LUCATELLI, Cesare
Primo di sei figli, nacque a Roma il 20 apr. 1823 da Antonio, brigadiere dei dragoni pontifici con l'incarico di caposcozzone, cioè di capo dei domatori di cavalli, e da Carolina Angelelli. Persa la madre nel settembre del 1837, forse il fatto di vivere in un ambiente di parenti e amici mosaicisti e scalpellini lo indirizzò, come poi il fratello Annibale (nato a Roma il 4 marzo 1827), ad apprendere l'arte del mosaico.
Dall'insegnamento del padre, che aveva militato nell'esercito napoleonico ed era stato cultore di storia romana (non a caso aveva chiamato i primi tre figli Cesare, Augusto e Annibale), i due fratelli trassero una grande sensibilità agli ideali di libertà e di indipendenza nazionale; ciò fece sì che nel marzo del 1848, allo scoppio della guerra contro l'Austria, essi si arruolassero volontari nel battaglione universitario. Durante la campagna nel Veneto, il L. divenne caporale e Annibale si distinse rimanendo ferito il 12 maggio a Treviso.
Tornati a Roma, militarono entrambi nel 1849 nell'esercito repubblicano contro i Francesi e, caduta la Repubblica, cospirarono nelle file mazziniane dell'Associazione nazionale. Mentre il fratello riprendeva gli studi da mosaicista, sovvenzionato da una pensione di 15 scudi mensili proveniente dall'eredità del principe russo M. Galitzin (Golycin), il L. intraprese l'attività di oste.
Di carattere impulsivo e ardente, il L. non fu immune da eccessi: nel 1845 era stato perseguito per ingiurie a un soldato pontificio; nel 1851 fu processato dal Consiglio di guerra francese e condannato a quattro mesi di detenzione per una rissa l'anno prima con un gruppo di soldati francesi che, dopo aver mangiato nella sua osteria, non avevano pagato il conto. In seguito dovette abbandonare l'attività di oste e arrangiarsi come cameriere, prima di rimanere disoccupato nel maggio del 1853.
Non toccò sorte migliore al fratello che, sospettato di essere coinvolto in alcuni delitti a sfondo politico da poco verificatisi in Roma e desideroso di affermarsi altrove nella sua professione e sapendosi ricercato dalla polizia, nella primavera del 1852 si era rifugiato a Genova. Di lì, avendo stretto rapporti con l'emigrazione mazziniana, ai primi di agosto del 1853 decise di ritornare con alcuni compagni per promuovere un tentativo di insurrezione in Roma, in seguito alla scissione che vi era stata tra il gruppo dei repubblicani intransigenti e coloro che si erano dissociati da Mazzini dando vita al Comitato nazionale romano.
Ad attendere gli insorti in piazza della Chiesa Nuova c'era appunto il L., che provvide alla loro sistemazione in vista dell'azione fissata per il 15 del mese. Ma la congiura fu scoperta e portò all'arresto non solo del gruppo repubblicano facente capo a G. Petroni, ma anche di quello liberale più moderato. Nel processo che seguì, tra tante confessioni e complete rivelazioni in cambio dell'impunità, i due fratelli Lucatelli si distinsero nel negare tutto e nel cercare di non compromettere gli amici.
Con sentenza del 25 sett. 1854 il L. fu condannato a dieci anni di reclusione, mentre al fratello Annibale fu inflitto l'ergastolo. Un'altra sentenza, del 19 dicembre successivo, abbassò la pena a cinque anni per il L. - che poi se la vide ridurre di altri due anni - e a venti per il fratello. Quasi tutti i condannati furono detenuti nel forte di Paliano, da cui il L. fu dimesso il 22 sett. 1856 e posto in libertà due mesi dopo, dietro imposizione di rigoroso precetto politico.
Uscito dal carcere, riprese l'attività di oste ma poi, con il rincaro del vino, dovette abbandonarla di nuovo e all'inizio del 1860 fu assunto come facchino nell'agenzia degli omnibus della ferrovia Roma-Civitavecchia. Non erano però finite le sue disavventure giudiziarie, dato che nel gennaio 1861 fu condannato a un mese di detenzione per aver ferito nel settembre del 1860 durante una lite un facchino di piazza. Intanto i brillanti successi della politica cavouriana avevano indotto anche lui ad aderire all'indirizzo monarchico-costituzionale del Comitato nazionale romano e a partecipare alle varie manifestazioni politiche organizzate contro il governo pontificio. Era presente anche la sera del 29 giugno 1861, festa di S. Pietro.
