MARTINENGO, Cesare
MARTINENGO (Martinengo Cesaresco), Cesare. – Nacque probabilmente a Brescia, nell’ultimo decennio del secolo XIV, da Gerardo e da Caterina (forse Ugoni).
Il padre, di professione condottiero, negli ultimi decenni del Trecento insieme con i fratelli Antonio e Prevosto restaurò l’antica potenza familiare. Fu in particolare Prevosto a raccogliere sotto il suo controllo un ampio patrimonio di beni e diritti, grazie soprattutto ai rapporti con la corte viscontea di Milano. Tali beni, amministrati dapprima congiuntamente (1392), furono in seguito divisi, come risulta dagli atti notarili del 6 sett. 1421 e del 23 sett. 1429, data quest’ultima in cui Gerardo risulta già defunto (cfr. Guerrini, 1930, pp. 327 s.).
Nel 1430 il M. e il fratello Marco comprarono i possedimenti di Orzivecchi, dove Gerardo aveva fissato la sua residenza familiare. Il 29 sett. 1433 il M. divise il patrimonio con Marco e i nipoti, eredi di un terzo fratello, Luigi, di cui si conosce poco; il 1° agosto precedente, però, aveva ottenuto dal doge Francesco Foscari un privilegio con il quale la Repubblica di S. Marco, sotto il cui controllo era ormai passato il distretto di Brescia, dava fondamento giuridico al feudo di Orzivecchi, attribuendo al M. la piena giurisdizione penale e civile. Forse per rispetto verso il fratello maggiore, ma anche per evitare pericolose lotte intestine, il M. ammise Marco a condividere tali diritti, esercitati pertanto insieme fino alla morte di questo, avvenuta a Orzivecchi nel 1450: di fatto, l’iniziativa del M. segnava l’avvio del ramo dei Martinengo da lui detto Cesaresco.
Il M. seguì le orme paterne nella carriera militare. I suoi primi impegni si svolsero nel Mezzogiorno d’Italia al servizio del capitano di ventura Muzio Attendolo Sforza che, al soldo di Giovanna II d’Angiò, era impegnato nel rafforzare il controllo del Regno, in cambio di vari feudi in Basilicata, e nel tessere un’abile politica matrimoniale. All’interno di tale strategia nel 1418 concluse le nozze tra suo figlio Francesco e Polissena Ruffo, contessa di Montalto; tra i condottieri che accompagnarono il giovane Sforza in Calabria compare il Martinengo. Alla fine del 1419 la scomunica papale inflitta alla regina Giovanna e il trasferimento della corona a Luigi III d’Angiò portarono a militare nella parte angioina Muzio Attendolo e i suoi capitani, tra i quali anche il M. che fu impegnato in operazioni in Calabria.
Nel corso del conflitto, diffusasi la notizia – poi rivelatasi falsa – della morte dello Sforza, il M. decise di passare agli ordini di Giovanni di Issera, luogotenente della casata aragonese, contrapposta agli Angiò. Questo cambio di fronte non gli giovò, dal momento che Muzio Attendolo sconfisse, insieme con Luigi da San Severino, presso Cosenza, le truppe aragonesi e catturò lo stesso M., per poi perdonarlo e reintegrarlo. Nel 1423 il M. risulta ancora al seguito di Muzio Attendolo che, il 30 maggio, batté le truppe aragonesi a Casanova; nei mesi successivi Giovanna II, revocata l’adozione di Alfonso d’Aragona, la sostituì con quella di Luigi III. Muzio Attendolo e Francesco volsero allora, nel mese di dicembre, le loro truppe in Abruzzo contro Braccio da Montone (Andrea Fortebracci), capitano al soldo di Alfonso. Anche il M. prese parte alla campagna militare, che si concluse il 4 gennaio dell’anno seguente con la morte, per affogamento nel Pescara, di Muzio Attendolo. Il M. proseguì allora il suo servizio sotto Francesco Sforza, rientrando con lui in Campania; lo Sforza dapprima pose l’assedio a Napoli che, grazie anche all’intervento della flotta genovese, capitolò in breve tempo; quindi marciò nuovamente contro Braccio da Montone sconfiggendolo, nel corso della battaglia dell’Aquila, il 2 giugno 1424; allo scontro partecipò anche il M., che fu fatto prigioniero.
