MERZAGORA, Cesare
– Nacque a Milano il 9 nov. 1898 da Luigi e da Elisa Fenini.
Il padre, ingegnere minerario, morì cinquantenne nel febbraio 1915 e tale evento condizionò fortemente la vita del M., il quale, vivace ed esuberante, da ragazzo sognava di fare il musicista e il commediografo; scrisse, in effetti, due valzer e anche una commedia (L’amore e l’ideale, s.l. né d.) rappresentata al teatro Manzoni di Milano nell’aprile 1917.
Benché riformato per insufficienza toracica, il M. fece di tutto per essere arruolato e, nella tarda primavera del 1917, fu inviato a Parma come allievo ufficiale; quindi, con il grado di sottotenente, venne assegnato al 225° reggimento di fanteria impegnato sul Carso.
Si distinse poi nei combattimenti sul Piave, dopo la ritirata di Caporetto, guadagnandosi una medaglia d’argento; nel giugno 1918 fu promosso tenente. Di stanza in Istria al termine del conflitto e ancora nei primi giorni del 1919, si raffermò sino alla fine del 1920, ma una malattia biliare ne consigliò il congedo anticipato, con la conseguente immediata necessità di scegliere una professione.
Il M. avrebbe voluto riprendere l’attività artistica, ma le insistenze della madre, unitamente al diploma in ragioneria da lui conseguito, lo orientarono verso un più sicuro impiego in banca. Presentò domanda a tre grandi banche italiane, Banca commerciale italiana (Comit), Credito italiano e Banca italiana di sconto, ottenendo tre risposte positive e optando, infine, per la Comit di G. Toeplitz.
Assunto il 19 genn. 1920, il M. cominciò a lavorare nella sede di Milano; dopo un anno venne trasferito a Sofia, all’ufficio di segreteria della Banca commerciale italiana e bulgara (Bulcomit), facente parte della rete di affiliate della Comit in Europa orientale, dove gli si aprivano migliori prospettive di carriera.
Intraprese contemporaneamente, ma per breve periodo, l’attività giornalistica pubblicando, come corrispondente de Il Secolo di Milano, alcuni articoli in una rubrica intitolata «Vita bulgara». Prevalse, però, l’impegno alla Bulcomit dove, nel settembre 1923, fu promosso capo dell’ufficio segreteria. Negli anni trascorsi in Bulgaria fu rappresentante a Sofia della Società di mutuo soccorso, tradizionale sodalizio degli italiani residenti in quella città, e in seguito ricoprì per il ministero degli Esteri italiano l’incarico di agente consolare a Filippopoli.
Tra il 1925 e il 1926 il M. chiese al direttore della filiale, E. Marchesano, di essere trasferito ma questi lo scoraggiò e, di lì a poco, nel 1927, fu inviato a Filippopoli per impiantarvi una filiale, come condirettore e poi come direttore, rimanendovi fino alla fine del 1928.
Nel marzo 1929 ottenne finalmente il rientro a Milano. La direzione centrale ritenne comunque opportuno utilizzare le sue esperienze nel lavoro ispettivo della rete estera della Banca, principalmente in area balcanica ma anche presso nuove filiali in altre zone.
Il nuovo incarico, consistente nel raccogliere in loco dati e informazioni, per elaborarli e sintetizzarli in relazioni destinate alla direzione centrale, cui era addetto come condirettore, sembrava meglio corrispondere alle aspettative del M., in quanto gli offriva la possibilità, nel vagliare la redditività delle varie piazze estere, di ampliare competenze e rapporti professionali. In quegli anni, tuttavia, la situazione economica generale e quella della Comit in particolare si andavano rapidamente deteriorando: gli effetti della crisi economica mondiale e gli squilibri interni della Banca, che si era sempre più impegnata in partecipazioni industriali fortemente compromesse, imposero una radicale trasformazione delle strutture e, soprattutto, tra il 1933 e il 1934, con la nascita dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), il passaggio all’area pubblica. Tali evenienze non impedirono, comunque, al M. di acquisire un retroterra di solide conoscenze in campi specifici dell’attività finanziaria, convincendolo infine a lasciare la Banca per il settore industriale.
