RINALDI, Cesare
RINALDI, Cesare. – Nacque il 12 dicembre 1559 a Bologna da «honorata, et assai facoltosa famiglia», terzo figlio maschio di Sebastiano e di Faustina Cattani.
Non prese moglie e rinunciò alla sua parte di eredità a favore di Giulio, Orazio (maggiori di lui) e Antonio, più piccolo (G. Ghilini, Memorie di Cesare e Orazio filologi bolognesi del XVI secolo, Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 86, 74, b. II, n. 13, cc. 1r, 3v-4). Il maggiore, Giulio, non godette a lungo del patrimonio: forse morì nel maggio del 1614, come lasciano supporre alcune lettere di Cesare di quel periodo (Lettere, Venezia 1617, pp. 121 ss.). Orazio (v. la voce in questo Dizionario), letterato e studioso di scienze, autore della Dottrina delle virtù e fuga dei vizi (1585), lasciò Bologna verso il 1592, per fare una vita avventurosa in giro per il mondo, finché non diede più notizia di sé (G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, Bologna 1789, II, pp. 189 s.). Antonio, «il solo che si ammogliò» con Orsina, figlia di Giovan Francesco Balla e di Eva dalla Moneta, ricevette l’eredità della famiglia, nonché dei due fratelli e della sorella (vedova di nobile bolognese, ricco, e senza figli) della moglie, e infine quella del cugino Domenico, come consta da diversi instromenti rogati in varie riprese fra il 1614 e il 1624 (G. Ghilini, Memorie di Cesare e Orazio, cit., c. 3rv).
Per quanto siano circoscritte agli anni 1611-20, le lettere di Cesare Rinaldi sono molto utili per spiegare alcune sue scelte di vita e avere un’idea della sua personalità di uomo e letterato. Estraniatosi dalla gestione degli affari patrimoniali in cambio di un «onesto assegno» che, «fino da giovanetto», gli potesse permettere di dedicarsi tranquillamente all’attività letteraria, frequentare accademie e viaggiare, scrivere, pubblicare le sue raccolte di rime, Rinaldi non dovette badare né a «negozi» né a «pratiche di corte», evitò «maneggi di casa», «disturbi di villa» e, per quanto possibile, le «cause» (anche se non mancarono episodi spiacevoli, come la Controversia fra Cesare Rinaldi e D. Paolo curato di Bonconvento: si veda Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 3892 caps. LXIV, n. 41); insomma, ebbe «tanta facoltà, quanto gli basta a viver da gentiluomo», e non fu «tanto povero de’ beni interni», da non potere «comparir fra gli altri senza rossore»; l’unico suo impegno fu la poesia, di cui sentiva «qualche prorrito di lode», limitandosi a stare, «quando scriveva a gli amici, mancandogli ogni altra occasione», «su le piacevolezze e su’ complimenti» (Lettere, 1617, p. 119; Lettere, 1620, p. 233).
Appartenente a una generazione inquieta di letterati, che anagraficamente si trova fra quella di Torquato Tasso (nato nel 1544) e quella di Giambattista Marino (nato nel 1569), Rinaldi fu non meno vicino agli ambienti artistici che a quelli delle diverse accademie filosofico-letterarie (a cominciare dalla più famosa, detta dei Gelati) che fiorirono a Bologna sul finire del XVI secolo. Pare ormai certo che Rinaldi, pur conoscendo diversi membri importanti dell’Accademia dei Gelati (oltre a Melchiorre Zoppio, Giovan Battista Capponi, Ridolfo Campeggi, Claudio Achillini e Girolamo Preti, si ricordino Cesare Abelli, Vincenzo Fabretti, Bernardino Mariscotti, Giacomo Sampieri, Cesare Marsili), non abbia mai preso parte alle sue raccolte di rime; e non è un caso che non venga annoverato nel sacrario delle Memorie, Imprese, e Ritratti de’ signori Accademici Gelati di Bologna (Bologna 1672). Rinaldi fu un habitué della «stanza» dei Carracci, la quale fu «il più frequentato ricetto di quanti letterati di que’ tempi fiorissero, capitandovi, dopo le loro serie fatiche sullo studio pubblico, l’Aldovrando, il Magini, il Zoppio, il Dempster, l’Achillini, il Lanzoni» (C.C. Malvasia, Felsina pittrice. Vite dei pittori bolognesi divise in due tomi, I, Bologna 1678, p. 336), dove nacque, nel 1590, l’Accademia degli Incamminati. Se con i Carracci «egli nudrì particolarissimo affetto d’amicizia», e in particolare con Agostino (che eseguì un «ritratto» del poeta da «anteporsi nel frontispicio delle sue rime» – ricorda Malvasia, Felsina pittrice, I, cit., p. 84 – «di «finitissimo taglio e sottilissimo, col suo nome attorno e l’anno 1590»), pare che del solitario e spigoloso Reni si adoperò addirittura come epistolografo, testimoniandogli il suo affetto in tre canzoni incluse nelle rime del 1605 (poi confluite nelle Lodi al signor Guido Reni, 1632), e ricevendo a sua volta, in regalo, quadri oggi perduti (fra i quali uno di straordinaria bellezza di Maddalena penitente, cui Rinaldi dedica il sonetto Nel peccar fiamma, nel pentirsi foco, in Rime nuove, 1603, p. 95). Spesso menzionata è la quadreria di Rinaldi che era solo una parte del suo famoso museo, ricco di statue, disegni, collezioni di oggetti rari, preziosi, esotici, strumenti musicali e meccanici, nonché di un’invidiabile biblioteca.