Cosa accadde in seguito non è noto: pare che il M. abbia ripreso il servizio presso lo Sforza, il quale nel frattempo andava legandosi sempre più al duca di Milano Filippo Maria Visconti, e dopo la morte del padre, avvenuta nel 1425, fece ritorno a Brescia per occuparsi dei possedimenti familiari. Con lo scoppio, il 3 marzo 1426, del conflitto tra Filippo Maria e la Lega veneto-fiorentina il M. fu subito coinvolto.
L’intero territorio bresciano si trovava al confine tra i due Stati e dal 1421 era di nuovo sotto il controllo milanese; per questo il primo atto di Francesco Bussone conte di Carmagnola, passato l’anno precedente al servizio di Venezia, fu di investire Brescia. Qui la situazione appariva favorevole, a causa della crescente irritazione contro i Visconti delle famiglie bresciane. Nella notte tra il 16 e il 17 marzo queste si mossero con le loro forze, costringendo i Viscontei a rinchiudersi nel castello, dove resistettero all’assedio sotto la guida di Antonio Landriani e del M., il quale, a differenza dei cugini Antonio e Leonardo, aveva mantenuto la fedeltà a Milano. Il 21, in loro soccorso, giunse lo stesso Francesco Sforza: il M. ritrovò così il suo vecchio comandante, ma l’arrivo del Carmagnola costrinse la città alla resa che, il 20 novembre, cadeva in mano veneziana. Il M. abbandonò Brescia, proseguendo la militanza nell’esercito visconteo.
Nel gennaio del 1427 una tregua interruppe il conflitto; in tale contesto, una delegazione della Repubblica e del governo cittadino si presentò davanti a Orzinuovi per avere in consegna la cittadina, secondo gli accordi. Gli ambasciatori incontrarono però il M., il quale, sollecitato da Filippo Maria Visconti, li scacciò, mantenendo Orzinuovi sotto il controllo milanese. Le ostilità fra Venezia e Milano ripresero presto vigore e, il 12 ottobre, le truppe milanesi furono disastrosamente sconfitte dai Veneziani – guidati dal Carmagnola e nelle cui file si trovavano Antonio e Leonardo Martinengo – nella battaglia di Maclodio, al termine della quale il M. cadde prigioniero, e fu liberato solo con il pagamento di un riscatto.
Nel frattempo, nonostante le incertezze belliche, il M. non trascurò di stabilire buone relazioni anche con la Serenissima, interessata a normalizzare i rapporti con l’aristocrazia bresciana: in tale prospettiva il M. e i suoi familiari ottennero, nel novembre del 1427, la conferma del godimento di tutti i loro beni e privilegi.
Non è noto quale ruolo il M. abbia svolto nel prosieguo della guerra, conclusasi con il trattato di Ferrara (1428). Nel successivo breve periodo di pace egli intervenne nella definitiva divisione dei beni dei Martinengo, mentre nel 1430 passò al servizio del papa, Martino V, militando in Emilia nelle file di Giacomo Caldora.
Dopo le tumultuose vicende del 1428, il controllo di Bologna era stato assunto dalle famiglie Canetoli, Zambeccari e Griffoni, che avevano costretto il legato papale a rifugiarsi a Cento. Successivamente le truppe del Caldora penetrarono nel Bolognese giungendo a San Giovanni in Persiceto e a Corticella, da dove attaccarono la città, senza però riuscire a costringere alla resa i nemici. In seguito il Senato bolognese decise comunque di avviare trattative di pace, che si conclusero nell’aprile del 1431, quando a Martino V era ormai succeduto Eugenio IV.
Nel 1431 il M. si allontanò dalla regione emiliana, perché nel gennaio era ripreso il conflitto tra Milano e Venezia. Questa volta scelse di militare dalla parte della Repubblica, alla quale lo legavano interessi di ordine patrimoniale e vincoli parentali. L’andamento del conflitto non soddisfece il governo veneziano che, sospettando del Carmagnola, lo fece arrestare e condannare: il M. fu anticipatamente informato di quanto si stava preparando, il che attesta il ruolo rilevante da lui svolto nell’esercito veneziano. Il comando fu allora assegnato a Gianfrancesco Gonzaga che, dopo avere respinto l’attacco di Niccolò Piccinino, non invase però il Milanese, preferendo tornare a Mantova. A capo dell’esercito furono quindi posti il provveditore veneziano Giorgio Corner e Federico Contarini: il primo si diresse, insieme con il M., in Valcamonica e in Valtellina, ma a Delebio (Colico) furono sconfitti e fatti prigionieri (19 nov. 1432). Il M. ottenne la libertà solo dopo la fine della guerra, conclusasi con la seconda pace di Ferrara l’8 apr. 1433, dietro il versamento di una forte indennità.