L’occasione si presentò alla fine del 1938, quando il direttore centrale amministrativo della Società italiana Pirelli, U. Tagliacozzo, ebreo, in conseguenza delle leggi razziali, dovette abbandonare il suo incarico. Su proposta del più autorevole manager del gruppo, G. Venosta, il M., presentato in ottobre ai titolari della società, i fratelli Piero e Alberto Pirelli, sostituì Tagliacozzo dal 1° dicembre. Inizialmente destinato alla direzione amministrativa e finanziaria, e dunque preposto alla organizzazione e al controllo di tutti i servizi amministrativi e contabili del settore italiano della Pirelli, a poco a poco andò estendendo la sua responsabilità anche a quello estero, particolarmente importante nell’ambito di una realtà imprenditoriale già fortemente internazionalizzata.
Il gruppo Pirelli, oltre alla massiccia presenza nei tradizionali settori dei pneumatici e dei cavi, aveva proceduto a un’ampia diversificazione degli investimenti con partecipazioni in aziende tessili, cartarie, della gomma, strutturate in una ventina di consociate tra cui la Sirti, la Superga, la Società generale esercizi con automobili (SGEA), la Cartiera di Tolmezzo e altre; particolarmente importante la costituzione della Società anonima industria gomma sintetica (SAIGS), avviata il 14 sett. 1939 in società con l’IRI.
Le competenze e le metodologie del M. non mancarono di produrre importanti risultati soprattutto nell’organizzazione contabile, nei rapporti con le banche e nella gestione della liquidità: segmenti nei quali egli poté mettere a frutto il know how e i contatti acquisiti nei diciotto anni trascorsi alla Comit.
Dal 1940 al 1943, negli anni della seconda guerra mondiale, alla Pirelli il ruolo della direzione amministrativa e quello personale del M. crebbero ulteriormente.
In conseguenza delle circostanze determinate dagli eventi bellici, furono avviate, infatti, alcune importanti operazioni finanziarie, come quella che realizzò la cessione fittizia di una rilevante partecipazione della Pirelli holding di Basilea a nominativi svizzeri per salvare dal sequestro società affiliate site in paesi nemici, in particolare in Gran Bretagna, e salvaguardare, per quanto possibile, l’estesa attività in Sudamerica. Risale allo stesso periodo, sul piano interno, l’accentuata razionalizzazione amministrativa delle società del gruppo, che portò anche alla fusione di alcune consociate, al fine di sfruttare al meglio le facilitazioni fiscali offerte alle industrie dal governo nel corso della guerra.
Dopo gli avvenimenti bellici e politici dell’estate 1943 e la conseguente divisione in due dell’Italia, per semplificare la gestione del gruppo, anch’esso diviso in due tronconi, fu creato in seno alla Pirelli un comitato esecutivo ristretto (consiglio di amministrazione dell’8 nov. 1943), mentre i poteri del M. venivano integrati con quelli riservati agli amministratori delegati, estendendosi quindi, per la prima volta, all’effettivo governo della società. Contemporaneamente, il M. aderì al movimento clandestino antifascista come esponente del Partito liberale italiano (PLI) al fianco di G. Arpesani, cominciando a svolgere un’attività che si intensificò dal giugno 1944, dopo la liberazione di Roma; pur continuando a occupare il suo posto alla Pirelli, il M. entrò nella dirigenza del Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia (CLNAI) nel cui ambito, dal 12 ott. 1944, fu posto a capo della Commissione centrale economica (CCE).
La CCE, in quanto «organismo economico destinato a far da ponte tra l’occupazione tedesca ed il ripristino dell’autorità della nuova sperata Repubblica democratica» (cit. in C. M., il presidente scomodo, p. 214), svolse, soprattutto nel secondo quadrimestre del 1945, un importante ruolo di coordinamento nella ripresa delle attività industriali, progressivamente esauritosi quando gli Alleati presero le consegne della gestione amministrativa ed economica anche nel Norditalia.
In questo contesto, la controversa decisione, appoggiata dal CLNAI, di sostituire i consigli d’amministrazione delle società più o meno compromesse con il regime, con commissari straordinari chiamati a gestire la fase di transizione, vide coinvolto il M. nella duplice veste di presidente della CCE e, dal giugno 1945, di commissario della Pirelli (coadiuvato da L. Rossari, commissario aggiunto).
