MORI, Cesare
MORI, Cesare (Primo Cesare). – Nacque a Pavia il 1° gennaio 1872, da Felice, ingegnere, e da Rachele Pizzamiglio.
Il riconoscimento di Mori da parte dei genitori avvenne soltanto il 1° gennaio 1880, successivamente al loro matrimonio, contratto a Godiasco presso Pavia il 14 ottobre 1879. Fino a quella data Mori visse nel brefotrofio di Pavia, sulla cui ruota era stato deposto il giorno stesso della sua nascita e dove gli era stato dato il nome di Primo Nerbi. Con decreto del 25 giugno 1929 ottenne di aggiungere il nome di Primo a quello di Cesare.
Uscito dal brefotrofio per entrare in collegio, Mori frequentò le scuole fino all’età di 17 anni, allorché fu ammesso all’Accademia militare di Torino, distinguendosi per il carattere orgoglioso e per i risultati conseguiti. Nominato sottotenente di artiglieria a 19 anni, fu inviato a prestare servizio a Taranto e lì promosso tenente nell’ottobre 1895. A Taranto conobbe Angelina Salvi (nata a Bergamo il 16 giugno 1876), figlia dell’ingegnere capo del Comune, con la quale si fidanzò. Essendogli stato rifiutato il permesso delle nozze in quanto la futura moglie era priva della dote prevista dal regolamento militare, presentò le dimissioni, a seguito delle quali il 20 giugno 1896, degradato a sergente, fu posto in congedo illimitato. Il 17 gennaio 1897 a Taranto sposò quindi colei che avrebbe condiviso le sue sorti per tutta la vita. La coppia non ebbe figli. Alla fine del 1897 partecipò a Taranto al concorso per gli impieghi di 2ª categoria nell’amministrazione di Pubblica Sicurezza per i posti di alunno: si classificò secondo e prese servizio il 14 aprile 1898, venendo subito inviato a Bari, dove il 14 maggio fu inquadrato come delegato di 4ª classe. In previsione del concorso scrisse e pubblicò a sue spese due opuscoli: Alcune considerazioni sulla Pubblica Sicurezza in Italia e Abbozzo di regolamento di disciplina e di servizio per il personale della Pubblica Sicurezza (entrambi Argenta 1897). Nello stesso maggio 1898 fu trasferito a Ravenna.
Nella crisi di fine secolo Mori, addetto anche alla polizia politica, si rivelò energico controllore degli ambienti anarchici e repubblicani, ottenendo sei encomi e tre gratifiche.
Coraggioso uomo d’azione ma anche prolisso scrittore di rapporti e di relazioni, pronto a esporsi in prima persona nelle situazioni difficili, attento alla psicologia popolare e dotato di una certa dose di arrogante incoscienza, si fece notare per i modi energici, ai limiti dell’illegalità, adoperati nella repressione delle manifestazioni politiche.
A seguito di una perquisizione illegittima in un caffè frequentato da repubblicani, nel dicembre 1902, fu costretto al trasferimento. A sua richiesta fu mandato in Sicilia e il 5 marzo 1903 si stabilì a Castelvetrano, in provincia di Trapani. Il 18 luglio 1907 il delegato Mori fu inviato in missione da Castelvetrano a Trapani come commissario facente funzioni nell’ufficio provinciale di Pubblica Sicurezza.
A Trapani si distinse sia per l’azione energica contro le bande di briganti, sia per l’accortezza politica, tanto che, già a qualche settimana dall’arrivo, il 15 agosto 1907, ricevette un encomio del ministero per la sua opera nel corso delle gravi agitazioni seguite a Trapani e Palermo all’arresto disposto dal Senato (costituitosi in Alta Corte) dell’ex ministro della Pubblica Istruzione Nunzio Nasi, trapanese, avversario di Giovanni Giolitti e accusato di gravi irregolarità amministrative, che i suoi sostenitori consideravano vittima innocente di un complotto politico da parte dei suoi avversari.