Al termine dei fuochi d'artificio in piazza del Popolo, mentre la folla si stava riversando per via del Corso, si accesero improvvisamente, poco dopo le dieci, due bengala tricolori ai piedi della facciata della chiesa di S. Carlo e apparvero alle finestre di un edificio due quadri raffiguranti Vittorio Emanuele II re d'Italia e una scritta di omaggio a Napoleone III. Contemporaneamente si alzarono grida inneggianti ai due sovrani e all'Italia, e quando una pattuglia di quattro gendarmi pontifici intervenne, fu investita da fischi, urla, minacce di morte e, pressata dal tumulto dei manifestanti, fu costretta a retrocedere fin sotto palazzo Ruspoli. Lì il capopattuglia F. Velluti fu raggiunto da due pugnalate, prima alla coscia sinistra, poi al basso ventre e, invocando aiuto, cadde a terra; i suoi tre compagni, individuato colui che ritennero essere l'aggressore, riuscirono ad arrestarlo. A terra rimase un lungo coltello "fermo al manico" che, raccolto da un gendarme, dalle perizie risultò essere l'arma del delitto. L'arrestato, ferito alla testa e all'addome, era il Lucatelli. Condotto dai soldati francesi al loro comando di piazza e poi all'ospedale della Consolazione, fu medicato e vi rimase sorvegliato per qualche giorno prima di essere trasferito in una segreta delle Carceri nuove. Velluti fu trasportato all'ospedale S. Giacomo dove poco dopo morì. Il L. si disse subito totalmente estraneo al delitto e dichiarò che, avendo imboccato via del Corso, all'improvviso era stato colpito alla testa da un gendarme pontificio e poi ferito all'addome da un soldato francese verso cui correva per ricevere aiuto. Alla sua versione si contrappose, però, quella di nove testimoni oculari che affermarono di aver visto il L. colpire con il coltello Velluti. Questa tesi, unita ad altre testimonianze indirette, veniva rafforzata dai precedenti del L., da alcune sue affermazioni non veritiere circa i propri movimenti nella giornata e dall'aver indossato per l'occasione vestiti che richiamavano in qualche modo il tricolore. Non mancavano, inoltre, indizi che potevano suggerire l'ipotesi della premeditazione e della fuga.
Su questi presupposti e in un processo senza testimoni a discarico, era difficile una difesa. Infatti, l'avvocato nominato dal L. rifiutò il mandato e il difensore d'ufficio tentò inutilmente, nell'udienza del 6 sett. 1861, la carta della rissa di più persone e dello stato di ebbrezza del suo assistito.
La sentenza, emessa all'unanimità, fu di condanna "all'ultimo supplizio" per omicidio "con animo deliberato, e per ispirito di parte". Vani furono tutti i tentativi per salvarlo (come l'inverosimile autoaccusa del delitto da parte dell'esule pontificio G. Castrucci, davanti al procuratore di Firenze) o per ottenere la grazia. La sentenza fu comunicata all'interessato soltanto alle undici di sera del giorno precedente l'esecuzione e fu accolta con sarcasmo, se è vero che egli "ne ringraziava, e che era per accettare la condanna con tutto coraggio" (rapporto del 20 settembre delle Carceri nuove).
Il processo al L. si prestò fin dall'inizio a strumentalizzazioni politiche e ad aspre polemiche: il governo pontificio lo usò come deterrente esemplare per ristabilire l'ordine pubblico; il liberalismo nazionale, schieratosi per l'innocenza, lo additò come esempio di un malgoverno non più tollerabile. Sulla sentenza influirono certamente le insufficienze del sistema giudiziario pontificio e la sbrigativa sottovalutazione di dubbi e attenuanti che avrebbero meritato maggiore approfondimento, ma è anche difficile considerare del tutto infondate tante testimonianze de visu su cui si basava l'accusa.
