ROSAROLL, Cesare
– Nacque a Roma il 28 novembre 1809 da Giuseppe e da Antonietta Hilaria Scorza, nobile napoletana.
Secondo di cinque figli, ereditò dal padre il mestiere delle armi e le idee liberali. Dopo il fallimento della rivoluzione costituzionale del 1820-21 nel Regno delle Due Sicilie, Cesare con i fratelli Camillo, Mario, Scipione e Marcello, orfani di madre dal 1816, seguirono il genitore prima in Spagna, poi a Malta e infine in Grecia, dove Giuseppe trovò la morte nel 1825. Per volere di Cesare, i cinque orfani (dal diciassettenne Camillo, il maggiore, a Marcello, il più piccolo, di dieci anni) fecero ritorno a Napoli, grazie all’intervento di una zia materna, Teresa Scorza, dotata di una «mediocre fortuna» (Roma, Museo centrale del Risorgimento, Fondo Giuseppe Rosaroll, b. 206, f. 18, doc. 1). La donna si accollò le spese di viaggio e quelle del lutto per Giuseppe. Così dal lazzaretto di Zante, dov’erano ricoverati, i Rosaroll approdarono a Napoli il 23 maggio 1826, dove l’accoglienza doveva deluderli. Un tempo ammirati da tutti per la loro posizione, furono a quel punto considerati «stranieri nel proprio paese» (doc. 1). Simbolo della difficile situazione fu un atto vandalico perpetrato contro la tomba della madre: durante la reazione del 1821 il sepolcro, fatto erigere con solennità dal marito nella chiesa di S. Tommaso, era stato distrutto, con la dispersione dello stesso cadavere. Oltre all’omaggio alle consuete virtù materne, Giuseppe aveva fatto iscrivere sulla lapide che la moglie lo aveva seguito nelle campagne militari di Lombardia, Grecia e Calabria e gli aveva dato «cinque figli maschi» (doc. 1).
La formazione culturale di Rosaroll e dei fratelli era avvenuta al seguito del padre, addestratore e saggista sull’uso delle armi bianche, elevato a barone da Gioacchino Murat per meriti militari. Indirizzando ai figli una lettera testamento in data 21 febbraio 1821, Giuseppe aveva rimarcato l’ideologia del grand’uomo di epoca napoleonica. «Il mio stemma – aveva scritto – non ha corona, n’è circondato da geroglifico per dimostrare che non l’aristocrazia altrui, ma il proprio personale merito l’ha formato» (doc. 1). Già il battesimo di Cesare era stato occasione a Roma di uno scontro con il clero romano, che rifiutò il sacramento al bambino, in obbedienza alla scomunica contro l’esercito di Napoleone. Il padre però, accompagnato da suoi militari, si recò a S. Pietro forzando platealmente la porta della basilica per ottenere il sacramento (b. 206, f. 15, doc. 2).
Grazie all’intraprendenza della zia Teresa e agli amici lasciati dal padre fra i quadri dell’esercito, i Rosaroll riuscirono via via ad arruolarsi in un reggimento di cavalleria, come soldati semplici, iniziando la carriera militare. I primi tre nel maggio 1830, il quarto nel novembre dello stesso anno. Tre anni più tardi, però, il loro nome fu iscritto in una causa destinata a restare a lungo nella memoria risorgimentale. Rosaroll si mise a capo di una congiura, con altri due commilitoni, per uccidere Ferdinando II. Scoperti per una spiata, lui e l’amico Vito Romano decisero di darsi la morte. Come nel caso dei ‘Martyrs de Prairial’, gli ultimi montagnardi condannati alla ghigliottina nella Francia del ritorno all’ordine del 1795, che ricorsero alla ‘bella morte’ per sfuggire a quella infamante del boia, Rosaroll si accordò con il compagno per spararsi al cuore a vicenda. «Eseguendo quanto avevano tra essi [convenuto] nelle ore pomeridiane del 22 maggio 1833» – raccontava un memoriale – «davano compimento allo stabilito scaricandosi l’un l’altro dei colpi di pistola: il Romano moriva quasi dopo un’ora, passata sotto i più atroci dolori; Cesare, rimasto illeso dal colpo tiratogli dall’altro, impugnata un’altra pistola se la scaricava al cuore; però il proiettile deviando gli traversò il petto da parte a parte senza ucciderlo» (b. 206, f. 18, doc. 2). Con Cesare furono immediatamente arrestati anche gli altri tre fratelli militari. Spediti questi ultimi nelle carceri di S. Maria Apparente, vennero poi raggiunti dal fratello, una volta guarito, il 17 ottobre, e sottoposti a giudizio presso la Suprema commissione per i reati di Stato. Il pubblico accusatore chiese la pena di morte per tutti e quattro, ai quali fu associato in carcere anche Marcello, benché giovinetto imberbe. La causa fu discussa a porte chiuse e senza avvocati difensori né escussione di testimoni. Camillo e Mario furono prosciolti con il ‘non consta’ e rimessi in libertà provvisoria; Scipione in libertà assoluta; Cesare invece fu condannato a morte ‘col terzo grado di pubblico esempio’. Lo si fece montare sul patibolo, per comunicargli poi, all’ultimo minuto, la commutazione della pena nell’ergastolo per grazia sovrana. Sarebbe rimasto rinchiuso nel carcere di S. Stefano per quasi quindici anni, fino all’indulto del gennaio 1848, che lo rimise in libertà.
