MONTI, Cesare
MONTI, Cesare. – Nacque a Milano il 15 maggio 1594, secondogenito di Princivalle e di Anna Landriani, sua seconda moglie.
Il padre, membro del Collegio dei giureconsulti e vicario di Provvisione di Milano, apparteneva a una famiglia che, dallo svolgimento di mansioni cancelleresche, nel corso del Cinquecento era passata a ricoprire uffici del governo milanese con compiti giurisdizionali, riuscendo a entrare nei ranghi del patriziato cittadino. Princivalle fu protagonista della consacrazione dell’ascesa sociale della famiglia: dopo la nascita di Cesare, ricoprì una serie di cariche pubbliche che gli aprirono la strada verso l’ingresso nel Senato (1620), massima istituzione giudiziaria e amministrativa dello Stato di Milano.
Nulla si conosce dei primi anni di vita di Monti. Frequentò l’Università di Pavia, risiedendo nel collegio Borromeo, e conseguì la laurea in diritto nel 1617; l’anno seguente ottenne l’ascrizione al prestigioso collegio dei giureconsulti di Milano, via maestra per i rampolli del patriziato verso le carriere al servizio della città, della corona e della Chiesa. Nel 1618, probabilmente grazie ai buoni rapporti del padre con l’arcivescovo Federico Borromeo, ottenne l’ufficio di protonotario apostolico e si trasferì a Roma dove abbracciò la carriera curiale. Nel 1620 divenne referendario delle due Segnature e, due anni dopo, fu nominato da Gregorio XV consultore della congregazione del S. Uffizio (prestando giuramento l’8 giugno), carica che cumulò con quella di uditore della Sacra Consulta, supremo tribunale civile e criminale dello Stato pontificio. Forse nella sua qualità di consultore del S. Uffizio o per altra via, ebbe modo di frequentare il cardinale Maffeo Barberini e ottenerne la stima. Questi, asceso al soglio papale con il nome di Urbano VIII (6 agosto 1623), prima gli affidò il compito di indagare, con poteri di commissario inquisitoriale delegato sulla vicenda di Isabella Gonzaga di Bozzolo, accusata di stregoneria dal secondo marito, Vincenzo Gonzaga, che desiderava l’annullamento del loro matrimonio; quindi, nell’ottobre 1624, lo promosse al ruolo chiave di assessore del S. Uffizio. Inoltre, nel dicembre 1623, il cardinale Ludovico Ludovisi, con l’avallo del pontefice, nominò Monti proprio sostituto nella carica di uditore delle cause relative alla congregazione ‘de Propaganda Fide’.
All’inizio di aprile 1627 Urbano VIII designò Monti nunzio a Napoli, incarico assai delicato e segno inequivocabile della sua appartenenza all’entourage barberiniano.
Come prima cosa dovette operare per indurre il viceré, Antonio Álvarez de Toledo, duca d’Alba, a soprassedere alla richiesta dell’ambasciatore spagnolo a Roma, Iñigo Vélez de Guevara y Tassis, conte di Oñate, di inviargli 30 soldati spagnoli come guardia del corpo, atto che la Curia considerava lesivo della sovranità papale. Malgrado gli sforzi di Monti, il viceré mandò i soldati a Roma e decise di schierare truppe in Abruzzo, ai confini fra il Regno di Napoli e lo Stato della Chiesa, a scopo intimidatorio. In questo caso, però, l’azione del nunzio ebbe successo, anche grazie alle pressioni diplomatiche esercitate dalla S. Sede sulla corte madrilena. La permanenza a Napoli di Monti s’interruppe dopo solo un anno. Ad attestare lo scrupolo e l’acume con cui aveva svolto le proprie mansioni resta la «Relatione della nuntiatura e colletteria di Napoli » (Arch. segr. Vaticano, Segr. Stato, Nunz. Div., vol. 248, cc. 45-79r), nella quale esaminava tutte le prerogative del nunzio a Napoli e le questioni giurisdizionali oggetto di contenzioso con le autorità laiche.
Il precipitare degli eventi legati alla contesa franco-spagnola per la successione al ducato di Mantova spinse Urbano VIII a inviare Monti nunzio straordinario alla corte di Madrid nel 1628, al fine di evitare lo scoppio della guerra nella penisola italiana.