In qualità di commissario il M. fu chiamato a svolgere compiti delicati per garantire la continuità della gestione e dell’attività produttiva in un momento in cui numerosi problemi economici e politici la rendevano particolarmente difficile: carenza di materie prime, ristrettezze finanziarie, necessità di individuare nuovi sbocchi di mercato, gestione del personale (dall’occupazione ai salari) e, soprattutto, gestione dei rapporti con il governo centrale e con la Commissione di controllo alleata (CCA, che esercitò un’azione di supervisione sul governo italiano fino al 31 dic. 1945) nel clima politico particolarmente difficile del dopoguerra.
Dal settembre 1945 inoltre, il M., in qualità di presidente della CCE, era stato nominato alla Consulta nazionale, nel cui ambito fece parte della commissione Affari esteri che annoverava fra i suoi membri, tra gli altri, V.E. Orlando, I. Bonomi, L. Valiani, F.S. Nitti, C. Sforza, B. Croce, con alcuni dei quali strinse rapporti che gli sarebbero tornati utili nei mesi successivi.
L’esperienza alla Consulta costituì per il M. anche una convincente verifica della sua personale diffidenza per un mondo politico che egli vedeva troppo condizionato dai partiti, secondo logiche che spesso non seguivano principî oggettivi né criteri di competenza. Per questo, quando, nel maggio 1946, si conclusero i lavori dell’assemblea, dopo che erano stati indetti le elezioni politiche e il referendum istituzionale, non volle accettare alcuna candidatura.
Nel frattempo, le incertezze sulla durata del regime commissariale e sul rientro della famiglia Pirelli ai vertici dell’azienda avevano comportato la conferma del M. nella carica di commissario e lo slittamento dell’esercizio al 30 giugno 1946. Di fatto, il suo reinserimento a pieno titolo nell’attività aziendale, nel maggio 1946, venne a coincidere con la positiva risoluzione del provvedimento di epurazione per i fratelli Pirelli e la conseguente ripresa della gestione ordinaria con il ritorno dei maggiori azionisti alla guida del gruppo. Non fu quindi facile trovare per il M., comunque presente nel consiglio di amministrazione, una giusta collocazione nel nuovo contesto aziendale; infine, con non poche difficoltà, si andò definendo un ruolo di consigliere-consulente che gli avrebbe consentito di proseguire una stretta collaborazione, mantenendo la supervisione sui servizi amministrativi e finanziari e assumendo nel contempo, in Italia e all’estero, specifici incarichi, di volta in volta attribuitigli.
Fra questi ultimi vanno annoverate numerose cooptazioni in consigli d’amministrazione di consociate, le nomine nel consiglio e nel direttivo della Bastogi (giugno 1946), nel consiglio dell’IRI (novembre 1946) e in quelli del Credito italiano e dell’Alfa Romeo. Nel maggio 1947, inoltre, il M. svolse un’importante missione in Sudamerica nella duplice veste di incaricato del ministro degli Esteri C. Sforza – in vista di una ripresa della collaborazione con Argentina e Brasile, subordinata alla soluzione della questione dei beni italiani bloccati in occasione della guerra – e di incaricato per conto della Pirelli holding a tutela degli interessi del gruppo in questi due paesi.
Nel corso di tale viaggio al M. giunse la proposta, da lui accettata, di entrare a far parte del quarto governo De Gasperi come ministro del Commercio con l’estero, in un quadripartito – Democrazia cristiana (DC), PLI, Partito repubblicano italiano (PRI) e Unità socialista (US), nata dalla scissione del gruppo riformista di G. Saragat dal Partito socialista italiano (PSI) – che, escludendo per la prima volta dal dopoguerra le sinistre, affidava a L. Einaudi, ministro del Bilancio, e a un gruppo di tecnici di impostazione liberista il coordinamento della politica economica.