Secondo il suo maggiore biografo, saputo della rivoluzione di Palermo del 1848, Cesare «fatto curvo e vecchio del corpo, giovine sempre nell’animo [...] si sentì raddrizzare la curva schiena e ringiovanire la invecchiata natura» (d’Ayala, 1851, pp. 545 s.). Aderì quindi all’appello di Enrico Poerio e si arruolò fra i volontari napoletani per la campagna di Lombardia. Per i suoi studi militari, fu eletto capitano aiutante maggiore del battaglione, poi salito al vicecomando. Si costituì così il reggimento delle fanterie napoletane, che primo mosse in Lombardia il 13 aprile. In verità, il ruolo di comando di Rosaroll non fu esente da diverse incomprensioni con i volontari, forse per l’eccessiva sua foga. Ferito dal fuoco nemico, venne ricoverato all’ospedale di Viadana e quindi insignito della medaglia di bronzo. Terminate le operazioni militari in Lombardia, si recò alla difesa di Venezia.
Il 9 novembre 1848 scrisse all’amico Devita in Roma: «Il nostro egregio [Alessandro] Poerio non è più; e quel grande italiano congiunto all’altra anima pura e santa di Leopoldo Pilla, lassù nel cielo pregheranno l’Eterno per la vittoria dell’Italia e la cacciata dello straniero; e le loro preghiere saranno udite, poiché la preghiera che esce dai martiri è sempre ascoltata. Ti scrivo addoloratissimo per cotesta morte, ma bisogna rassegnarsi, perché forse oggi o dimani spetterà a me la stessa fortuna. È inutile pensarvi, e se cadessi sul campo di battaglia, pugnando per una causa santa, sarei l’uomo più fortunato della terra» (p. 549).
Ferito a morte da una palla di cannone, cadde al comando della batteria S. Antonio a Marghera il 27 giugno 1849.
Al prete che accorreva avrebbe detto: «Io non ho da perdonare a nessuno, perché non ho nemico alcuno, eccetto il Re di Napoli ed i Tedeschi» (p. 554). Nel porlo nel novero dei martiri meridionali alla causa italiana, Mariano d’Ayala sottolineò la continuità della sua battaglia da ‘regicida’ fin nelle sue ultime parole.