Arrivò a Madrid già ai primi di giugno, affiancando il nunzio ordinario Giovanni Battista Pamphili. La sua nomina costituiva un’indubbia attestazione di fiducia del papa, ma al contempo si presentava come un banco di prova assai arduo per le capacità politiche e diplomatiche del prelato, il quale, nel novembre 1629, allorché fu resa pubblica la concessione della porpora cardinalizia a Pamphili, fu promosso nunzio ordinario e collettore apostolico nei Regni spagnoli. Poiché da alcuni decenni era prassi che tale carica fosse attribuita a personaggi di rango episcopale, Urbano VIII gli concesse di ricevere nell’arco di pochi giorni gli ordini minori e maggiori e quindi di essere consacrato vescovo col titolo di patriarca di Antiochia. La cerimonia ebbe luogo nel gennaio 1630 nella cappella del palazzo reale del Buen Retiro, alla presenza di Filippo IV e dell’intera corte. La benevolenza regia non durò tuttavia a lungo. A partire dalla fine del 1630, man mano che andava crescendo la diffidenza del sovrano e del suo valido, il conte-duca di Olivares, Gaspar de Guzmán y Pimentel, verso la politica di Urbano VIII, la posizione del nunzio si fece più difficile. In un primo momento, infatti, la corte di Madrid – identificando il successo o la sconfitta della casa d’Asburgo con quello della causa cattolica tout court – rimproverò al papa di fornire un appoggio politico e finanziario troppo scarso allo sforzo militare della Monarchia. In seguito, nel corso del 1631, la scoperta dei maneggi sotterranei della diplomazia barberiniana volti a dividere il fronte asburgico e a favorire in funzione antiimperiale l’alleanza tra la Baviera e la Francia, a sua volta alleata della Svezia, spinsero Olivares a ritenere che Urbano VIII avesse abbandonato la propria equidistanza per schierarsi di fatto con i nemici della casa d’Asburgo. Conseguenza del deterioramento dei rapporti fra la S. Sede e la corte di Madrid, fu il progressivo irrigidimento della politica regia in materia ecclesiastica, in particolare attorno al problema della partecipazione del clero ai tributi versati dai Regni spagnoli alla corona. Il duro conflitto sorto fra i ministri regi e il capitolo della cattedrale di Siviglia che, al fine di tutelare l’esenzione del clero, si era opposto all’aumento del prezzo del sale causò l’arresto e la condanna all’esilio di alcuni canonici. Ciò obbligò Monti a intervenire a tutela della giurisdizione ecclesiastica, ottenendo, grazie a un abile lavoro di convincimento di Filippo IV, la revoca del decreto regio di espulsione voluto da Olivares. Lo scacco subito spinse il conte- duca a mettere sotto osservazione l’attività del nunzio e, in modo particolare, il drenaggio di denaro verso Roma che egli gestiva in quanto collettore apostolico. A tale scopo, il sovrano, nel settembre 1631, riunì una Junta sobre los abusos de Roma y de la nunciatura, formata da ministri laici e da ecclesiastici fedeli alla corona e presieduta dal confessore del re, il domenicano Antonio de Sotomayor, con il compito di raccogliere informazioni sull’esercizio dei poteri giurisdizionali e fiscali del nunzio a Madrid nei confronti del clero dei regni iberici. Da parte sua, Monti riuscì a essere informato di quanto veniva discusso nella Junta e nelle stanze del conte-duca in virtù delle confidenze del genero dell’Olivares, Ramiro Nuñez de Guzmán, duca di Medina de las Torres. Uno dei primi atti della junta fu di ammonire il nunzio a non intromettersi nelle questioni riguardanti la contesa con il capitolo sivigliano e, più in generale, negli affari politici ed economici del regno.
Monti dovette fronteggiare con fermezza, ma anche con duttilità, i dissidi fra la S. Sede e la Monarchia cattolica. L’apice dei contrasti fu raggiunto, nel marzo 1632, allorché il cardinale Gaspar de Borja, spalleggiato dalla Corona, accusò in concistoro Urbano VIII di tramare per la rovina della casa d’Asburgo, anche a costo di veder trionfare i protestanti in Germania. Un altro capitolo delle tensioni riguardò la designazione del nuovo arcivescovo di Milano (in seguito alla scomparsa di Federico Borromeo il 21 settembre 1631). Infatti, ignorando la richiesta avanzata dalla città di Milano di nominare un ecclesiastico milanese, Urbano VIII scelse il cardinale Gerolamo Colonna. Filippo IV e i suoi ministri – ostili non al Colonna, noto anzi per essere filo-spagnolo, quanto alla politica papale – rifiutarono la concessione del placet che la Corona si riservava sulla presa di possesso dell’arcivescovado, con la scusa che il designato non fosse, come da tradizione, suddito milanese. Di fronte all’atteggiamento irremovibile della Corona e alla rinuncia di Colonna, il pontefice, nell’estate 1632, designò proprio Monti che aveva le caratteristiche richieste da Filippo IV. In realtà anche questa candidatura fu giudicata inaccettabile dal sovrano, essendo il nunzio considerato un troppo zelante assertore dell’autorità ecclesiastica e soprattutto una creatura del sempre più detestato Urbano VIII.