Obiettivo precipuo del dicastero del M. era la ripresa dei traffici internazionali e delle esportazioni italiane, in evidente sintonia con gli interessi e le richieste della Confindustria di A. Costa, in quella fase politica particolarmente vicina al governo. Per rendere praticabile tale finalità, il M. contribuì attivamente alla linea economica indirizzata alla stabilizzazione della lira, seppure egli avrebbe preferito utilizzare a questo scopo strumenti economici più innovativi rispetto alla tradizionale politica deflattiva imposta da Einaudi, e alla fissazione di un nuovo rapporto di cambio con il dollaro basato su valori più realistici; per gli esportatori, provvide a sostituire i vincoli monetari con il controllo sugli impieghi. Inoltre il M. individuò alcuni spregiudicati espedienti per favorire il rientro di ingenti capitali espatriati nel corso dei difficili anni appena trascorsi, in particolare quello del «franco valuta» che di fatto consentiva in Italia l’acquisto di beni protetto dall’anonimato e con capitali italiani detenuti fuori dal paese; il rientro e l’impiego di tali ingenti quantità di danaro produssero evidentemente notevoli vantaggi per l’economia nazionale, ma suscitarono anche molte polemiche, soprattutto da parte dell’opposizione che denunciò l’iniquità etica del provvedimento. Di fatto il M., sia pure nell’ambito di una dialettica costruttiva e collaborativa, finì per rappresentare all’interno della compagine di governo le posizioni dell’industria contro quelle della banca, espresse soprattutto da Einaudi. In questa chiave si deve tenere conto dell’azione, al momento piuttosto efficace, mirata a un drastico ridimensionamento dell’IRI, condotta dal M. nel periodo (1948-50) in cui fu alla presidenza dell’Istituto Marchesano, suo vecchio amico ed ex dirigente Comit.
In occasione delle elezioni del 1948, il presidente del Consiglio A. De Gasperi propose la candidatura del M. al Senato come indipendente nelle liste democristiane, sancendone così l’effettivo rientro nella politica attiva; eletto a larga maggioranza nel collegio di Vimercate, rimase ministro del Commercio con l’estero nel quinto governo De Gasperi, fino al marzo 1949.
Tale soluzione rafforzava il peso politico del M. e del cosiddetto «quarto partito», quello degli industriali, e corrispose a una fase di oggettiva attenuazione dell’invadenza dei partiti nella gestione del sistema economico attraverso gli strumenti dell’intervento pubblico. Tuttavia la sintonia con l’indirizzo di fondo dell’azione di governo non durò a lungo e le numerose polemiche insorte fra le diverse anime della coalizione al potere consigliarono il M. a presentare le dimissioni.
Dal momento che le condizioni per un rientro in grande stile alla guida della Pirelli non erano maturate, il M. concentrò la sua attività sul rilancio e la trasformazione dell’Ente finanziamenti industriali (EFI), del cui consiglio di amministrazione faceva parte fin dalla fondazione come rappresentante della Pirelli (fra le società caratiste), e di cui era stato nominato presidente il 20 sett. 1945.
L’EFI era stato costituito nel 1939 come società finanziaria finalizzata allo smobilizzo dei crediti delle industrie azioniste nei confronti dello Stato, crediti derivanti soprattutto da commesse belliche; non aveva avuto vita facile durante il conflitto, ma con la nomina del M. alla presidenza si cominciò a valutare la possibilità di una sua trasformazione in istituto di finanziamento a medio termine. Per realizzare tale proposito contro i numerosi ostacoli frapposti – tra cui preminente l’ostilità del governatore della Banca d’Italia, D. Menichella, restìo a modificare lo schema della legge bancaria del 1936 e a permettere che iniziative creditizie di un certo livello potessero prodursi fuori dal controllo dell’istituto centrale – il M. usò tutti i mezzi a sua disposizione, compresa una battaglia di stampa per cui utilizzò la sua regolare attività di notista economico del Corriere della sera. Portato nel novembre 1949 a due miliardi il capitale dell’EFI, fu chiesta una serie di autorizzazioni operative per rendere possibile l’estensione della sua attività nel campo dei finanziamenti a medio e lungo termine, autorizzazioni che dopo un anno non erano state ancora concesse.
Il fallimento dell’operazione di rilancio dell’EFI, oramai evidente già alla fine del 1950, unitamente alla prevista legge sulle incompatibilità parlamentari che rendeva impossibile la sua permanenza alla guida dell’Ente, portò, l’11 dic. 1951, alle dimissioni del Merzagora.