Il 16 marzo 1909 Mori fu nominato commissario di 2ª classe; il 5 maggio 1914 ebbe la promozione straordinaria a commissario di 1ª classe. Trasferito a Firenze nel gennaio successivo col grado di vicequestore, ritornò dopo poco più di un anno in Sicilia. La guerra stava allora provocando una recrudescenza dei reati nell’Isola, soprattutto quelli relativi a furti e abigeati; fu così rafforzato il servizio di squadriglie mobili di carabinieri e poliziotti. Nominato nel maggio 1916 alla direzione delle squadriglie di Caltanissetta e Agrigento, Mori mise subito a segno alcune importanti operazioni come la cattura dei latitanti Diego Tofalo e Francesco Carlino; si dedicò poi alla caccia di Paolo Grisafi, altro noto bandito dell’Agrigentino. Organizzò in questa occasione grandi retate di protettori e manutengoli, suscitando la reazione locale, ma con l’appoggio delle autorità centrali attivò una rete di informatori, riuscendo a individuare Grisafi, ormai isolato, e a provocarne la resa nel febbraio del 1917.
Il 4 novembre 1917 fu nominato questore e trasferito ad Alessandria, quindi come reggente a Torino, teatro di gravi moti popolari contro la guerra nell’agosto del 1917. Qui si distinse ancora una volta per l’energia, ma anche per l’intelligenza con le quali riportò la calma, ridimensionando l’eccessivo allarmismo delle autorità politiche, e mettendo sotto accusa anche l’azione provocatrice di alcuni esponenti del fascio parlamentare nazionalista, come l’on. Carlo Centurione.
Trasferito a Roma dapprima in missione, quindi, dal 1° ottobre 1919, come reggente la questura, chiamatovi da Francesco Saverio Nitti – presidente del Consiglio e ministro dell’Interno – il 5 aprile 1920 fu nominato prefetto di Reggio Calabria, ma collocato a disposizione per poter continuare a reggere la questura della capitale. Su indicazione di Nitti, represse duramente i moti nazionalisti contro la rinuncia italiana alla Dalmazia, che il 24 maggio provocarono gravi incidenti, con 7 morti e 22 feriti, a seguito dei quali Mori arrestò, sempre su indicazione del presidente del Consiglio, tutti i fiumani e dalmati residenti a Roma, suscitando vibranti proteste e accuse per abuso di potere.
Il 4 giugno 1920 Mori cessò dall’incarico di questore di Roma. Rinviato a giudizio dalla corte di Assise di Roma per l’azione contro i dalmati, fu amnistiato prima del dibattimento e non ebbe ulteriori conseguenze negative sulla sua carriera. Giolitti, subentrato a Nitti come presidente del Consiglio il 16 giugno 1920, lo inviò per qualche mese in Sicilia, a dirigere il servizio speciale per la repressione del malandrinaggio, ma il 2 febbraio 1921 lo richiamò a Roma, sembra con l’intenzione di nominarlo capo della Polizia. Nel frattempo, però, pochi giorni dopo, fu inviato a Bologna (8 febbraio). La nomina a capo della Polizia non arrivò, anche per la caduta del governo Giolitti il 4 luglio 1921. Mori rimase invece a Bologna fino al 26 agosto 1922.
In quella città dimostrò energia nell’opporsi con successo alle pretese degli agrari di ridiscutere i patti siglati con le leghe bracciantili e le cooperative agricole per l’utilizzazione della manodopera e dei macchinari agricoli, sostituendoli con accordi volti a privilegiare gli iscritti al sindacato fascista.
Il 20 novembre 1921 il governo Bonomi, nel tentativo di contrastare tardivamente l’azione delle squadre fasciste, gli conferì poteri straordinari anche sulle altre 11 Province padane, sottoponendogli le autorità militari e civili, i Carabinieri e le autorità di Pubblica Sicurezza. Per l’opposizione di queste ultime ad accettare i suoi poteri, il 9 dicembre Mori rassegnò le dimissioni, respinte da Ivanoe Bonomi.
La sua posizione si indebolì con la revoca dell’incarico di commissario straordinario per le Province padane il 14 febbraio 1922. Con il successivo governo Facta fu evidente il suo isolamento davanti alla sempre più proterva azione dei fascisti: il 27 maggio 1922 le squadre fasciste, al comando di Leandro Arpinati, Italo Balbo, Dino Grandi, sotto la direzione di Michele Bianchi (segretario del partito) e con l’aperto appoggio di Mussolini, occuparono senza trovare ostacoli la città e assediarono la prefettura. Il 2 giugno, dopo aver ottenuto l’impegno del governo ad allontanare quello che Mussolini aveva definito «il prefetto socialista», le squadre si ritirarono. Poco dopo Mori fu trasferito a Bari, dove prese servizio il 26 agosto 1922. Subito dopo la nomina di Mussolini a presidente del Consiglio, il 10 novembre 1922, con r.d. fu collocato a disposizione a partire dal 21 di quello stesso mese.