Va pertanto collocato in questo contesto il già ricordato privilegio del doge Francesco Foscari, quale ricompensa verso il Martinengo. Venezia intendeva così convincerlo ad abbandonare definitivamente Milano; egli però, pur riconoscente alla Repubblica per un atto che sistemava la situazione giuridico-patrimoniale del suo casato, continuò a preferire la libertà d’azione. Del suo valore militare il M. offrì nuova prova nei primi mesi del 1434 quando il fratello di Francesco Sforza, Tristano, fece deviare a Roccafranca parte della portata dall’Oglio, danneggiando i terreni posseduti dal Martinengo. Senza perdere tempo, il M. fece rompere le travature abusive costruite allo scopo e Tristano fece intervenire un altro noto capitano, Antonio Attendoli detto il Ciarpellone, conestabile ducale, che le fece ricollocare. Il M. ne fu avvertito e tra i due sorse un violento litigio, che si concluse con un duello tenutosi l’8 febbraio alla Macina, tra Orzivecchi e Soncino, alla presenza di una grande folla. Vi fu dapprima uno scontro a cavallo con lancia e spada, quindi lo scontro proseguì a terra, finché il Ciarpellone, ferito, dovette farsi disarmare.
Qualche mese dopo Filippo Maria ordinò al Piccinino e a Francesco Sforza di invadere le terre pontificie per punire Eugenio IV per l’appoggio dato a Venezia. La Repubblica rispose inviando truppe in Emilia, sotto il comando di Niccolò da Tolentino, alle quali il M. si unì. Il 28 agosto i due eserciti si affrontarono a Castel Bolognese, presso Imola, città che in giugno si era consegnata ai Viscontei: la vittoria arrise ancora una volta al Piccinino, il quale catturò, oltre al Tolentino, altri cinque capitani, tra i quali il M., liberato dietro riscatto. Durante la prigionia il M. dovette riannodare i rapporti con i Visconti e nel 1437, quando lo scontro con la Lega veneto-fiorentina si riaccese, militava nell’esercito milanese. In seguito alla defezione di Gianfrancesco Gonzaga, passato dalla parte di Filippo Maria Visconti, il territorio bresciano fu invaso nuovamente dai Viscontei. Il M. partecipò quindi all’avanzata delle truppe guidate dal Gonzaga e dal Piccinino che, nel corso del 1438, assediarono Brescia. Il M. non prese parte a tale azione e fu invece incaricato, in agosto, di contattare segretamente Antonio e Leonardo Martinengo, suoi cugini di secondo grado, al fine di farli defezionare dal campo della Serenissima e fare insorgere Brescia a favore dei Ducali. Il tentativo non ebbe successo, così come non lo ebbe l’invio di una lettera, scagliata con una freccia per ordine del Piccinino oltre le mura, nella quale il M. esortava i cittadini a consegnarsi ai Milanesi.
A novembre, mentre l’assedio proseguiva, il M. si portò a Mompiano, da dove coordinò l’occupazione della Val Trompia al fine di impedire i rifornimenti agli assediati; nel gennaio 1439 fu posto dal Piccinino a guardia di due forti, che bloccavano le vie di accesso a Brescia dalle valli Sabbia e Trompia. Il 9 novembre sotto la rocca di Tenno si tenne la battaglia decisiva: il Piccinino, sconfitto, riuscì a fuggire, mentre il M. fu ferito e fatto prigioniero. Condotto a Venezia, fu rinchiuso in carcere e poi rilasciato con l’impegno di abbandonare il servizio dei Milanesi e non prendere più le armi contro la Serenissima. Non pare, tuttavia, che abbia mantenuto la promessa se, nel 1440, era alla guida di truppe viscontee con il grado di capitano di compagnia e segnalato in transito da Borgo Lavezzano e da Ceredano.