Oltre all’arte figurativa, Rinaldi ebbe un vivo interesse per la musica del suo tempo, e in particolare per la ricerca madrigalistica, che conobbe a Bologna un episodio significativo, nel 1590, con la pubblicazione delle Gemme, forse la più importante vetrina dei talenti bolognesi di quegli anni; nello stesso anno in cui arrivavano in tipografia la prima miscellanea dell’Accademia dei Gelati, le Ricreazioni amorose, e lo Psafone, trattato filosofico d’amore del Caliginoso Melchiorre Zoppio, fondatore del circolo, e amico di Rinaldi. Solo due anni prima, nel 1588, Rinaldi aveva esordito alla poesia con la pubblicazione di ben due raccolte di madrigali, dal medesimo titolo: la prima, edita a Ferrara, presso Galdura, Madrigali, composta di 125 componimenti; la seconda, uscita a Bologna, presso Benacci, ampliava la precedente arrivando a 278.
La perentorietà di questo esordio ci aiuta a collocare la poesia dell’ancor giovane Rinaldi sul crinale di un postpetrarchismo che guardava alla poesia contemporanea da una specola ormai decentrata rispetto al canone tradizionale, in cui l’allusione autobiografica (quale si scorge nel madrigale Per te, non di te, canto, che chiudeva provvisoriamente la raccolta ferrarese, giocando sul nome del dedicatario delle raccolte, Alberto Castelli, priore di Santo Stefano a Bologna, e della località Castel Maggiore, in cui il poeta ha preso dimora) si intrecciava con quella del raffinato lettore della tradizione lirica.
Nel 1590, presso lo stesso Benacci, Rinaldi pubblicava la terza parte delle Rime, ove comparivano, oltre ai madrigali, anche sonetti e canzoni; e l’anno successivo, sempre da Benacci, la quarta parte, divisa a sua volta in una sezione di testi nuovi, per lo più sonetti e canzoni, e in una scelta della produzione precedente. Nel 1594 vedeva la luce la quinta parte delle Rime (Bologna, Benacci), ampliata nella sezione riguardante sonetti e canzoni. Intanto Rinaldi aveva raggiunto discreta fama soprattutto come autore di madrigali: lo provano la sua presenza in due importanti antologie poetiche del tempo, Gioie poetiche e Nuova scelta, entrambe edite a Pavia nel 1593, e la diffusione musicale dei suoi testi, cominciata già prima dell’esordio ufficiale, con Donna, se voi m’odiate (intonato da Ascanio Trombetti nel 1586, e da Alfonso Ferabosco nel 1587), e proseguita inarrestabile per tutti gli anni Novanta, sì che, alla fine saranno oltre cento i suoi testi messi in musica, senza dimenticare quelli inclusi nella commedia madrigalesca di Orazio Vecchi, Convito musicale (1597). Consapevole di questo successo, Rinaldi usciva nel 1598 con la sesta parte delle sue Rime (Bologna, Rossi) in elegante in-quarto, tornando a una raccolta di soli madrigali, quasi a ribadire la fedeltà e vitalità della sua originale ricerca poetica sul madrigale nel complesso quadro delle esperienze poetiche del tempo.