Esaurita anche questa esperienza, il M. si dedicò a tempo pieno all’attività parlamentare – che peraltro non aveva mai interrotto – qualificandosi come esponente di spicco del mondo produttivo lombardo, e lavorando, in questa sede, in funzione del raggiungimento di un impegno rappresentativo e di vertice. Il suo percorso politico fu caratterizzato principalmente da due eventi: la nomina alla presidenza del Senato, alla fine di giugno del 1953 (dopo la conferma nel seggio senatoriale di Vimercate alle elezioni svoltesi in quell’anno, dove fu ancora rieletto nel maggio 1958, essendo infine nominato senatore a vita il 2 marzo 1963), e la sconfitta nella corsa per la presidenza della Repubblica, nel 1955.
La nomina del M. – eletto come indipendente ma legato da sempre alla DC, espressione del mondo dell’industria ma non rigidamente conservatore, attivo nella Resistenza ma inequivocabilmente anticomunista – alla presidenza del Senato maturò come reazione al clima tempestoso che si era creato in Parlamento sul finire della precedente legislatura durante l’approvazione della controversa legge elettorale e, dunque, all’insegna di un recupero della correttezza istituzionale e del rispetto della legalità parlamentare e della centralità del Parlamento, finalità per cui il M. effettivamente si adoperò negli oltre quattordici anni in cui occupò la carica.
Nel corso di questi anni la candidatura al Quirinale, nel 1955, fu accettata dal M. nonostante egli sapesse di non avere il gradimento di buona parte della stessa DC, ostile non tanto e non solo alla sua persona quanto al tentativo di A. Fanfani di imporre sulla questione la volontà della segreteria ai dissidenti interni; le interferenze dell’ambasciata statunitense, preoccupata dalla candidatura di G. Gronchi, lungi dal giovare al M., finirono per nuocergli ulteriormente. Resosi infine conto che la situazione non poteva avere sbocchi positivi, al terzo scrutinio, in cui raggiunse 245 voti (un numero inferiore a quello dei rappresentanti del gruppo DC), il M. chiese che la propria candidatura venisse ritirata.
Con il successivo evolversi della situazione politica italiana, la formazione culturale del M., le sue frequentazioni (anche negli anni dell’attività politica egli mantenne una fitta rete di relazioni con grand commis e manager come A. Tino ed E. Cuccia, G. Luraghi, Marchesano e soprattutto con tutti i principali esponenti dell’imprenditoria lombarda), le personali esperienze degli anni del dopoguerra gli fecero guardare con preoccupazione alle ingerenze di impianto statalista in campo economico e all’emergente centrosinistra in campo strettamente politico, da lui considerati fattori concatenati, destinati a produrre un deterioramento delle condizioni necessarie a un ordinato sviluppo economico-sociale. Il tentativo da parte del M., tuttavia sempre più debole e isolato politicamente, di dare una spallata risolutiva al centrosinistra in affanno, si ebbe tra l’inverno e la primavera del 1964, durante il quadripartito – DC, PRI, Partito socialista democratico italiano (PSDI) e PSI – presieduto da A. Moro, e culminò nell’estate, dopo le dimissioni di Moro rassegnate il 26 giugno.
Le intenzioni del M. e la sua proposta si indirizzarono fondamentalmente a un governo di tecnici, eventualmente da lui stesso presieduto, come unica soluzione, considerata improcrastinabile, a una situazione d’emergenza. L’impossibilità di pervenire a tale soluzione, per la ritrovata volontà di collaborazione fra le forze del centrosinistra, contribuì a creare quelle condizioni che posero il M. ai margini e in perenne polemica con l’evolversi della politica italiana.
Nell’estate 1964 il M. lasciò quindi Roma per le vacanze, intenzionato a dimettersi, ma il successivo 11 agosto A. Segni, presidente della Repubblica, venne colpito da una grave trombosi che gli impedì di esercitare le sue funzioni; il M. fu perciò (e per un non breve periodo: 11 agosto - 29 dicembre) presidente della Repubblica supplente, senza, però, che si palesasse alcuna concreta possibilità di succedere nella carica.
Sempre più critico nei confronti degli indirizzi intrapresi dalla politica e dai suoi nuovi protagonisti, rimase ancora qualche anno alla presidenza del Senato, che abbandonò polemicamente il 7 nov. 1967.
Pochi giorni prima, in occasione dell’assemblea annuale dei cavalieri del Lavoro aveva pronunciato, alla presenza delle maggiori cariche politiche, un polemico discorso in cui aveva affrontato molti nodi irrisolti dell’organizzazione democratica con toni e rilievi critici giudicati sconvenienti, soprattutto perché espressi dalla seconda carica istituzionale dello Stato. Si schierarono contro di lui, non solo i comunisti, ma anche tutti i rappresentanti dei partiti di governo, DC compresa.