Ritiratosi a Firenze, si dedicò alla scrittura di un libro nel quale ricostruiva le esperienze della sua prima permanenza in Sicilia: Tra le zagare oltre la foschia (Firenze 1923). La carriera di Mori non era tuttavia finita. La campagna repressiva contro la mafia, voluta da Mussolini dopo un viaggio in Sicilia nel maggio 1925, trovò il proprio zelante ed energico attuatore nel prefetto a disposizione, sostenuto anche da ambienti vicini alla Corona e dal ministro dell’Interno Luigi Federzoni: Mori fu richiamato in servizio, nominato prefetto di Trapani nel giugno 1924, e trasferito quindi a Palermo nell’ottobre del 1925, dove rimase fino al giugno del 1929. Iscrittosi al Partito nazionale fascista il 21 febbraio 1926, enunciò i principî della sua azione: ripristinare l’autorità dello Stato, ottenere il sostegno delle popolazioni, distinguere fra una presunta omertà «pura» e un’omertà degenerata. Di fatto, egli stesso riconobbe che le sue operazioni si concretizzarono in «autocarri carichi di sciagurati avviati alla espiazione di un passato di colpe» (Con la mafia ai ferri corti, Milano 1932, p. 250).
Un esempio di una tipica operazioni di Mori fu l’assedio di Gangi, nel gennaio del 1926, e la cattura dei banditi che vi trovarono rifugio con la complicità delle autorità locali. La tattica fu quella già sperimentata, durante la guerra, nella cattura del bandito Grisafi. Mori riconobbe esplicitamente che la propria azione repressiva includeva momenti di arbitrarietà, ma sostenne che tale comportamento era giustificato dagli eccessi cui la mafia era giunta. Dal punto di vista repressivo, l’azione di Mori si esplicò in una serie di retate nei comuni in provincia di Palermo, Agrigento, Caltanissetta, Enna, condotte soprattutto nel 1926, con migliaia di arresti, seguite da grandi processi per associazione a delinquere, a partire dall’ottobre 1927.
Sul terreno giudiziario, trovò la piena collaborazione del nuovo procuratore generale di Palermo Luigi Giampietro. Le armi principali della campagna repressiva contro i mafiosi furono così lo spregiudicato uso del confino e dell’accusa di associazione a delinquere: bastò spesso la sola testimonianza dei funzionari di Pubblica Sicurezza per essere condannati. Più difficile fu, anche durante il fascismo, trovare i colpevoli dei singoli reati: molti omicidi rimasero, anche in quegli anni, senza responsabile.
Dal punto di vista sociale, le classi dirigenti dell’Isola furono assolte dall’accusa di essere conniventi con i banditi e si individuò nei gabellotti e campieri il ceto medio mafioso da isolare e colpire. Con un’ordinanza del 5 gennaio 1926 Mori stabilì l’obbligo di un assenso delle autorità di Pubblica Sicurezza per chiunque volesse svolgere la funzione di guardiano in aziende agricole. L’autorità pubblica doveva accertare che il guardiano non fosse stato imposto al proprietario e che attuasse tutto ciò che era previsto dalla legge per difendere la proprietà. Quindi organizzò grandi cerimonie pubbliche con i campieri, facendo loro giurare fedeltà al re e alle leggi dello Stato.
Manifestò una visione bipolare della società (proprietari e contadini) funzionale alla legittimazione dell’azione dello Stato fascista come unica regolatrice dei rapporti tra quelle due classi, saltando il livello della mediazione politica. Quanto poi l’appoggio ricevuto dai proprietari su questo terreno coprisse un decisivo ridimensionamento della loro capacità egemonica e la crisi definitiva del così detto blocco agrario, è tema ampiamente trattato dalla più recente storiografia.
Sul terreno politico, infine, Mori si prestò, forse inconsapevolmente, alle lotte interne al fascismo, coinvolgendo in accuse di mafia di scarso fondamento uomini nuovi, come Alfredo Cucco, principale esponente del fascismo palermitano, e appoggiando l’una o l’altra delle varie fazioni locali che si contendevano il sostegno del regime nei paesi dell’interno.