La nomina ad arcivescovo di Milano fu resa pubblica il 20 dicembre 1632, ma le resistenze di Filippo IV a concedere il placet furono superate solo nel maggio 1633. Monti peraltro rimase nunzio a Madrid, dove nel dicembre 1633 fu informato della promozione cardinalizia, che il pontefice proclamò di aver deciso in pectore nel novembre 1629. Nel maggio 1634, dunque, giunse a Roma per ricevere il cappello e dar conto dell’incarico svolto.
La designazione di Monti cadde mentre era in atto a Milano un durissimo conflitto giurisdizionale attorno alla gestione dei beni dell’arcivescovado, in cui erano coinvolti il vicario arcivescovile nominato dal capitolo della cattedrale e il canonico Juan Gutiérrez, economo generale dello Stato ossia il ministro incaricato dalla corona dell’amministrazione dei beni ecclesiastici rimasti vacanti. Il vicario aveva fulminato la scomunica contro l’economo e l’interdetto sull’intera città. A esacerbare la situazione giunse, nel luglio 1634, l’ordine del cardinale Francesco Barberini al vicario di procedere alla presa di possesso dell’arcivescovado per conto del nuovo ordinario, senza richiedere il placet all’economo generale. Allo scopo di sbloccare la situazione, Monti decise d’inviare il cugino Giulio Monti alla corte di Madrid, dove giunse nel novembre 1634, per esporre a Olivares, ai ministri e a Filippo IV le ragioni e la buona fede dell’arcivescovo. Nel frattempo egli trattava a Roma con gli inviati della Corona. Finalmente, nel gennaio 1635, il governatore dello Stato di Milano, il cardinale Gil de Albornoz – senza attendere ulteriori disposizioni da Madrid – dispose la consegna dei beni arcivescovili ai procuratori del presule. Il monarca, da parte sua, accettò in pratica il compromesso, una volta rassicurato circa la lealtà di Monti alla Corona, ma si rifiutò di riconoscere quella che, negli atti ufficiali, fu definita la presa di possesso «clandestina».
Monti entrò in Milano il 29 aprile 1635 e s’insediò come arcivescovo. Secondo un cronista alla solenne cerimonia, per la quale furono eretti numerosi apparati effimeri che decoravano le vie e le chiese cittadine, non partecipò il cardinale Albornoz, accampando ragioni di salute, sebbene lasciasse intendere che i motivi fossero altri e che «non vi sarebbe ancora andato per essere cardinale anciano». Questo fatto, così come l’orazione tenuta in duomo dal presidente del Senato di Milano, Giovanni Battista Trotti – in cui veniva ricordata la necessità che l’arcivescovo prendesse provvedimenti contro i cattivi comportamenti del clero e i «molti chierici quali havevano pigliato l’abito con fraude» (Un diario secentesco inedito, 1930, p. 474) – mostrano quanto teso fosse il clima dopo quasi cinque anni di aspri conflitti. In questa situazione, il profilarsi dell’invasione francese consentì a Monti di operare, con l’appoggio di importanti segmenti del patriziato milanese e delle autorità municipali, per chiudere anche la vertenza fra le autorità ecclesiastiche e l’economo. In risposta all’esigenza, avanzata anche da Roma, di un’efficace repressione dei comportamenti violenti e immorali diffusi nel clero ambrosiano, emanò un apposito editto. Del resto egli era giunto a Milano dotato di un’ampia serie di prerogative in materia di collazione dei benefici e di esercizio dell’attività inquisitoriale; nel gennaio 1635 un altro breve papale gli aveva concesso la facoltà, per un quinquennio, di eleggere i canonici della cattedrale senza che appartenessero a determinate famiglie. Nel marzo dello stesso anno la congregazione del S. Uffizio, di cui era divenuto membro effettivo l’anno precedente (anche se, dopo il trasferimento a Milano, non avrebbe più preso parte alle sedute del supremo tribunale) gli aveva conferito la facoltà di assolvere gli eretici che fossero ritornati alla Chiesa cattolica. Negli anni del suo episcopato celebrò due sinodi diocesani (1636 e 1640), e una visita pastorale (1636), portò a compimento il seminario maggiore di Milano e inaugurò quello di Monza (1638).