Abbandonato l’impegno politico, il M. si indirizzò nuovamente al mondo degli affari, riuscendo a farsi eleggere, il 12 giugno 1968, con l’aiuto dell’amico C. Faina, alla presidenza di una delle principali compagnie assicurative europee, le Assicurazioni generali di Trieste. Il M. mancava di esperienza specifica nel settore e tuttavia non era intenzionato a fare il presidente onorario prima del tempo; intese, quindi, utilizzare le competenze maturate nell’attività finanziaria per alcune specifiche finalità da perseguire nella gestione della compagnia: massimizzare la redditività degli investimenti; ottimizzare l’organizzazione; conservare un equilibrio accettabile all’interno dell’assetto proprietario che contraddistingueva le Generali, dove i tre pacchetti azionari principali, tra il 4 e 5%, erano suddivisi tra Mediobanca, Montedison e Banca d’Italia – le quali tuttavia si muovevano non di concerto ma in ordine sparso – e il resto era frazionato in numerosi ma rilevanti pacchetti in mano a importanti famiglie, soprattutto triestine e veneziane.
Circa l’incremento della redditività, prevedendo i possibili rischi inflazionistici interni ed esteri, il M. si dedicò a un drastico riequilibrio in favore degli investimenti immobiliari optando, fra i mobiliari, per quelli in valuta estera. Riuscì, in questo modo, a perseguire il doppio vantaggio della minore perdita su titoli da svalutazione e del maggior guadagno per rivalutazione sui valori immobiliari. La particolare attenzione accordata alla gestione finanziaria su quella caratteristica non impedì al M. di perseguire una profonda trasformazione organizzativa della compagnia, incentrata sulla critica a una mentalità marcatamente «agenziale» e sul totale e immediato controllo di ogni posta di bilancio per meglio conoscere i punti di debolezza e maggiormente puntare su quelli di forza. Il M. concentrò, inoltre, le migliori energie al mantenimento dell’indipendenza della compagnia e in particolare a instaurare con l’azionariato diffuso che la caratterizzava un più proficuo rapporto; si adoperò, infatti, in soluzioni innovative come la lettera agli azionisti, la diffusione di dati sull’andamento dell’esercizio anche durante l’anno, la redazione di un bilancio consolidato, e perseguì il raggiungimento di trasparenza e correttezza amministrative riconosciuto dal conferimento dell’Oscar del bilancio per l’anno 1970. L’assetto proprietario, fondamentalmente equilibrato al momento del suo ingresso nella compagnia, venne, però, modificato nel 1973 con l’uscita di scena della Montedison e la sua sostituzione con la società lussemburghese Euralux, che nascondeva, con ogni probabilità, interessi comuni del gruppo francese Lazard e di Mediobanca; a questo punto, in oggettiva contraddizione proprio con la politica fino ad allora svolta nei confronti dell’azionariato diffuso e con la volontà manifestata di mantenere l’autonomia delle Generali, il M. fu costretto ad accettare un patto di sindacato fra i maggiori azionisti che stabiliva appunto i presupposti di quell’attività di controllo degli azionisti maggiori che egli avrebbe voluto evitare.
Anche negli anni trascorsi alla guida delle Generali, il M., come personaggio di primo piano dell’economia e della politica italiane, si trovò coinvolto in alcuni eventi nodali della finanza e dell’industria nazionali.