Nel 1598, a Venezia, vedeva la luce l’antologia I fiori di madrigali di diversi autori illustri, in cui Rinaldi pubblicava una nutrita selezione di testi editi, ormai avviati a percorrere con una certa fortuna i canali della musica madrigalistica, di cui Giacomo Vincenti, editore dei Fiori, era uno dei più importanti promotori. Nel 1601 Rinaldi pubblicava il Canzoniere (Bologna, Rossi), composto per lo più da sonetti e canzoni e pochi nuovi madrigali: per la prima volta, la varia fenomenologia amorosa, fino a quel momento unico tema della sua poesia (ove si escludano i componimenti di carattere encomiastico), si dispone in una struttura intesa a descrivere il canone della bellezza fisica della donna secondo una piccola casistica di situazioni amorose inframezzate da divagazioni celebrative. A conferma del fatto che Rinaldi stava attraversando una nuova fase della sua ricerca poetica, nel 1603 uscivano le sue Rime nuove (Bologna, Rossi) in cui i sonetti della prima parte compongono una storia d’amore per una donna di nome Barbara (forse una cortigiana, certamente non una donna di condizione nobile, né alto-borghese, di cui forse si serba traccia in un Capitolo sopra il Rinaldi poeta bolognese, Bologna, Biblioteca dell’Archiginnasio, ms. 3636.3, cc. 37-40), mentre la seconda parte, che accoglie vari metri, è costituita da testi d’occasione e corone di rime extravaganti. Del 1603 è anche il sonetto Poesia e pittura, suore e compagne, in morte del caro Agostino Carracci (in Il funerale d’Agostin Carraccio fatto in Bologna sua patria da gl’Incamminati del Disegno scritto all’ill.mo et r.mo sig.r Cardinal Farnese), che reca i segni di una riflessione del poeta sulle caratteristiche figurative della sua idea di poesia, che il nuovo immaginario barocco stava mettendo in crisi.
Inscritto come Neghittoso nell’Accademia degli Spensierati di Firenze (cui dedicherà le Rime del 1608 e la raccolta epistolare del 1617), Rinaldi tornava alle stampe nel 1605 con una nuova raccolta che riprendeva il titolo Rime (Venezia, Zanetti), presentando un’ampia scelta dell’opera precedente. Una nuova edizione di queste Rime, con una piccola aggiunta di sonetti e canzoni d’amore per Alba, senhal forse di una nuova musa, giunse, per interessamento di Giovan Battista Ciotti, nel 1608. Ma a questo punto qualcosa si spezzò: il poeta sentì l’ispirazione abbandonarlo, anche se non smise di frequentare saltuariamente incontri letterari, spettacoli teatrali, concerti, o di allestire serate a casa sua. Dopo le Rime del 1608, due grandi antologie di madrigali, la Ghirlanda dell’Aurora (1609) e il Gareggiamento poetico (1611), inserivano Rinaldi, con una selezione di testi già editi, fra gli autori più autorevoli del genere, insieme a Torquato Tasso, Battista Guarini e Giambattista Marino. Infine, dietro insistenza di un amico libraio, Rinaldi si decise a pubblicare a Bologna, nel 1619, un’edizione riveduta dell’ultima raccolta veneziana: qui i testi inediti si contano sulle dita di una mano, quasi tutti scritti su commissione, alcuni dei quali anticipati nel primo volume delle lettere (dove erano accompagnati dalla missiva che ne spiegava o ne giustificava l’ispirazione). Fino al 1615 Rinaldi scrisse solo tre canzoni, un dialogo in musica al marchese Riario, alcuni madrigali d’amore e uno religioso; da una lettera datata 20 agosto 1616 a Gabriele Greppi abbiamo notizia di una «favola comica» che Rinaldi stava scrivendo, ma nulla ci è pervenuto (Lettere, 1620, p. 251).
