rossi fece però arrivare al quotidiano Il Mondo un memoriale che faceva risalire a Mussolini tutte le violenze condotte a termine dalla Ceka fascista. In carcere continuò a collaborare con la magistratura, aggravando ulteriormente la posizione del suo ex capo. Assolto in istruttoria e uscito di prigione, sentendosi minacciato e nell’imminenza dell’apertura del processo agli assassini di Matteotti, nel febbraio del 1926 fuggì in Francia, da dove iniziò una campagna di stampa sui giornali esteri a base di rivelazioni che chiamavano in causa le responsabilità dirette di Mussolini.
L’esilio fu per Rossi un periodo di grandi difficoltà economiche, alle quali poté far fronte anche grazie all’aiuto di Marguerite Durand, conosciuta poco dopo il suo arrivo in Francia. Nel marzo del 1927 inviò una richiesta di aiuti al suo amico Filippo Filippelli, ex direttore del Corriere italiano, il quale consegnò la lettera alla polizia e nell’agosto 1928 lo convinse a incontrarlo in una località prossima al confine svizzero dove la polizia fascista lo catturò per portarlo a forza in territorio italiano. Il 27 settembre 1929 il tribunale speciale lo condannò a trent’anni di carcere. Per tutti gli anni della detenzione non smise mai di supplicare Mussolini per una riduzione della pena, ma solo nel marzo del 1940 la sua detenzione venne commutata in regime confinario. Si sposò con Marguerite Durand e, nel febbraio 1943, ottenne la libertà condizionale con l’assegnazione del domicilio a Sorrento, dove lo colse la caduta del fascismo.
Arrestato dalla polizia alleata una prima volta nel novembre del 1943, venne internato ad Aversa e a Padula e infine liberato nel marzo del 1944. Di nuovo arrestato, per il ruolo avuto nella marcia su Roma e nell’abbattimento del regime liberale, fu condannato a quattro anni e due mesi di reclusione e liberato per grazia sovrana. Nel frattempo era stata avviata una nuova istruttoria per il delitto Matteotti, che terminò alla fine del marzo 1946 con il suo rinvio a giudizio. Il nuovo processo, iniziato il 22 gennaio, terminò il 4 aprile 1947 con la sua assoluzione per insufficienza di prove. Tornò così alla sua vecchia professione di giornalista. Numerose furono le sue collaborazioni a periodici e giornali, come il Globo, Il Tirreno, il Giornale della sera, Il Tempo, il Momento, il Corriere di Napoli e La Gazzetta del Mezzogiorno; collaborò anche con la rete di quotidiani facenti capo all’AGA, l’Agenzia Giornali Associati della Confindustria, con riviste come Epoca, Concretezza, organo della corrente andreottiana della Democrazia cristiana (DC), e Idea, vicina a Giuseppe Pella. Scrisse anche di fascismo, ma i suoi lavori si presentano in genere di scarso valore storico perché reticenti nei passaggi più importanti e controversi.
Morì a Roma il 9 agosto 1967.
Opere. Mussolini com’era, Roma 1947; Trentatré vicende mussoliniane, Milano 1958; Il delitto Matteotti nei procedimenti giudiziari e nelle polemiche giornalistiche, Milano 1965.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, bb. 4436-4437; PS, Polizia politica, Fascicoli personali, b. 1164, f. R. C.; serie A, b. 81, f. R. C.; serie B, b. 28, f. Processo Matteotti; Tribunale speciale difesa dello Stato, b. 12.
R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Torino 1965; Id., Mussolini il fascista, I, La conquista del potere 1921-1925, Torino 1966; M. Canali, C. R. Da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Bologna 1991; Id., Il delitto Matteotti, Bologna 2015.