In particolare, tra il 1968 e il 1971 fu coinvolto nelle vicende della Bastogi – società che aveva acquisito dalla metà degli anni Cinquanta funzioni stabilizzatrici come «cassaforte» della grande impresa italiana e contemporaneamente deteneva partecipazioni chiave nell’ambito dell’industria elettrica – la quale, alla fine degli anni Sessanta, dopo la nazionalizzazione dell’industria elettrica, sotto la guida di T. Torchiani, di fatto stentava a individuare nuove strategie. Il M., consigliere di amministrazione della Bastogi in quanto presidente delle Generali, si fece portatore di una irrituale e violenta critica alla società stessa, da lui definita una gallina dalle uova di marmo. Di fatto, per il M., a causa di una gestione statica, la Bastogi soffriva «di una patente sottocapitalizzazione, di incertezze di attribuzione delle responsabilità degli azionisti di riferimento (l’Italmobiliare dei Pesenti e la Montedison) e, tuttavia, di sostanziale subordinazione degli interessi aziendali alle necessità degli stessi azionisti di riferimento, in particolare a quelle della Montedison» (Piluso, in C. M. Il presidente scomodo, p. 300); la polemica presa di posizione del M. sulla lunga si risolse, però, con la scalata della società da parte di M. Sindona, il quale seppe approfittare della crisi interna al sindacato di controllo e infine cedette le azioni rastrellate (fra cui quelle delle Generali) alla Montedison di E. Cefis che, a sua volta, nel 1971, la fuse con la Italpi, una controllata della stessa Montedison.
Proprio nel corso del 1970, il M. era stato per breve tempo alla presidenza della Montedison, nominato con l’avallo di Cefis, che in quel momento forse lo vedeva come elemento di possibile equilibrio fra le molte esigenze che dividevano la proprietà, e quindi concernevano gli indirizzi di gestione, del nuovo polo della chimica italiana, rappresentate dalla finanza sia pubblica sia privata, con particolare riguardo, in quello specifico momento, all’azionariato di minoranza. Il M. assunse l’incarico «a tempo» e con l’esplicita intenzione «di affermare il carattere privatistico della società» (ibid., p. 308); tuttavia egli non era un uomo di mediazione, quindi lo scontro con la politica poi perseguita da Cefis, tendente a condurre il gruppo chimico verso l’area pubblica – e quindi nella direzione opposta a quella prevista e sostenuta dal M. – era inevitabile. Nel breve periodo in cui fu alla presidenza il M. fece, in situazione critica, difficilissimi tentativi di riorganizzazione; la pubblica denuncia da parte sua della presenza di fondi neri extra bilancio collegati alla precedente gestione presentata al consiglio di amministrazione (e non alla magistratura), il suo progressivo isolamento anche nei rapporti con gli azionisti di minoranza che erano stati i suoi maggiori sostenitori portarono, il 5 dic. 1970, alle dimissioni del M. e a una sua sostanziale rottura con larghi strati della comunità industriale e finanziaria italiana.
Nel corso di questi complessi avvenimenti, al M. occorsero incontri e scontri, intensi e problematici, con alcuni fra i principali protagonisti della storia economica italiana degli anni Settanta sviluppatisi in campi diversi, ma tutti significativamente rappresentativi dei rapporti di forza e delle peculiarità del modello di sviluppo italiano.
Il M. lasciò la presidenza attiva delle Generali nel 1979, convinto a torto di poter continuare, come presidente onorario, a giocare un ruolo determinante. Disilluso, si tenne in disparte trascorrendo molti mesi dell’anno a Cannes e non mancando di far sentire la sua voce dalle colonne di alcuni fra i principali quotidiani italiani.
Il M. morì a Roma il 1° maggio 1991.
Fonti e Bibl.: Principale fonte per una biografia del M. sono le carte personali conservate a Roma presso la famiglia, in base alle quali sono stati pubblicati i volumi: C. Merzagora, Lo strano paese. Scritti giornalistici 1944-1986, a cura di N. De Ianni, Napoli 2001 (introduzione di N. De Ianni, C. M., un tecnocrate al potere, pp. 13-103); C. M. Il presidente scomodo, a cura di N. De Ianni - P. Varvaro, Napoli 2004, costituito dai seguenti saggi monografici alla cui esaustiva bibliografia, indicata nelle note, si rinvia: N. De Ianni, Tra industria e finanza (pp. 13-186); F. Bonelli, L’esperienza alla Banca commerciale italiana (pp. 189-202); D. Barbone, L’esperienza alla Pirelli (pp. 203-260); E. Boccia, Denaro per l’industria: l’Efi tra guerra e dopoguerra (pp. 261-279); G. Piluso, La gallina dalle uova di marmo: la Bastogi e le finanziarie italiane negli anni Sessanta (pp. 281-308); G. Mastroianni, I fondi neri e la presidenza Montedison (pp. 309-344); P. Varvaro, La politica al tempo di M. (pp. 345-456).
N. De Ianni