Non si può dire che il progressivo distaccarsi di Rinaldi dalla società letteraria del tempo fosse l’esito di nuovi percorsi spirituali, o che rispondesse a una consapevole crisi di coscienza artistica a seguito dell’incontro con la poetica marinista (che riscontriamo in un gruppo di poche canzoni pubblicate nelle Rime del 1608, già espunte in quelle del 1619, prese di mira da Alessandro Tassoni nelle Considerazioni sopra le rime di Francesco Petrarca, Modena 1609, pp. 301 s.). Né basta a far luce sulla crisi del poeta la metaforica schermaglia di una battaglia di maldicenze accademiche (fra Oziosi e Spensierati) che apre la missiva prefatoria del primo volume delle Lettere al segretario del granduca di Toscana, Francesco Vinta: l’epistolario di Cesare Rinaldi, di là del quadro che offre delle frequentazioni accademiche dell’autore (dall’ Accademia dei Selvaggi a quella degli Insipidi, a quella degli Irrigati, a quella dei Filomusi), appare come il parziale regesto di un percorso che si macchia di vanità e superbia, e diventa il prosaico controcanto finale di un ripensamento del proprio destino di poeta, di fronte al tranquillo svolgersi degli affetti, fra amicizie antiche e nuove, occasioni artistiche, incontri fortuiti, viaggi. Ma che pubblicare queste lettere fosse un passo necessario, lo prova il fatto che proprio in esse il poeta trovava la forza di confessare un suo malessere che egli scopriva angosciosamente dentro di sé, ma che apparteneva già tutto all’uomo moderno (ne indagava in quegli anni la fenomenologia Robert Burton in The anatomy of melancholy, 1621).
Negli ultimi anni di vita, per testimonianza dell’estensore dei Minervalia Boniensia (Bologna 1641, pp. 177s.), Rinaldi entrò a far parte dell’Accademia della Notte, fondata da Matteo Peregrini nel 1622, con il solito titolo di Neghittoso; e ritrovò la vena più originale della sua poesia pubblicando 21 madrigali inediti nell’ultima miscellanea dell’Accademia (Rime sotto il principato del sig. Giovanni Lupari l’Offuscato, Bologna 1631).
Rinaldi morì a Bologna il 6 febbraio 1636, già stimato «per la sua molta dottrina ed eruditione», oltre che per le «belle e leggiadre maniere», «da’ principali signori di Bologna, alcuni de’ quali non si sdegnarno haverlo per maestro nelle belle lettere» (Ghirlanda delle Glorie, Bologna, Biblioteca Archiginnasio, Fondo Malvezzi, cart. 76, f. 14, c. 6r).
Fonti e Bibl.: Per una prima complessiva ricostruzione della figura (attraverso le diverse fonti manoscritte e i contributi eruditi sopra citati) e dell’opera poetica (con particolare attenzione alla produzione madrigalesca) si veda la monografia di Salvatore Ritrovato, «Per te non di te canto». I madrigali di C. R., Manziana 2005, con ampia bibliografia. Corredato anche da apparato iconografico, è il profilo del poeta bolognese dello stesso Ritrovato, C. R. poeta bolognese, in Il Carrobbio, XXVII (2001), pp. 119-146. Su altri aspetti inerenti l’opera in versi e l’attività letteraria del poeta si vedano: L. Giachino, “Dispensiera di lampi al cieco mondo”. La poesia di C. R., in Studi Secenteschi, XLII (2001), pp. 85-124; S. Ritrovato, “Ciò che chiudo nel cor dipingo in carte”. La poesia di C. R. nell’ambiente artistico bolognese di fine Cinquecento, in Schifanoia, 2002, n. 22-23, pp. 145-155; L.L. Lamperini, Su alcuni sonetti di Cesare Rinaldi, in Riscontri, 2009, n. 3-4 pp. 25-43; D. Boillet, Marino, Rinaldi, Achillini, Campeggi, Capponi e altri in una raccolta bolognese per nozze (1607), in Studi Secenteschi, LV (2014), pp. 3-62.
Di Cesare Rinaldi è stato finora trovato soltanto un manoscritto di rime del XVI secolo, di dubbia autografia, identificato già da Apostolo Zeno (Rime di C. R. Bolognese, Venezia, Biblioteca Marciana, It. IX 269, 5442), oltre alle correzioni presumibilmente d’autore o controllate dall’autore, riportate sugli esemplari a stampa del Canzoniere e delle Rime nuove, conservati a Napoli (Biblioteca nazionale, B. Branc. 79.F.11/1, B. Branc. 104.H.10/1, B. Branc. 79.F.11/2).
Le opere di Rinaldi non hanno avuto ristampe né nuove edizioni dopo la loro prima pubblicazione, fino alle significative anche se parziali scelte di madrigali a cura sempre di Ritrovato, per volumi di antologie moderne della poesia del Cinquecento (si veda L’esperienza del madrigale: Michelangelo Buonarroti, Giovan Battista Strozzi il Vecchio, Battista Guarini, Torquato Tasso, C. R., in Lirici europei del Cinquecento. Ripensando la poesia del Petrarca, a cura di G.M. Anselmi et al., Milano 2004, pp. 732-742; L’arte del madrigale. Poeti italiani del Cinquecento, Bari 2010, pp. 157-173).