La guerra si stava avviando ormai alla conclusione con la sconfitta dei Milanesi, battuti il 10 aprile nello scontro di Torbole (Casaglia), che si allontanarono dal territorio bresciano.
Il duca comunque ricompensò il M. per la sua fedeltà investendolo, il 9 febbr. 1441, del feudo di Casteggio nell’Oltrepò pavese e di numerosi contadi; possessi che rimasero nelle sue mani fino al 1447.
Conclusa la pace, il M. si mise ancora a servizio dello Sforza e da questo fu inviato, con altri capitani e cavalieri, nel Regno di Napoli, per dare sostegno a Renato d’Angiò, impegnato dal 1438 contro Alfonso V d’Aragona. Nella primavera del 1442 il M. era in Abruzzo, dove affrontò Riccio da Montechiaro e Giosia Acquaviva; quindi, nell’estate, raggiunse in Puglia Vittore Rangoni per difendere i possedimenti sforzeschi che Alfonso aveva sequestrato. Sbarcato a Manfredonia, il M. si unì a Lionello Accrocciamuro, conte di Celano, e a Francesco da San Severino, partigiani di Renato; poi, dopo aver avanzato fino a Troia, si pose a difesa della città assediata da Alfonso d’Aragona, attaccando gli avversari nella pianura e ripetendo qualche giorno dopo l’assalto a mezza costa. Solo grazie all’intervento di Francesco da San Severino il M. riuscì a non soccombere alla pressione nemica. La sua militanza continuò, sempre a favore dei baroni ribelli, finché, cinto d’assedio a Manfredonia in novembre, dovette patteggiare col sovrano aragonese cedendogli sia questa città sia Troia. In cambio ricevette 500 ducati e la possibilità di passare al suo servizio; poco dopo era a Foggia con 160 lance, mentre in dicembre gli furono consegnati altri 4000 ducati.
Nella primavera del 1444 il M., attraversato il fiume Tronto, si unì alle compagnie al soldo di Eugenio IV, turbando il territorio di Ascoli Piceno e quello di Fermo. All’inizio del 1445 Filippo Maria scese ancora in campo contro suo genero Francesco Sforza, creando una nuova lega con il papa e i Malatesta, signori di numerose città marchigiane. Anche il M. partecipò alle attività belliche, con un ruolo però non del tutto chiaro: è nota solamente la sua presenza, nel mese di dicembre, a Forlì dove s’incontrò con Antonio Ordelaffi. Più documentata è la sua attività nel corso dell’anno successivo, durante il quale Francesco Sforza cercò di rovesciare le sorti invadendo l’Umbria, allo scopo di sollevarla contro Eugenio IV e marciare su Roma. Il 12 giugno fu però respinto a Todi dall’intervento del M., nominato dal papa governatore della città e dove garantì al pontefice la fedeltà dei cittadini. Frustrato nel suo tentativo, lo Sforza dovette tornare a Jesi, unica città della Marca ancora in suo possesso, e affrontare l’ultima offensiva degli avversari. Proprio in ordine a essa il M., in luglio, mosse il suo esercito tra Fossombrone e Fano e, nel mese di agosto, occupò Montefabbri; in seguito si trasferì nel Riminese con 500 uomini, onde riprendere il controllo dell’area romagnola, per poi dirigersi in ottobre con altri condottieri verso Tavoleto.