Inutilmente i membri della Confraternita di S. Giovanni Decollato cercarono nella notte precedente l'esecuzione di indurre al pentimento e alla confessione il L., al quale fu negato di rivedere il fratello Annibale che in quel periodo si trovava nel carcere di S. Michele.
Il L. fu giustiziato la mattina del 21 sett. 1861 in piazza Bocca della Verità.
Negli ambienti liberali si diffuse presto la notizia del comportamento sprezzante del L. che, rifiutato ogni conforto religioso e respinta la benda dei condannati, si rivolse ai gendarmi esclamando "Guardate come va a morire Lucatelli" e salì con fare spavaldo sul patibolo. Le sue spoglie furono sepolte in terra non benedetta in località Marmorata da dove il 26 sett. 1886 furono traslate solennemente al Verano.
Il fratello Annibale, condannato di nuovo a vita per una violenta rivolta nel carcere di Paliano, fu graziato ed esiliato nel 1868. Stabilitosi a Firenze, ritornò a Roma dopo il 1870 dove riprese l'arte di mosaicista, si formò una famiglia e morì il 27 giugno 1909.
Fonti e Bibl.: La documentazione sul L. è contenuta quasi interamente tra le carte dei due processi del 1853 e 1861 conservate presso l'Arch. di Stato di Roma, Tribunale supremo della S. Consulta, a. 1853, bb. 267, 309, 311, 312; a. 1861, bb. 275, 346; Confraternita di S. Giovanni Decollato, bb. 13, 18. Copie della sentenza e successivi rapporti relativi all'esecuzione sono presenti anche nell'Arch. segreto Vaticano, Segreteria di Stato, Parte moderna, rubr. 204, a. 1861, f. 3. Gli interrogatori del L. nel processo del 1861 sono stati pubblicati in M. Lizzani, I costituti di C. L., in Camicia rossa, XVII (1941), pp. 223-226; la sentenza e la relazione della Confraternita di S. Giovanni Decollato in O. Montenovesi, Un martire del nostro Risorgimento, Roma 1931. Di questo stesso autore si vedano: La figura del patriota romano C. L. rivendicata dai documenti del tempo, in Atti del III Congresso nazionale di studi romani, Roma( 1933, a cura di C. Galassi Paluzzi, Bologna 1933, II, pp. 458-464; C. L. e il processo a suo carico della Sacra Consulta, in Camicia rossa, XVI (1940), pp. 26-32. Altri riferimenti sono contenuti in: A. Gennarelli, Processo di morte compilato dalla Sacra Consulta contro C. L. di Roma, Firenze 1861; A. Fiore, Storia del miserando fine di C. L. vittima del potere clericale, Livorno 1861; N. Roncalli, Diario dall'anno 1849 al 1870, a cura di R. Ambrosi De Magistris - I. Ghiron, Torino-Firenze 1884, II, pp. 445-457; A. Lucatelli - L. Micucci, Carità di patria. Ai fratelli dimenticati. Ricordo, Roma 1889, pp. 96-107; E. Del Cerro, Cospirazioni romane (1817-1868): rivelazioni storiche, Roma 1899, pp. 234-251; R. De Cesare, Roma e lo Stato del papa. Dal ritorno di Pio IX al 20 settembre, Roma 1907, I, pp. 167, 170; II, pp. 166-169; G. Leti, Roma e lo Stato pontificio dal 1849 al 1870, Roma 1909, I, pp. 199, 255-261; F. Zamboni, Ricordi del battaglione universitario (1848-1849), a cura di E. Zamboni, Trieste 1926, pp. 199-201; F. Bartoccini, La "Roma dei Romani", Roma 1971, pp. 77, 225; M. d'Ayala, Vita degli italiani benemeriti della libertà e della patria, Torino-Roma-Firenze 1883, pp. 345-347; A. Brunialti, Annuario biogr. universale, Roma-Napoli 1888, III, pp. 167 ss.; V. Caputo, Figure del Risorgimento (1820-1870), Milano 1960, ad ind.; Diz. del Risorgimento nazionale, III, p. 398; Enc. biogr. e bibliografica "Italiana", F. Ercole, I martiri, pp. 213 s.