I fratelli Camillo e Mario, una volta assolti, rimasero nell’esercito, fino al nuovo arresto cui furono sottoposti, per un episodio non ben chiaro, nella notte fra il 3 e il 4 agosto 1837. Gettati fra i criminali e sottoposti a un secondo processo politico, furono rimessi in libertà il 19 marzo 1838, ma benché dichiarati incolpevoli furono espulsi dall’esercito per ‘cattiva condotta’. Privi di risorse, dovettero ricorrere alle ultime sostanze lasciate dalla zia, deceduta nel 1833, con l’aggravante della numerosa famiglia messa insieme da Mario. Sulle stesse risorse della zia, stimate per un capitale di 60.000 lire nel 1860, gravavano le spese per il mantenimento in carcere di Cesare. Camillo e Mario furono così costretti a ricorrere per un aiuto al generale Francesco Saverio Del Carretto, allora ministro di Polizia, il quale dopo pochi giorni fece loro dire che se si fossero sottoposti all’esilio per causa politica avrebbe loro corrisposto un mensile di L. 25,25; ma dato il rango della famiglia se essi consentivano a uscire dal Regno avrebbe portato l’assegno a L. 50,50 per ognuno. Come sottolineano le carte di famiglia, l’apparato dello Stato aveva in gran sospetto i Rosaroll e non rinunciava a infierire su di loro. Ridotti alla disperazione, Camillo e Mario reclamarono allora presso il re. Dopo dieci mesi, nel marzo 1839, ottennero un impiego al grado di brigadiere delle Gabelle, «col meschino mensile di lire 31 e pochi centesimi» (Roma, Museo centrale del Risorgimento, Fondo Giuseppe Rosaroll, b. 206, f. 18, doc. 2). Poi di nuovo sottoposti a continui controlli di polizia; nel maggio 1857, per via di una denuncia, Mario venne spedito al domicilio coatto a Foggia e vi rimase per più di tre anni, fino all’agosto del 1860. Pochi mesi dopo la sua partenza, a intervallo di un mese, morirono Camillo e Scipione. Quest’ultimo lasciava la famiglia nella massima indigenza.
Nel settembre del 1860, nella Napoli liberata dai Borbone, i due fratelli superstiti, Mario e Marcello, inoltrarono un memoriale alle nuove autorità italiane per chiedere un risarcimento «per motivi di sofferenze politiche» (f. 16, doc. 4). Raccontarono della morte del padre e della sottrazione dei suoi beni da parte del re Ferdinando I, dell’affronto patito per la distruzione della tomba della madre, poi del fratello Cesare e del suo sacrificio, confidando nei «rappresentanti il principio, per lo quale la loro famiglia è stata distrutta» e ne fa «una delle prime nel martirologio Italiano» (doc. 4). Diedero atto a Giuseppe Garibaldi di essersi preso «una certa cura di loro; ciò produsse il miglioramento dello impiego dei due fratelli e quello della famiglia del defunto Scipione» (f. 18, doc. 2). Tuttavia, il danno fu oggetto di calcoli e rimostranze che si protrassero negli anni. I due fratelli, infatti, stimarono i mancati introiti, il danno ai beni mobili e immobili, le carriere sacrificate. Ricordarono che altre nazioni, dalla Svizzera alla Spagna alla Grecia, raggiunta l’indipendenza, avevano saputo ben premiare i loro eroi e le loro famiglie.
La memoria di Cesare e dei fratelli figurò nella letteratura risorgimentale per due profili estremi; da un lato, come «figliuoli poveri» lasciati nell’indigenza dalla morte del padre, generoso combattente per la libertà, come per primo li ritrasse Pietro Colletta (Storia del reame di Napoli dal 1734 al 1825, II, Parigi 1835, p. 297); dall’altro furono celebrati per il coraggio indomito di Cesare, l’«Argante della Laguna», come lo definì d’Ayala, alludendo al suo ardimento alla Ettore Fieramosca nei combattimenti durante la difesa di Venezia.
Fonti e Bibl.: Il Fondo Rosaroll, conservato al Museo centrale del Risorgimento di Roma, è costituito da una ricca messe di documenti (718 unità archivistiche) riguardanti la famiglia nel periodo 1758-1873 e, in particolare, la carriera militare di Giuseppe e di Cesare, nelle buste 203-207. Per una descrizione accurata delle carte: A. Merigliano, Fondo G. R., in L’Archivio del Museo centrale del Risorgimento. Guida ai fondi documentari, a cura di M. Pizzo, Roma 2007, pp. 209-213. Una biografia piuttosto agiografica, ma completa è stata stesa da M. d’Ayala, C. R., tenente colonnello (1849), in Panteon dei martiri della libertà italiana, opera compilata da varii letterati, pubblicata per cura di una società di emigrati italiani, I, Torino 1851, pp. 542-553. Inoltre: P. Salvolini, Cenni necrologici intorno a C. R.-Scorza, Venezia 1849; F. Carrano, Della difesa di Venezia negli anni 1848-49. Narrazione, Genova 1850, pp. 221-227; L. Settembrini, Ricordanze e altri scritti, Torino 1971, pp. 65, 207.