Verso la fine dell’anno il re di Napoli ordinò al M. di dirigersi verso la Lombardia: approfittando delle difficoltà dello Sforza, Filippo Maria aveva dato ordine a Francesco Piccinino di riprendere il controllo di Cremona. Inevitabili a questo punto la reazione della Lega veneto-fiorentina e la ripresa degli scontri. In novembre il M. passò il Po, ma dovette presto fermarsi fino a dicembre e attendere l’arrivo del soldo da Milano, senza il quale i suoi soldati non intendevano combattere. Nel frattempo, Filippo Maria e Francesco Sforza avevano avviato i contatti che, nel corso del 1447, avrebbero portato quest’ultimo a trasferirsi nuovamente sotto le bandiere ducali. Opposto fu il percorso del M. dal momento che, dopo la morte di Eugenio IV (23 febbraio), mentre stava svernando con Roberto da Montalboddo nel Parmense, si ritenne libero dai precedenti impegni e passò al servizio di Venezia, con la sua compagnia. Il contratto di ferma con la Repubblica prevedeva la durata di un anno, cui si aggiungevano sei mesi di rispetto, agli ordini di Micheletto Attendolo, capitano generale degli eserciti veneziani: questi lo inviò in giugno nel Bresciano con 4000 guastatori, quindi nel Cremonese per devastare le campagne. Dopo la morte di Filippo Maria (13 agosto) Francesco Sforza assunse la guida dell’esercito milanese, riconquistando Piacenza caduta in mano veneziana. Passato l’inverno, nel 1448 i Veneziani furono costretti a ripiegare disordinatamente nel Bresciano, dove in aprile troviamo il M. accampato tra Orzivecchi, Roccafranca, Castelcovati e Calino; quindi, in maggio, il M. attraversava l’Oglio fermandosi a Calcio, dove si mantenne in posizione difensiva di fronte all’avanzata degli Sforzeschi. Riunitosi con il grosso dell’esercito, in luglio si trovava a San Giovanni in Croce, dove, nottetempo, un forte incendio colpì il campo veneziano, distruggendo ingenti beni appartenenti a Micheletto e al Martinengo. Poco dopo Francesco Sforza pose l’assedio a Caravaggio, dove il 14 settembre fu assalito dalle truppe veneziane; la mossa si concluse con la completa disfatta degli attaccanti, molti dei quali caddero prigionieri del conte, non però Micheletto e il M. che si salvarono con la fuga. Nel dicembre di quello stesso anno al M. fu rinnovata la condotta; in seguito fu inviato ad assediare Crema, rimasta fedele alla Repubblica Ambrosiana, che si arrese al M. il 19 sett. 1449.
Nel febbraio del 1450 Francesco Sforza assunse il titolo ducale, mentre Venezia, rovesciate le alleanze, preparava la ripresa del conflitto. In questo contesto, in aprile fu rinnovato il contratto di ferma al M. per 700 cavalli e 100 fanti; in particolare l’anno seguente gli fu affidato il compito di potenziare, insieme con Pietro Avogadro, le difese di Brescia, in previsione di una nuova minaccia sforzesca. Infatti, nella primavera del 1452 la guerra scoppiò: il M. si unì al grosso delle truppe veneziane comandate da Gentile della Leonessa, suo collega d’armi durante l’assedio di Crema, e, dopo avere posto il campo a Manerbio, devastò il Cremonese e il Lodigiano. Quindi, alla guida di 200 cavalieri, penetrò nel Milanese, scontrandosi con gli Sforzeschi presso Melzo. Seguì la reazione del duca, ma il 6 novembre, mentre gli eserciti erano schierati presso Montichiari, con un abile colpo di mano il M. si impadronì di Longhena. In dicembre lo incontriamo attorno a Ghedi, quindi, con Carlo Gonzaga e Guido Rangoni, fu costretto a intervenire nel campo veneziano, che si era sollevato a causa di una rivolta notturna dei saccomanni, un episodio che conferma la stanchezza con cui si trascinava il conflitto. Nel gennaio del 1453 appoggiò Jacopo Piccinino in un’incursione verso Castiglione delle Stiviere; in luglio fu costretto ad affrontare un’altra questione interna all’esercito veneziano: giunto con il Rangoni nei pressi di Montirone, fu chiamato a far parte di un giurì d’onore per decidere la liberazione del condottiero sforzesco Donato Del Conte.
In agosto il M. ritornò a Ghedi tentando senza successo, con Antonello del Cornedo, un colpo di mano contro gli Sforzeschi. In ottobre Francesco Sforza avanzò con decisione nel distretto di Brescia, minacciando per l’ennesima volta la città e il vicino territorio veneto, tant’è che in novembre il M. si spostò nel Veronese per parare eventuali mosse sforzesche. Ma il protrarsi della guerra aveva esaurito le forze dei contendenti che sottoscrissero la pace di Lodi (1454), a seguito della quale fu possibile procedere alla riorganizzazione della giurisdizione nel territorio bresciano, premiando coloro che avevano mantenuto fedeltà al governo cittadino e alla Repubblica di S. Marco.
Ormai in avanti con gli anni il M., la cui carriera giungeva all’epilogo, si dedicò alla cura del patrimonio familiare.