L’episcopato di Monti non appare facilmente comprensibile alla luce del tradizionale e rassicurante cliché storiografico e agiografico dello zelante pastore post-borromaico. In veste di arcivescovo, per esempio, favorì il gruppo di uomini e donne raccolti intorno al laico, illetterato e carismatico, Giacomo Filippo Casolo (che avrebbe finito i suoi giorni nel 1656 mentre era sotto processo da parte dell’Inquisizione di Brescia e di Bergamo con l’accusa di praticare l’«oratione di quiete»), i quali si riunivano presso la chiesa di S. Mario per soccorrere meretrici pentite. L’appoggio di Monti fu decisivo nel consentire al gruppo di proseguire e ampliare la propria attività caritativa, ottenendo l’appoggio di importanti esponenti del governo milanese, ed egli stesso fondò nel 1641 il conservatorio dedicato a S. Pelagia, dove si trasferì la comunità di S. Mario, destinato ad accogliere giovani peccatrici desiderose di redimersi. Il conservatorio sarebbe stato oggetto un decennio dopo, una volta scomparso Monti, di un’inchiesta inquisitoriale per quietismo e di una vera e propria normalizzazione da parte delle autorità romane.
A partire dal 1635, l’ingresso in guerra della Francia contro la casa d’Asburgo rappresentò per lo Stato di Milano l’avvio di una tormentata fase bellica. Monti dovette quindi confrontarsi durante i 15 anni di governo della diocesi con i problemi religiosi e soprattutto politici legati alla guerra in atto sul suolo lombardo. In questo senso è assai eloquente il suo carteggio con il cardinale Francesco Barberini che mostra come il porporato svolgesse un ruolo politico di primo piano che andava ben al di là dei suoi compiti di arcivescovo di Milano. In forza dell’esperienza maturata negli anni della nunziatura madrilena intratteneva rapporti da pari a pari con molti ministri regi, con i quali discusse le più scottanti questioni attinenti le controversie in materia giurisdizionale, così come la politica internazionale: dall’evoluzione della guerra in Germania ai rapporti fra lo Stato di Milano e i Grigioni (prima e dopo il trattato siglato nel 1639), dai passaggi di truppe in terra lombarda alle tensioni fra la S. Sede e il duca di Parma (1636-37 e 1641- 42). Con l’avallo del cardinale Barberini, intervenne – peraltro senza successo – sul finire del 1638, per cercare di ricomporre la frattura fra il cardinale Maurizio di Savoia e la reggente del Ducato di Savoia, Cristina di Francia.
A riprova della sostanziale tenuta dei buoni rapporti di Monti con la corona spagnola, soprattutto nel corso degli anni Quaranta, giova ricordare che egli, in occasione del conclave che nel 1644 condusse all’elezione di Giovanni Battista Pamphili, fu annoverato fra i porporati filo- spagnoli. Inoltre, malgrado egli lasciasse cadere le pressanti richieste di Filippo IV e dei suoi ministri affinché spingesse il clero della sua diocesi a contribuire finanziariamente alla difesa dello Stato di Milano, seppe evitare l’esplodere di nuovi conflitti giurisdizionali.
Negli anni 1643-47 s’impegnò nell’annosa questione dei rapporti fra cattolici e protestanti in Valtellina e Valchiavenna (terre lombarde sotto il dominio dei Cantoni svizzeri e delle Leghe grigie) e si prodigò per tutelare la confessione cattolica. In questa vicenda fu abile tessitore dei rapporti fra il cardinale Barberini e le congregazioni romane, da un lato, e i ministri regi dello Stato di Milano, il vescovo di Coira e alcuni religiosi (cappuccini e domenicani) che operavano nei territori in questione, dall’altro. Pur perseguendo con zelo gli interessi della Chiesa cattolica, diede mostra di un notevole realismo e fece presente a Roma come fosse preferibile utilizzare gli strumenti della corruzione politica, per mezzo di pensioni pagate dai ministri spagnoli a influenti personaggi svizzeri e grigioni, piuttosto che soffiare sul fuoco degli odi confessionali.
Morì a Milano il 16 agosto 1650.
Suo erede universale per i beni non provenienti da rendite e crediti di natura ecclesiastica (destinati all’Ospedale Maggiore di Milano) fu il cugino Giulio, a favore del quale, sin dal febbraio 1637, aveva istituito un fedecommesso. La maggior parte della collezione di quadri (ben 221 opere), per disposizione testamentaria, fu donata ai successori sulla cattedra arcivescovile ambrosiana pro tempore e con divieto di alienazione.
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