Cucco – oculista, segretario federale di Palermo, membro del Gran Consiglio, deputato dal 1924, vicino all’ala radicale del fascismo – fu coinvolto in sospetti di collusione con ambienti mafiosi, oltre che di corruzione, e venne espulso dal partito nel gennaio 1927. Assolto nel processo che si tenne nel 1931, fu riammesso nel partito nel 1936. Anche il gen. Antonino Di Giorgio – ministro della Guerra dal 30 aprile 1924 al 4 aprile 1925, pluridecorato nella prima guerra mondiale, deputato dal 1924, comandante del corpo d’armata di Palermo – fu costretto a dimettersi il 20 aprile 1928 da ogni incarico perché sfiorato dalle inchieste di Mori.
Mori acquisì una enorme popolarità, in Italia e all’estero, alimentata anche dalla propaganda del regime, che sottolineava il successo del fascismo là dove lo Stato liberale aveva fallito: la sconfitta della mafia. Il 10 gennaio 1928 l’Università di Palermo gli conferì la laurea honoris causa in giurisprudenza.
Il 22 dicembre 1928 fu nominato senatore. Pochi mesi dopo, il 24 giugno 1929, gli giunse inaspettato un telegramma di Mussolini che lo collocava a riposo per anzianità di servizio a partire dal 16 luglio di quello stesso anno. Inutili furono i suoi tentativi di ottenere la revoca del provvedimento. La campagna contro la mafia era ufficialmente conclusa con la vittoria del fascismo. Tuttavia il fascismo non sconfisse la mafia, nonostante il lusinghiero bilancio che Mussolini presentò alla Camera il 26 maggio 1927. Le grandi retate e i successivi processi scompaginarono effettivamente le cosche, soprattutto quelle delle Madonie, di Bagheria, Bisacquino, Termini, Mistretta, Partinico, Piana dei Colli. Ma altre rimasero in stato di latenza, e continuarono a operare.
Ritiratosi a vivere a Roma, Mori nel 1932 pubblicò il già citato resoconto della sua seconda missione in Sicilia, Con la mafia ai ferri corti. Chiese senza successo udienza a Mussolini per consegnargli personalmente una copia del volume. Opera ampollosa e autocelebrativa, ma utile per le notizie che fornisce, fu osteggiata da ambienti fascisti e, nonostante una traduzione inglese e molte recensioni all’estero, in Italia fu un insuccesso editoriale.
Il 18 luglio 1929 con regio decreto Mori fu chiamato poi a ricoprire la carica di liquidatore del Sindacato infortuni imprenditori con sede a Bari, incarico che ricoprì fino all’agosto 1932.
Gli ultimi anni della sua vita li passò a Udine, incaricato di dirigere il Consorzio provinciale di 2° grado per la bonifica della Bassa friulana: altra impresa «fascistissima », ma lontano dai clamori e dalla notorietà che gli avevano procurato le sue gesta siciliane.
Nel marzo 1942 morì l’amata moglie: le sopravvisse per pochi mesi e si spense a Udine, il 5 luglio 1942.
Fonti e Bibl.: Le carte di Mori si trovano all’Arch. di Stato di Pavia, Fondo C. M., 16 cartelle. La sua azione è trattata in tutte le opere di storia generale sulla mafia e sulla Sicilia nel Novecento. Su di lui specificamente si vedano: A. Petacco, Il prefetto di ferro, Milano 1975; S. Porto, Mafia e fascismo. Il prefetto M. in Sicilia. 1925- 1929, Palermo 1977; A. Spanò, Faccia a faccia con la mafia, Milano 1978; A. Infranca, Il periodo trapanese del prefetto M. nel giudizio della stampa locale, in Nuovi Quaderni del Meridione, 1982, n. 78, pp. 227-261; C. Duggan, La mafia durante il fascismo, Soveria Mannelli 1986, ad ind.; S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo (1918-42), in Storia d’Italia (Einaudi), Le Regioni dall’Unità a oggi, V, La Sicilia, a cura di M. Aymard - G. Giarrizzo, Torino 1987, pp. 389-410; G. Raffaele, L’ambigua tessitura. Mafia e fascismo nella Sicilia degli anni Venti, Milano 1993, pp. 19, 35, 68 n., 69 n., 172, 194 s., 201-203, 230-232, 234, 238 n., 239 n., 246 n.; G. Tessitore, C. M. La grande occasione perduta dell’antimafia, Cosenza 1994; Mafia e fascismo, a cura di S. Lupo, n. monografico di Meridiana, XIX (2008), 63.