In previsione di ciò aveva provveduto, sin dal 1447, a fissare una residenza stabile a Brescia, acquistando alcune case nella contrada di S. Agata vicino al palazzo vescovile; l’anno successivo si era adoperato per ottenere il consenso papale per l’erezione del monastero di S. Chiara Nuova. Nel 1451 aveva ampliato i suoi possedimenti cittadini comperando altri edifici che, insieme con i precedenti, furono abbattuti nel primo Cinquecento per lasciare il posto al monumentale palazzo dei conti Martinengo Cesaresco. Alternando la presenza a Brescia con quella a Orzivecchi, il M. provvide inoltre a consolidare il feudo, stipulando numerosi atti di acquisto di terre e varie permute di beni.
Il M. morì a Brescia nella prima metà del 1461.
Già nel novembre del 1449 aveva fatto testamento, in cui nominava erede innanzi tutto la moglie Orsolina, figlia del conte d’Arco, sposata probabilmente nel 1434, che gli aveva dato otto figli, di cui cinque maschi. Questi (Agostino, Giorgio e Ottaviano, tutti e tre uomini d’arme, Fortunato, dottore in legge, e Giovanni Antonio) condivisero con la madre l’eredità del M., il quale lasciò anche un legato di 100 scudi alla chiesa di S. Barnaba che aveva eletto come luogo di sepoltura; ai frati dell’annesso convento occorse però un atto giudiziario del 23 giugno 1461, data alla quale il M. era quindi già defunto (cfr. Maffeis), per ottenere dalla vedova e dai figli il versamento della somma stabilita.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Brescia, Archivio Martinengo, filze 2, b. 302; 10, b. 310; b. 459: Libro secondo dei privilegi, cc. 62, 188; Archivio territoriale ex Veneto, Annali, I, reg. 18, cc. 2, 67-70, 112 s.; Brescia, Archivio vescovile, Arch. della Cancelleria, b. Vicaria di Orzinuovi; Ibid., Biblioteca civica Queriniana, Mss., H.v.5: Libro dei privilegi, cc. 5-9, 20-22, 165-167, 265-281; M. Sanuto, Vite dei dogi, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XXII, Mediolani 1733, coll. 1036, 1082, 1086, 1089; Annales Forolivienses, a cura di G. Mazzatinti, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XXII, 2, pp. 91, 93; C. Ghirardacci, Historia di Bologna, a cura di A. Sorbelli, ibid., XXXIII, 1, pp. 20, 40, 119; Cristoforo da Soldo, Cronaca, a cura di S. Brizzolara, ibid., XXI, 3, pp. 38, 68 s., 77 s., 81-84, 107, 114; I Libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, IV, Venezia 1896, p. 122; I registri viscontei, a cura di C. Manaresi, Milano 1915, nn. 93, 106, 171, 178, 204; D. Codagli, Historia Orceana, Brescia 1592, pp. 70 s., 111; O. Rossi, Elogi historici di bresciani illustri, Brescia 1620, p. 160; N.F. Faraglia, Storia della regina Giovanna II d’Angiò, Lanciano 1904, p. 221; P. Guerrini, Il castello feudale e la parrocchia di Orzivecchi, in Brixia sacra, IV (1913), pp. 316-320; Id., Una celebre famiglia bresciana. I conti di Martinengo, Brescia 1930, pp. 327 s., 403, 405-412; F. Cognasso, Il Ducato visconteo da Gian Galeazzo a Filippo Maria, in Storia di Milano, VI, Milano 1955, pp. 348, 363, 370; C. Pasero, Il dominio veneto fino all’incendio della Loggia, in Storia di Brescia, II, Brescia 1963, pp. 8, 20, 22, 36, 39 s., 52, 59, 63, 66, 68, 77, 84, 89-91, 98, 100, 102, 108; A. Fappani, Martinengo Cesaresco, in Enc. bresciana, VIII, Brescia 1991, pp. 305 s.; Id., Martinengo Cesaresco C. I, ibid., p. 310; L. Leo, Proprietà, signori e privilegi: i Martinengo, in Famiglie di Franciacorta nel Medioevo, a cura di G. Archetti, Brescia 2000, pp. 135 s., 144; G. Fusari, Roccafranca. Storia di un feudo vescovile nelle proprietà dei Martinengo, Roccafranca 2003, pp. 60-64; F. Maffeis, La famiglia Martinengo, in La battaglia di Maclodio, Brescia 2007, pp. 89-92.